Un altro giro

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In vino veritas? Lasciamo stare Kierkegaard

di Alfio Squillaci


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giovedì 16 settembre 2021

"Un altro giro", film di Thomas Vinterberg (2020)

Ubriacatevi, Enivrez-Vous!, suggeriva Baudelaire in una breve poesia di "Le spleen de Paris". Ma di cosa? "di vino, di poesia o di virtù, senza tregua" soggiungeva il sublime dandy parigino che altrove teorizzava lo sregolamento di tutto i sensi per meglio cogliere l'Assoluto.

Il tema dell'ubriachezza in questo film, visto nella splendida Arena Giardino di Marina di Riposto, il paese natio di Battiato che intrattenne un vivo rapporto con la poesia di Baudelaire ("Invito al viaggio", Fleurs 1999), si pone piuttosto come esperimento di verifica di una teoria stilata, ma pare da egli stesso sconfessata, dallo psicologo norvegese Finn Skarderud secondo la quale mancherebbe al nostro organismo lo 0,05 % di gradazione alcolemica, che occorre integrare non "per non essere più gli schiavi martirizzati del Tempo" come auspicava Baudelaire, ma più modestamente per raggiungere il giusto livello di alterazione psichica e disinibizione comportamentale al fine di migliorare la propria performance di mariti, insegnanti, semplicemente uomini vivi.

Ed ecco dunque quattro insegnanti di liceo sottoporsi a questo esperimento di assumere alcol gradualmente, che come è facile prevedere - perché all'inferno scendiamo un passo alla volta -, scappa loro di mano.

La meditazione che il film mi è parso suggerire è che l'alcol non sta in rapporto alla caratura delle personalità secondo l'uso o l'abuso che se ne fa. Viene piuttosto detto, in una scena, che da un astemio puro può saltar fuori un Hitler, che infatti non beveva, mentre tra quelli che alzano il gomito, invece, si possono rintracciare grand'uomini come Churchill o, al di là del tragico epilogo, grandi scrittori come Hemingway (che non beveva mai dopo le otto p.m - è una indicazione questa che resta appesa come un caciocavallo senza altra coloritura di significato), mentre d'altra parte, tra gli alcolisti brubrù, ecco passare le immagini buffe di Eltsin, Junker, Sarkozy. Come dire: ci sono ubriaconi stilosi contro ubriaconi da varietà. Ma anche suggerire: tutto sta nella misura, come la legna nel caminetto, né troppa né poca, ché del resto non ha senso indicare delle quantità, variando le personalità e le complessioni fisiche dei soggetti nel saper tenere botta all'urto dell'alcol. La terra in cui mi trovo mi ricorda invece che a queste latitudini, più che il caldo, ciò che scoraggia il ricorso all'alcol è la forte sanzione sociale: qui un ubriacone uscito dalla putìa (osteria) non è rivestito da alcuna aura di poesia o di maledettismo né ci si farebbe sopra un film, ma investito piuttosto da smorfie di scherno, e questo già nella cultura popolare, che qui è però egemone.

La cornice della pellicola è la Danimarca di Kierkegaard, il quale vi aleggia con una frase sull'amore e la giovinezza posta in epigrafe; non è detto, però, come troppo spesso è d'uso, tratta da quale opera, che potrebbe essere, visto il tema, "In vino veritas", dove leggo piuttosto questa frase che qualche attinenza ha col film per quell'aria di franchezza che vi serpeggia: non era permesso parlare se non in vino, dal momento che non è possibile ascoltare alcuna verità se non in vino, essendo il vino garante della verità e la verità del vino. Ma la produzione del film oltre che della Danimarca è di altri paesi del Nord Europa ove l'alcol prima di essere una piega dell'anima è una vera e propria piaga sociale che si lega alla severa Angst protestante cui manca sia la casuistica derogatoria dei peccati che buona parte della demonologia cattolica, la lotta tra demoni e angeli, l'alternanza di abiezione e riscatto, com'è nella visione di un cattolico chic come Baudelaire (che fu molto severo con l'assunzione delle droghe - assenzio, hashish - ripiegando sull'alterazione controllata e "poetica" del vino). Inoltre la cornice danese è richiamata intenzionalmente con canzoni popolari quando non con lo stesso inno nazionale, ci è parso, forse con l'indicazione incorporata per la quale ogni Paese è infelice o felice a modo proprio.

Il film mi è sembrato un mix strambo tra "Amici miei" (ma nulla della grulleria italica è scambiata tra i quattro robusti danesi tendenti allo spleen pesante più che alla beffa calandrinesca) e "L'attimo fuggente", non solo per l'ambientazione in una scuola, ma per quel tanto di indicazione sottotraccia alla pienezza della vita di cui si esorta a "succhiare il midollo" fino in fondo. E che trova riscontro, nonostante l'epilogo tragico, nel ballo orgiastico finale dell'attore protagonista (bravissimo l'intenso Mads Mikkelsen) contornato da una festa di fine anno dove l'alcol scorre a fiumi ritrovando il suo posto di naturale cornice. Cioè, qui le ragioni sono tutte buone per trincare, signora mia.

Film premiatissimo che si fa vedere fino alla fine senza stanchezza ma anche senza farci saltare dalla sedia.
Alfio Squillaci

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