Realizzare un documentario dedicato a una grande personalità, costume negli ultimi anni assai diffuso, è pratica difficile. Occorre cesellarne lo sviluppo, non santificando l’immagine di chi si vuole raccontare ma riuscendo a riassumere con valide testimonianze, l’iter dell’artista, capendo in qualche modo le ragioni del suo successo. Ma come fare con Luigi-Gigi Proietti?
Un gigante del cinema, ma prima ancora del teatro, oggi come non mai bistrattato persino da morto, unico nel suo genere, capace come pochi di far ridere delle minuzie della vita. Vita che ascoltando Proietti diviene amabile, con la sua personalità pubblica esplosiva e coinvolgente quanto riservata nel privato.
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Realizzare un documentario dedicato a una grande personalità, costume negli ultimi anni assai diffuso, è pratica difficile. Occorre cesellarne lo sviluppo, non santificando l’immagine di chi si vuole raccontare ma riuscendo a riassumere con valide testimonianze, l’iter dell’artista, capendo in qualche modo le ragioni del suo successo. Ma come fare con Luigi-Gigi Proietti?
Un gigante del cinema, ma prima ancora del teatro, oggi come non mai bistrattato persino da morto, unico nel suo genere, capace come pochi di far ridere delle minuzie della vita. Vita che ascoltando Proietti diviene amabile, con la sua personalità pubblica esplosiva e coinvolgente quanto riservata nel privato. E Edoardo Leo, attore e regista, autore dell’affezionato omaggio Luigi Proietti detto Gigi, rende giustizia alla memoria di un uomo senza commozione o retorica in un valido documentario che mira più all’affetto che alla ricordanza.
Con l’escamotage di un caffè con le figlie e la sorella, ci vengono presentati aneddoti della sua infanzia intervallati dalle testimonianze di attori e amici, colleghi e pubblico comune che lo hanno accompagnato nel suo percorso. Dalle immagini di un Proietti giovanissimo che recita Don Chisciotte di fronte a un pubblico di perplessi e anche spaventati bambini, in tempi in cui la televisione era modello, al canto in grammelot stile Dario Fo con tanto di chitarra di accompagnamento; dal ballerino e cantante al fianco di Renato Rascel, al mago di A me gli occhi, please, sino al palco del suo Globe Theatre, il suo teatro per tutti, dove senza saperlo si raccontava per l'ultima volta.
Risate e amarezza come la sottrazione del Teatro Brancaccio a Roma che aveva contribuito a far rivivere, alla nascita nel 2003 di un teatro shakespeariano a Villa Borghese, insinuazioni frutto di mancanza di serietà e impegno che invece l’attore palesava con la sua inconfondibile risata, la sua mimica, l’approccio al teatro sperimentale, frutto di contaminazioni, barzellette, canto.
Una scintilla di vita pure maresciallo nella fiction, confuso tale in realtà, a dimostrare l’ineluttabile distico dell’esistenza umana dei grandi di cui ricordiamo più il personaggio che l’uomo. E quel che resta, al termine dell’ora e venti, oltre alla consapevolezza dell’impossibilità di non riuscire a rispondere alla domanda iniziale che è l’origine di tutto, della grandiosità di ogni artista, è quel retrogusto di saudade, di nostalgico presente, di qualcuno che non tornerà più, perché mai potrà eguagliare Luigi Gigi Proietti, l’amico di tutti noi.
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