8e1/2
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giovedì 1 novembre 2018
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ottimo film
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Una certa insistenza del regista (anche sceneggiatore) nel disorentiare lo spettatore alla lunga toglie un po' di emotività e di anima al film che però è costellato di 3-4 sequenze di grande cinema. I quattro attori che interpretano gli "adulti" del nucleo familiare attorno cui ruota la vicenda formano un ensemble attoriale davvero convincente, così come i due bambini che risultano sempre "intonati" e "in parte" (probabilmente anche grazie alla direzione di Kore'eda). Non un capolavoro, ma un ottimo film!
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zarar
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giovedì 1 novembre 2018
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la famiglia impossibile
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Il film è un apologo dolce-amaro costruito sul sogno di una famiglia semplice e umana, libera e trasgressiva, spontaneamente affettuosa e protettiva, con i tempi e i ritmi di un mondo altro. Il contesto più largo è il Giappone, quello più stretto una strana famiglia raccogliticcia che si è formata per aggregazione spontanea, fatta di reietti provenienti da drammi diversi: lui Osamu, lei Nobuyo, due operai che hanno alle spalle l’omicidio del marito di lei che li ha sorpresi insieme; la ragazza Aki di incerta origine, che si esibisce in un locale porno; la nonna Hatsue, dolce, ma tutt’altro che svanita, che campa sulla pensione del marito e sui rimorsi di chi un tempo l’ha cacciata; Shota, un bambino abbandonato raccolto anni prima in un parcheggio, ultima arrivata la bimba Juri (rinominata Lin) portata a casa perché trovata sola, affamata e palesemente infelice in una sera buia e fredda.
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Il film è un apologo dolce-amaro costruito sul sogno di una famiglia semplice e umana, libera e trasgressiva, spontaneamente affettuosa e protettiva, con i tempi e i ritmi di un mondo altro. Il contesto più largo è il Giappone, quello più stretto una strana famiglia raccogliticcia che si è formata per aggregazione spontanea, fatta di reietti provenienti da drammi diversi: lui Osamu, lei Nobuyo, due operai che hanno alle spalle l’omicidio del marito di lei che li ha sorpresi insieme; la ragazza Aki di incerta origine, che si esibisce in un locale porno; la nonna Hatsue, dolce, ma tutt’altro che svanita, che campa sulla pensione del marito e sui rimorsi di chi un tempo l’ha cacciata; Shota, un bambino abbandonato raccolto anni prima in un parcheggio, ultima arrivata la bimba Juri (rinominata Lin) portata a casa perché trovata sola, affamata e palesemente infelice in una sera buia e fredda. La ‘casa’ è una specie di baracca fatiscente probabilmente abusiva, spersa nel deserto urbano, ma è un nido caldo, con un ciuffo di verde intorno; si mangia allegramente tutti insieme quel che si rubacchia qua e là; Osamu va a lavorare quando ne ha voglia, insegna ai bimbi quello che sa, cioè l’arte del taccheggio; Nobuyo spiega che cosa vuol dire voler bene a Juri/Lin, abusata dalla madre vera; la nonna spende e spande alle slot machines, Shota legge e si coltiva ben lontano dalla scuola; quel che più conta, ciascuno può trovare in quel buco un angolino-rifugio per sé, un abbraccio, un aiuto, una parola che ti tira su. I ritmi sono rilassati, i silenzi lunghi, l’intesa anche senza parole palpabile. Nella regia attentissima di Kore'eda Hirokazu, tutto scorre davanti allo spettatore piano e leggero con svagata lentezza e assoluto realismo, senza un briciolo di effetti speciali e di enfatizzazione dei personaggi: la macchina da presa ha la stessa ‘innocenza’ dei protagonisti, cosicché tutto sembra naturale e plausibile e ci godiamo da spettatori la dolcezza di questa trasgressiva famiglia non-famiglia… Dimentichiamo che rubacchiano e mettono i bimbi sulla cattiva strada; che si rifiutano di considerare reato aver rapito Juri; che sfruttano la nonna e continuano a riscuoterne la pensione anche quando muore, dopo averla seppellita nel giardinetto; che quell’inesprimibile che li tiene insieme è fondato su segrete colossali bugie… Si può essere passabilmente felici ugualmente, perché c’è amore e tenerezza. Ma qualche spia ci dice che non può durare, anche se – con il regista - resistiamo testardamente all’idea. Shota, un ragazzino che pensa, è un po’ il simbolo della piccola maglia che non tiene e che si allarga fino a rompere l’incantesimo: lui sta perfettamente bene nel clan, ma si rifiuta di chiamare Osamu papà, e da un momento all’altro il furto non gli sembra così bello di fronte ad un negoziante buono destinato a fallire, finché un incidente, in parte subito, in parte quasi cercato da lui, fa crollare precipitosamente il castello di carte costruito sull’inganno, ma anche su scelte d’amore. Ciascuno dei membri della ‘famiglia’ deve rientrare nel mondo delle regole consuete, spesso ingiuste, ma necessarie. E’ un duro prezzo da pagare, ma anche un momento di verità e di dolorosa crescita, che permette finalmente a Shota di riconoscere in Osamu un papà, anche se non lo è. Bella storia senza eroi e senza illusioni, che continua la lunga riflessione del regista ('Father and son', 'Little sister') sulla famiglia che nessuno di noi ha potuto scegliere…
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michelino
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martedì 16 ottobre 2018
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michelino va al cinema
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Bello...molto bello,
ha vinto Cannes ma secondo me è più un film da oscar.
Questa mia considerazione non è per niente un complimento.
Infatti tutti i precedenti film di Kore'eda sono molto migliori
dei classici film da oscar.
Un affare di famiglia sembra un passo in avanti del suo
cinema (che qui si fa più corale) ma in realtà è anche una
strizzatina d'occhio al grande pubblico...un film tra virgolette
'più facile ' di altri suoi quasi capolavori.
Comunque che dire?...avercene di cinema così!
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giorgio47
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sabato 13 ottobre 2018
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una visione senza retorica
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Un film piacevole e molto bello che affronta con intelligenza, tatto e senza indulgenze il problema della famiglia. Argomento molto di moda ma trattato sempre con stereotipi o con preconcetti e senza mai andare a fondo dell’argomento e dei problemi che esistono.
Il film si svolge in due parti ben distinte la prima dove si da una immagine di una famiglia affiatata e comprensiva, anche se anomala e complessa, per poi nella seconda parte far cadere molti degli aspetti più gratificanti lasciando emergere interessi e ipocrisie. Nonostante ciò alla fine l’unica vera nota del tutto negativa viene dall’unica famiglia “vera”. Insomma una spietata analisi che spazza via tanti luoghi comuni e che evidenzia come la procreazione fisiologica all’interno di una coppia non renda di fatto questa una famiglia o quanto meno una famiglia felice.
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Un film piacevole e molto bello che affronta con intelligenza, tatto e senza indulgenze il problema della famiglia. Argomento molto di moda ma trattato sempre con stereotipi o con preconcetti e senza mai andare a fondo dell’argomento e dei problemi che esistono.
Il film si svolge in due parti ben distinte la prima dove si da una immagine di una famiglia affiatata e comprensiva, anche se anomala e complessa, per poi nella seconda parte far cadere molti degli aspetti più gratificanti lasciando emergere interessi e ipocrisie. Nonostante ciò alla fine l’unica vera nota del tutto negativa viene dall’unica famiglia “vera”. Insomma una spietata analisi che spazza via tanti luoghi comuni e che evidenzia come la procreazione fisiologica all’interno di una coppia non renda di fatto questa una famiglia o quanto meno una famiglia felice.
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kimkiduk
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martedì 2 ottobre 2018
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forse la palma d'oro è anche troppo
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Beh vai a vedere un film quotatissimo, valutato molto, vincitore della Palma d'Oro, non dico ti aspetti un capolavoro ma un bellissimo film si.
Direi rimasto abbastanza deluso.
La storia è piatta e la società descritta anche.
Non ho trovato la cattiveria di un Kim Ki Duk o Miike nè l'eleganza di Kar Wai, tanto per restare nell'estremo oriente o la classe di Kurosawa e Ozu oper restare in Giappone.
La banalità della società, che fa passare per cattivi chi non sarebbe e far capire che i veri genitori sono quelli che ti vogliono bene, in fin dei conti scivola via quasi con ironia e mi aspettavo un certo verismo e realismo.
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Beh vai a vedere un film quotatissimo, valutato molto, vincitore della Palma d'Oro, non dico ti aspetti un capolavoro ma un bellissimo film si.
Direi rimasto abbastanza deluso.
La storia è piatta e la società descritta anche.
Non ho trovato la cattiveria di un Kim Ki Duk o Miike nè l'eleganza di Kar Wai, tanto per restare nell'estremo oriente o la classe di Kurosawa e Ozu oper restare in Giappone.
La banalità della società, che fa passare per cattivi chi non sarebbe e far capire che i veri genitori sono quelli che ti vogliono bene, in fin dei conti scivola via quasi con ironia e mi aspettavo un certo verismo e realismo.
Dire che è un pessimo film è sbagliato, la regia è ottima, ma in questa attività si insegna poco ai registi giapponesi.
Esiste sempre costantemente un grosso problema per le pellicole in Italia di registi dell'asia: il doppiaggio.
Non so se volutamente o per la difficoltà della traduzione, ma certo che i doppiatori dei film americani, in confronto a questi, è abissale.
Peccato, certi film americani si ricordano quasi per il doppiaggio o sicuramente ha contribuito alla loro fama. Qui non si dirà mai.
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[+] forse la palma d'ora è pure poco.
(di marmo)
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stefanocapasso
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domenica 30 settembre 2018
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solitudine e famiglia
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In una piccola baracca vive una comunità eterogenea composta da quelli che appaiono essere mebri di una famiglia tradizionale: genitori, figli, nonna. Vivono arrangiandosi come possono, e un giorno trovano in strada una bambina che accolgono nella loro famiglia. Poco a poco si scoprirà che nessuno dei componenti è legato da vincoli sanguigni.
Kore'eda Hirokazu mette in scena un film molto bello che affronta temi importanti con grande delicatezza. La sceneggiatura si sviluppa pian piano, facendo emergere punti importanti mentre la storia sembra viaggiare su un binario di staticità. Ma proprio questo racconto sottotraccia finisce per coinvolgere in modo deciso.
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In una piccola baracca vive una comunità eterogenea composta da quelli che appaiono essere mebri di una famiglia tradizionale: genitori, figli, nonna. Vivono arrangiandosi come possono, e un giorno trovano in strada una bambina che accolgono nella loro famiglia. Poco a poco si scoprirà che nessuno dei componenti è legato da vincoli sanguigni.
Kore'eda Hirokazu mette in scena un film molto bello che affronta temi importanti con grande delicatezza. La sceneggiatura si sviluppa pian piano, facendo emergere punti importanti mentre la storia sembra viaggiare su un binario di staticità. Ma proprio questo racconto sottotraccia finisce per coinvolgere in modo deciso. Il tema è quello della famiglia, quale è la famiglia, quella di sangue o quella in cui si vive? Infatti il punto che è sottostante è quello della solitudine e la famiglia in questo caso rappresenta un luogo dove chi è solo ed abbandonato trova un posto dove sentirsi accolto ed amato. Kore’da dipinge sin dalle prime battute una condizione di clandestinità con il suo sguardo rubato da dietro le porte in un ambiente dove c’è poco spazio. Condizione, quella della clandestinità, che assumerà senso solo alla fine.
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minnie
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sabato 29 settembre 2018
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lo sguardo di shota
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"I bambini ci guardano" e ci giudicano, anche se apparentemente agiamo bene; ma Shota, l'undicenne dallo sguardo intensissimo, mi pare il vero perno di questo film di Kore-Eda che analizza con sguardo anche freddo, quasi da entomologo, una famiglia percorsa da interessi diversi, come accade in ogni nucleo familiare, eppure, al di là dei veri legami di parentela, tenuta insieme da un certo affetto (specie della nonna). Mi è piaciuto subito il caos di quella casetta immersa nel verde, a contrasto con il balcone desolato in cui vive sola la piccola adottata come fosse un cane randagio abbandonato e così non è, perché una vera famiglia ce l'ha, anche se la trascura e la picchia addirittura.
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"I bambini ci guardano" e ci giudicano, anche se apparentemente agiamo bene; ma Shota, l'undicenne dallo sguardo intensissimo, mi pare il vero perno di questo film di Kore-Eda che analizza con sguardo anche freddo, quasi da entomologo, una famiglia percorsa da interessi diversi, come accade in ogni nucleo familiare, eppure, al di là dei veri legami di parentela, tenuta insieme da un certo affetto (specie della nonna). Mi è piaciuto subito il caos di quella casetta immersa nel verde, a contrasto con il balcone desolato in cui vive sola la piccola adottata come fosse un cane randagio abbandonato e così non è, perché una vera famiglia ce l'ha, anche se la trascura e la picchia addirittura. Mi piace l'affetto pratico della coppia, che non si capisce perché non abbia figli suoi però...O forse non ne può avere, come spieherebbe il pianto della giovane, interrogata dalla polizia. Ci ho sentito l'eco di Ladri di biciclette: Shota realizza di essere solo un ladro quando il negoziante che poi muore, gli dice di aver capito il suo trucchetto, gli mostra i suoi gesti "segreti" e allora fa un furto maldestro per essere scoperto e far crollare tutto quel castello di ipocrisia che in fondo era la famiglia, una famiglia fondata sulla falsità, in cui molti hanno letto il valore di scegliersi mentre io leggo una critica molto acuta del regista verso una costruzione familiare che resta molto in bilico sul filo dell'ipocrisia, appunto, e della convenienza, come avviene in molti legami "normali". Del resto Kore-Eda non giudica, mostra e forse dà ragione alla nonna, che non vuol morire sola.
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fabio
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venerdì 28 settembre 2018
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una riflessione delicata sulla famiglia e non solo
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La Palma d'Oro è andata a questo film e questo certo ingenera aspettative. Sono uscito perplesso ma dichiaro subito che il film mi è piaciuto. Le perplessità riguardano solo l'andamento un po' lento e certe ripetizioni che si potevano tagliare; insomma, il film è di 2 ore "stiracchiate" ma non arriva ad annoiare.
Al contrario, il racconto va' meditato bene e lasciato "decantare" per scoprirne la bellezza che a primo assaggio può sfuggire.
Avremmo bisogno di questi film e di registi sensibili e capaci per capire di più il Giappone ma anche per riflettere su noi stessi.
Cosa significa famiglia? Che vuol dire essere padre o madre o fratello? C'è solo una comunità di mutuo sostegno nei bisogni materiali, una specie di cooperativa, o c'è altro?
L'essere umano ha una sua bellezza: così sembra volerci dire il regista.
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La Palma d'Oro è andata a questo film e questo certo ingenera aspettative. Sono uscito perplesso ma dichiaro subito che il film mi è piaciuto. Le perplessità riguardano solo l'andamento un po' lento e certe ripetizioni che si potevano tagliare; insomma, il film è di 2 ore "stiracchiate" ma non arriva ad annoiare.
Al contrario, il racconto va' meditato bene e lasciato "decantare" per scoprirne la bellezza che a primo assaggio può sfuggire.
Avremmo bisogno di questi film e di registi sensibili e capaci per capire di più il Giappone ma anche per riflettere su noi stessi.
Cosa significa famiglia? Che vuol dire essere padre o madre o fratello? C'è solo una comunità di mutuo sostegno nei bisogni materiali, una specie di cooperativa, o c'è altro?
L'essere umano ha una sua bellezza: così sembra volerci dire il regista. Nella realtà i genitori non ce li scegliamo, ma possiamo immagginare un mondo dove i legami veri, quelli più profondi, possiamo trovarli da noi; possiamo essere genitori anche senza diventarlo mai.
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maramaldo
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martedì 25 settembre 2018
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ma ci sono davvero giapponesi così?
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Quell'Osamu Shibata (un frizzante e scettico Lily Frank)... Per pigrizia abbandona di notte accanto al lampione il sacchetto della "differenziata". Come uno di noi. Inutile negarlo, simpatico. Cuor d'oro, affettuoso, bisognoso d'affetto. Estremista quanto e più di Proudhon (La proprietà è un furto!). Le cose - spiega - non appartengono a nessuno fino a quando qualcuno se le prende: bisogna imparare a farlo. Non è lui il protagonista.
Vispo e furbetto come un piccolo eroe dei manga il ragazzino, singolarmente espressivo nella galleria di volti per lo più simili, dice tutto con gli occhi. Recalcitra all'idea di chiamare papà uno che non lo ha generato e di trattare da sorella una nata chissà dove.
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Quell'Osamu Shibata (un frizzante e scettico Lily Frank)... Per pigrizia abbandona di notte accanto al lampione il sacchetto della "differenziata". Come uno di noi. Inutile negarlo, simpatico. Cuor d'oro, affettuoso, bisognoso d'affetto. Estremista quanto e più di Proudhon (La proprietà è un furto!). Le cose - spiega - non appartengono a nessuno fino a quando qualcuno se le prende: bisogna imparare a farlo. Non è lui il protagonista.
Vispo e furbetto come un piccolo eroe dei manga il ragazzino, singolarmente espressivo nella galleria di volti per lo più simili, dice tutto con gli occhi. Recalcitra all'idea di chiamare papà uno che non lo ha generato e di trattare da sorella una nata chissà dove. Non si fida del nominalismo Shota (Susuke Ikematsu).
Non sa, l'ingenuo, che "saepe nomina fata trahunt". Un vecchio bottegaio, stanco di vedersi rubacchiato, gli regala, pietoso, dei dolciumi intimandogli ad un tempo di non portar più da lui la "sorellina", Juri (Mixu Sasaki), la bambina che lo scombinato gruppetto ha fatto sua riservandole tenerezza e un apprendistato nel furto.
Schiaffo bruciante per l'adoloscente, lo cambierà e gli cambierà la vita. La lezione del film. D'un colpo Shota capisce "la famiglia". Non solo aggregazione per condividere bisogni e calore. Ma chiamare e farsi chiamare padre, madre, fratello, sorella, figlio significa assumere ruoli e ciò comporta vincoli, obblighi, responsabilità, abnegazione fino al sacrificio.
Non da oggi la famiglia preme a Koreeda, forsa ne soffre come una spina nel fianco. "In Giappone - informa - concetto superato è la famiglia ideale." Gli han creduto gli sprovveduti occidentali che hanno tradotto Manbiki Kazoku. Saltato Kazoku, famiglia. Rimasto solo Shoplifters - Alleggeritori di negozi - , ah, la lingua di Buckingham Palace. Più saggiamente noi abbiamo scansato, almeno nel titolo, il richiamo al taccheggio che, essendo praticato di preferenza da certe ragazzine, motiva mugugni scorretti. Affare di famiglia, si è voluto,ovvero business, un'attività come un'altra. (Osamu potrebbe imparare).
Opera di un Orientale. Calligrafia, innanzi tutto. Scrittura ornata e minuziosa anche di cose dure e indigeste. Quando la nonna ludopatica passa a miglior vita non si vede la salma. Solo una mano che le ravvia una ciocca di capelli, con delicatezza, quasi una carezza.
Una sorpresa l'erotismo. Non lezioso o brutale come pensiamo di solito del made-in-japan. Spontaneità, invece, sincerità, naturalezza intrisa di dolcezza.
Koreeda dice tanto su tanto Giappone ma non conclude. Mentre la piccola Juri si issa in punta di piedi per sbirciare oltre il cortile, il film si tronca di netto. Buio assoluto. Hirokazu non immagina prospettive di speranza.
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vincenzoambriola
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domenica 23 settembre 2018
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scene di interno giapponese
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Una metropoli giapponese, forse Tokyo, ma non importa tanto non sapremmo riconoscerne una da un'altra. Una piccola casa giapponese, molto diversa dalle nostre, ambienti piccoli, niente tavoli o letti, tutto è precario, mobile, trasformabile. Una famiglia giapponese, anche questa diversa dalle nostre. Prima di tutto c'è una donna anziana, la nonna, che tutti rispettano e omaggiano, rara attitudine oramai. Poi una coppia di sposi, strani, non si sfiorano e sembrano fratello e sorella. Un'altra giovane donna, la nipote, che venera la nonna e che scopriamo lavorare in un peep shop, uno di quei posti dove vai a guardare donne o uomini che si spogliano e si toccano, senza essere visti.
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Una metropoli giapponese, forse Tokyo, ma non importa tanto non sapremmo riconoscerne una da un'altra. Una piccola casa giapponese, molto diversa dalle nostre, ambienti piccoli, niente tavoli o letti, tutto è precario, mobile, trasformabile. Una famiglia giapponese, anche questa diversa dalle nostre. Prima di tutto c'è una donna anziana, la nonna, che tutti rispettano e omaggiano, rara attitudine oramai. Poi una coppia di sposi, strani, non si sfiorano e sembrano fratello e sorella. Un'altra giovane donna, la nipote, che venera la nonna e che scopriamo lavorare in un peep shop, uno di quei posti dove vai a guardare donne o uomini che si spogliano e si toccano, senza essere visti. Non so se ci siano da noi, ma ne dubito, oramai queste cose si guardano su internet, pure gratis. Infine un ragazzino sveglio, ma che non va a scuola. Strano, da noi se un ragazzino non va a scuola arrivano subito la polizia, l'esercito e i vigili del fuoco. Dimenticavo, il ragazzino e l'uomo adulto rubano nei supermercati. Strano anche questo, non li pizzicano mai. Non provate a imitarli, da noi ti beccano subito e si va dritti in gattabuia. E poi il colpo di scena, la bimba piccola abbandonata, piena di bruciature, spaventata perché i suoi la picchiano. Queste le premesse. Il resto è una gradevole carrellata su come vivono i giapponesi poveri, un po' come i nostri, su come sbarcano il lunario. Colpisce il fatto che mangino sempre, per lo più cibo che a noi non piacerebbe. Ma si sa, mangiare giapponese non è come mangiare italiano. A un certo punto il colpo di scena, che non sarà rivelato qua. Come tutti i colpi di scena, lo spettatore resta tramortito dalle novità e si chiede: ma se fosse un film giallo, avremmo avuto degli indizi, qualche elemento che ci avrebbe fatto immaginare la realtà. No, apprendiamo tutto e dobbiamo ripassare il film per riorganizzare la storia. Un po' faticoso ma ne vale la pena. Alla fine la domanda cruciale: è un bel film? Sì, anche se scorre lentamente prende tutta la tua attenzione perché devi capire cosa sta succedendo e cosa succederebbe da noi. C'è un messaggio? Sì, la famiglia cos'è, quella in cui nasci o quella in cui ti ritrovi? Per molti di noi la risposta è ovvia, ma per altri non è proprio così e non è male pensarci un po' sù. Recitato bene? Abbastanza, direi. Forse il doppiaggio ha appiattito la parte verbale, privandoci di quelle sfumature e di quei giochi di parole, in giapponese, intraducibili. Dicono che abbia avuto successo di critica e che abbia vinto un premio. Può darsi. Sappiamo bene che ciò che piace a certe persone non è detto che piaccia a tutti quelli che vanno al cinema.
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