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vincenzoambriola
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domenica 23 settembre 2018
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scene di interno giapponese
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Una metropoli giapponese, forse Tokyo, ma non importa tanto non sapremmo riconoscerne una da un'altra. Una piccola casa giapponese, molto diversa dalle nostre, ambienti piccoli, niente tavoli o letti, tutto è precario, mobile, trasformabile. Una famiglia giapponese, anche questa diversa dalle nostre. Prima di tutto c'è una donna anziana, la nonna, che tutti rispettano e omaggiano, rara attitudine oramai. Poi una coppia di sposi, strani, non si sfiorano e sembrano fratello e sorella. Un'altra giovane donna, la nipote, che venera la nonna e che scopriamo lavorare in un peep shop, uno di quei posti dove vai a guardare donne o uomini che si spogliano e si toccano, senza essere visti.
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Una metropoli giapponese, forse Tokyo, ma non importa tanto non sapremmo riconoscerne una da un'altra. Una piccola casa giapponese, molto diversa dalle nostre, ambienti piccoli, niente tavoli o letti, tutto è precario, mobile, trasformabile. Una famiglia giapponese, anche questa diversa dalle nostre. Prima di tutto c'è una donna anziana, la nonna, che tutti rispettano e omaggiano, rara attitudine oramai. Poi una coppia di sposi, strani, non si sfiorano e sembrano fratello e sorella. Un'altra giovane donna, la nipote, che venera la nonna e che scopriamo lavorare in un peep shop, uno di quei posti dove vai a guardare donne o uomini che si spogliano e si toccano, senza essere visti. Non so se ci siano da noi, ma ne dubito, oramai queste cose si guardano su internet, pure gratis. Infine un ragazzino sveglio, ma che non va a scuola. Strano, da noi se un ragazzino non va a scuola arrivano subito la polizia, l'esercito e i vigili del fuoco. Dimenticavo, il ragazzino e l'uomo adulto rubano nei supermercati. Strano anche questo, non li pizzicano mai. Non provate a imitarli, da noi ti beccano subito e si va dritti in gattabuia. E poi il colpo di scena, la bimba piccola abbandonata, piena di bruciature, spaventata perché i suoi la picchiano. Queste le premesse. Il resto è una gradevole carrellata su come vivono i giapponesi poveri, un po' come i nostri, su come sbarcano il lunario. Colpisce il fatto che mangino sempre, per lo più cibo che a noi non piacerebbe. Ma si sa, mangiare giapponese non è come mangiare italiano. A un certo punto il colpo di scena, che non sarà rivelato qua. Come tutti i colpi di scena, lo spettatore resta tramortito dalle novità e si chiede: ma se fosse un film giallo, avremmo avuto degli indizi, qualche elemento che ci avrebbe fatto immaginare la realtà. No, apprendiamo tutto e dobbiamo ripassare il film per riorganizzare la storia. Un po' faticoso ma ne vale la pena. Alla fine la domanda cruciale: è un bel film? Sì, anche se scorre lentamente prende tutta la tua attenzione perché devi capire cosa sta succedendo e cosa succederebbe da noi. C'è un messaggio? Sì, la famiglia cos'è, quella in cui nasci o quella in cui ti ritrovi? Per molti di noi la risposta è ovvia, ma per altri non è proprio così e non è male pensarci un po' sù. Recitato bene? Abbastanza, direi. Forse il doppiaggio ha appiattito la parte verbale, privandoci di quelle sfumature e di quei giochi di parole, in giapponese, intraducibili. Dicono che abbia avuto successo di critica e che abbia vinto un premio. Può darsi. Sappiamo bene che ciò che piace a certe persone non è detto che piaccia a tutti quelli che vanno al cinema.
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mauro.t
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sabato 22 settembre 2018
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famiglia e' dove c'e' amore
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In un minuscolo appartamento giapponese vive una piccola comunità di persone legate da rapporti di parentela, che si chiariranno solo alla fine, svelando un passato criminale. Osamu, il padre di famiglia, è operaio edile a cottimo. Anche la sua compagna Nobuyo è operaia e perderà il posto in un drammatico scontro a eliminazione diretta con una collega. La nonna Hatsue vive di una pensione non certo legale. La giovane Aky fa lavori particolari in un locale a luci rosse. Il papà arrotonda come taccheggiatore e insegna i rudimenti dell’arte al bambino Shota. Una sera si portano a casa una bambina piccola (Yuri), che vedono sola e abbandonata: di fatto un rapimento.
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In un minuscolo appartamento giapponese vive una piccola comunità di persone legate da rapporti di parentela, che si chiariranno solo alla fine, svelando un passato criminale. Osamu, il padre di famiglia, è operaio edile a cottimo. Anche la sua compagna Nobuyo è operaia e perderà il posto in un drammatico scontro a eliminazione diretta con una collega. La nonna Hatsue vive di una pensione non certo legale. La giovane Aky fa lavori particolari in un locale a luci rosse. Il papà arrotonda come taccheggiatore e insegna i rudimenti dell’arte al bambino Shota. Una sera si portano a casa una bambina piccola (Yuri), che vedono sola e abbandonata: di fatto un rapimento. Anche la piccola sarà avviata al taccheggio. Insomma, una comunità di sottoproletari che vive nell’illegalità, ma dove circola più amore che in molte famiglie borghesi. La piccola Yuri, che nella sua famiglia biologica veniva picchiata e aveva sulle braccia lividi e segni di bruciature, trova in questo appartamento un calore umano mai conosciuto. Non si può non apprezzare l’armonia di questa strana famiglia durante la giornata trascorsa al mare. Ritratto sociale e culturale potente. La classe operaia si sta liquefacendo ed è rimasto il “Lumpenprioletariat” di Marx, che qui però assurge a portatore di valori in via di estinzione. Il regista sembra portare un’idea provocatoria: la violenza nelle comunità di piccoli delinquenti non è superiore a quella della società giapponese nel suo complesso. Famiglia non è dove nasci, ma dove c’è amore. Tuttavia la legge sociale non è d’accordo. Felici le simmetrie tra i genitori “adottivi” e i bambini: le bruciature sulle braccia di Nobuko e della piccola Yuri, la gamba rotta di Osamu e di Shota. Alla fine, un commerciante intelligente e bonario darà una lezione al piccolo Shota, il quale, già mosso dai dubbi, cercherà di salvare la sorellina dalla cattura dei sorveglianti del supermercato, e si farà male nella fuga, scatenando l’indagine degli inquirenti. Il disvelamento a cascata sul passato dei membri della comunità rotolerà sullo spettatore con una gragnuola di primi piani durante gli interrogatori, svelando ulteriori crimini. Nobuyo, incensurata, si addosserà tutte le colpe. La piccola Yuri tornerà a casa, alla violenza che già conosce. Il piccolo Shota andrà in una comunità. Toccante il momento in cui, solo, sull’autobus che si sta allontanando, chiamerà “papà” Osamu, che lo aveva tanto desiderato, ma che non potrà mai sentirlo. Film intenso, assolutamente da vedere, ma che ha l’unico difetto di basarsi (purtroppo) su un falso storico-sociale: i piccoli delle famiglie sottoproletarie, che vivono ai margini della legalità, sperimentano solitamente violenze maggiori di quelle dei bambini benestanti.
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angeloumana
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sabato 22 settembre 2018
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il sociale e il privato, il giusto e lo sbagliato
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Se la famiglia è il posto peggiore dove nascere – che è plausibile e per giunta pare lo abbia detto Sigmund Freud – questa “sfortuna” iniziale può venire emendata: i membri pian piano vanno a comporre una famiglia diversa, non più facendo parte di quella originale, per i motivi più svariati, interesse, affezione che si crea, bisogno di cibo e calore. Un affare di famiglia ne propone una di sei membri, che vivono in povertà in un ambiente suburbano del grande e operoso Giappone: c'è una nonna che con la sua pensione (di reversibilità) sfama gli altri, un papà comprensivo che col lavoro precario si arrangia e che ai ragazzi può insegnare a rubare nei negozi, Non avevo altro da insegnare dirà, una mamma amorevole, la sua giovane sorella che lavora in un locale per soli uomini, un ragazzino il quale sa che i bambini che non possono studiare a casa allora vanno a scuola ed una trovatella di 5 anni, ultimo arrivo, che tutti prendono a benvolere.
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Se la famiglia è il posto peggiore dove nascere – che è plausibile e per giunta pare lo abbia detto Sigmund Freud – questa “sfortuna” iniziale può venire emendata: i membri pian piano vanno a comporre una famiglia diversa, non più facendo parte di quella originale, per i motivi più svariati, interesse, affezione che si crea, bisogno di cibo e calore. Un affare di famiglia ne propone una di sei membri, che vivono in povertà in un ambiente suburbano del grande e operoso Giappone: c'è una nonna che con la sua pensione (di reversibilità) sfama gli altri, un papà comprensivo che col lavoro precario si arrangia e che ai ragazzi può insegnare a rubare nei negozi, Non avevo altro da insegnare dirà, una mamma amorevole, la sua giovane sorella che lavora in un locale per soli uomini, un ragazzino il quale sa che i bambini che non possono studiare a casa allora vanno a scuola ed una trovatella di 5 anni, ultimo arrivo, che tutti prendono a benvolere. Vi si sente parlare di contratti di solidarietà, di risarcimento danni, e sopravvivono tutti, accontentandosi di piccole cose, senza nemmeno potersi permettere il funerale alla morte della nonna. L'atmosfera è idilliaca, se sei tu a scegliere è più forte il legameha detto la mamma, e questo sembra essere il senso di questa famiglia spontanea. Del resto se non si è stati voluti come si può essere amorevoli con gli altri?, ed è un'altra massima di questa commedia seria, Palma d'Oro a Cannes 2018. Le parole provengono dalla “mamma”, a cui non sembra vero di poter abbracciare e carezzare una bimba così piccola, letteralmente tolta dalla strada e probabilmente abbandonata dai genitori naturali.
Non ci sono pietismi o forti emozioni nel film, tutto avviene spontaneamente, una auto-organizzazione che pure una società sviluppata, con le sue regole e le sue leggi, forse non riesce ad assicurare. Carino, fantasioso, ma purtroppo non si può e cmq il regista Kore'eda Hirokazu ha il merito di farci interrogare su cosa è giusto e cosa è sbagliato per l'essere umano e per il sociale, su cosa la società vuole dal singolo.
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flyanto
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mercoledì 19 settembre 2018
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quale famiglia risulta migliore?
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Premiato l’anno scorso all’ultimo Festival del Cinema a Cannes, “Un affare di Famiglia” di Kore’da Hirokazu esce finalmente nelle sale cinematografiche italiane presentando ancora una volta, come è consuetudine di questo regista giapponese, una storia strettamente familiare.
La famiglia protagonista è composta da un’anziana nonna sulla quale, in pratica, si basa tutto il suo sostentamento economico, da un padre operaio che trascorre parte delle proprie giornate a compiere dei furti al fine di procurarsi il necessario e non, insegnando, nel frattempo, al figlioletto la stessa ‘pratica’, da una madre molto più giovane che lavora in una lavanderia da dove poi viene licenziata, e da una giovane ragazza di circa 18 anni che, nel tempo libero o quando non si reca a scuola, si prostituisce in una sorta di locale a luci rosse.
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Premiato l’anno scorso all’ultimo Festival del Cinema a Cannes, “Un affare di Famiglia” di Kore’da Hirokazu esce finalmente nelle sale cinematografiche italiane presentando ancora una volta, come è consuetudine di questo regista giapponese, una storia strettamente familiare.
La famiglia protagonista è composta da un’anziana nonna sulla quale, in pratica, si basa tutto il suo sostentamento economico, da un padre operaio che trascorre parte delle proprie giornate a compiere dei furti al fine di procurarsi il necessario e non, insegnando, nel frattempo, al figlioletto la stessa ‘pratica’, da una madre molto più giovane che lavora in una lavanderia da dove poi viene licenziata, e da una giovane ragazza di circa 18 anni che, nel tempo libero o quando non si reca a scuola, si prostituisce in una sorta di locale a luci rosse. Scoprendo, un giorno, nel quartiere in cui vive il nucleo familiare, una bimba di circa 5 anni sola, infreddolita ed affamata, il padre decide, concordi più o meno tutti i componenti, di annetterla alla famiglia, prendendosene cura e non denunciandone, invece, la scomparsa alla polizia. Quando viene trasmesso il notiziario in TV con la notizia della suddetta scomparsa, i nuovi ‘genitori adottivi’ decidono di continuare a tenerla con sé, cambiandole il taglio di capelli ed il nome al fine di non renderla più riconoscibile a nessuno. Trascorrono così parecchi mesi e la convivenza tra tutti si dimostra quanto mai armonica ed affettuosa: anche alla bimba, ovviamente, viene insegnata la pratica di rubare nei negozi, ma al di là di ciò l’amore che tutti i componenti provano per lei è talmente sincero e profondo da far sì che ella si leghi sempre più a loro e viceversa, legarla a loro. Quando una giorno improvvisamente muore l’ormai anziana nonna, la situazione cambierà radicalmente…..
Kore’da Hirokazu ritorna ancora una volta ad affrontare, appunto, tematiche concernenti la famiglia e la società in tutti i suoi aspetti. Già con i precedenti “Father & Son”, “Little Sister” and “After the Storm” egli pone la famiglia sempre in primo piano: famiglie per lo più allargate e perfettamente rispecchianti la società contemporanea in cui vivono con le sue contraddizioni, debolezze e anche lati positivi. Ma il tema specifico sul valore e sull’importanza attribuita ai genitori naturali od adottivi viene in “Un Affare di Famiglia” ripreso, sebbene in un contesto del tutto nuovo e singolare, direttamente dal precedente “Father & Son”, con anche un uguale richiamo, per ciò che concerne, invece, la situazione dell’arrivo della bambina in una nuova famiglia, a “Little Sister”. In questa sua ultima opera cinematografica Kore’da si spinge però anche oltre, presentando una storia che all’inizio può apparire come deplorevole moralmente parlando se non, addirittura provocatoria, ma verso la fine della pellicola, l’intera vicenda viene spiegata con maggior chiarezza e, pertanto, più giustificata, arrivando a sollevare nello spettatore molteplici quesiti sul valore della famiglia, delle leggi, dell’assetto sociale generale e delle sue radicate ipocrisie. Il tutto viene perfettamente ed elegantemente presentato da Kore’da con il suo solito andamento lento, lucido e lineare di girare i films, facendo sì che l’atmosfera intima, dolce e di perfetta e serena armonia affettiva di un ambiente familiare predomini, rendendo i suoi lavori unici ed altamente poetici.
Giustamente premiato a Cannes con la Palma d’Oro, “Un Affare di Famiglia” è da considerarsi senza alcun dubbio un incontestabile esempio di ottimo cinema all’insegna della grazia e della delicatezza più autentiche.
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[+] una dolente riflessione umanista sul presente
(di antoniomontefalcone)
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goldy
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mercoledì 19 settembre 2018
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il cinema è anche spettacolo
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E’ condizione sufficiente che un film sia ben fatto perché sia amato e apprezzato? Dubito. Se non coinvolge, non emoziona, non suscita riflessioni innovative la bravura registica lascia un po’ il tempo che trova. Il film ha ottenuto La Palma d’Oro a Cannes perché i giurati specializzati sanno apprezzano aspetti estetici e equilibri narrativi un po’ fini a se stessi. Altri sono le pulsioni di chi va al cinema per godere anche di uno spettacolo.
La tematica affrontata mi pare molto lontana dal nostro sentire. Il concetto di famiglia naturale come unico nucleo capace di offrire affettività e valori ha superato la soglia del sospetto e della diffidenza e la famiglia oggi è quanto di più variegato si possa immaginare.
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E’ condizione sufficiente che un film sia ben fatto perché sia amato e apprezzato? Dubito. Se non coinvolge, non emoziona, non suscita riflessioni innovative la bravura registica lascia un po’ il tempo che trova. Il film ha ottenuto La Palma d’Oro a Cannes perché i giurati specializzati sanno apprezzano aspetti estetici e equilibri narrativi un po’ fini a se stessi. Altri sono le pulsioni di chi va al cinema per godere anche di uno spettacolo.
La tematica affrontata mi pare molto lontana dal nostro sentire. Il concetto di famiglia naturale come unico nucleo capace di offrire affettività e valori ha superato la soglia del sospetto e della diffidenza e la famiglia oggi è quanto di più variegato si possa immaginare. Non sembra essere così in Giappone. Ne prendo atto ma non mi si chieda di esultare per questo film.
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cardclau
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martedì 18 settembre 2018
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povertà e miseria non sono sinonimi
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Un altro film di Kore'eda Hirokazu. La storia raccontata ruota sulla
fortissima interazione e interdipendenza di diversi personaggi : Osamu
Shibata e Nobuyo Shibata, genitori apprendisti, ma non biologici; Nobuyo
Shibata, una figlia tenera che ha imparato dai genitori l’accoglienza;
Hatsue Shibata, la nonna, la cui funzione di collante per tutta la
“famiglia” è formidabile; Shota Shibata e Juri, rispettivamente un
fanciullo e una piccola bambina, senza famiglia. Siamo nella campo di
film di eccezionale spessore, dove, pur nella diuturna difficoltà della
vita, sempre difficile, impegnativa, a volte terribile, puzzolente,
perfino schiacciante, che richiede aggiustamenti ed adattamenti senza
posa, emerge un essere umano, povero sì, ma non assolutamente immiserito
fisicamente e spiritualmente.
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Un altro film di Kore'eda Hirokazu. La storia raccontata ruota sulla
fortissima interazione e interdipendenza di diversi personaggi : Osamu
Shibata e Nobuyo Shibata, genitori apprendisti, ma non biologici; Nobuyo
Shibata, una figlia tenera che ha imparato dai genitori l’accoglienza;
Hatsue Shibata, la nonna, la cui funzione di collante per tutta la
“famiglia” è formidabile; Shota Shibata e Juri, rispettivamente un
fanciullo e una piccola bambina, senza famiglia. Siamo nella campo di
film di eccezionale spessore, dove, pur nella diuturna difficoltà della
vita, sempre difficile, impegnativa, a volte terribile, puzzolente,
perfino schiacciante, che richiede aggiustamenti ed adattamenti senza
posa, emerge un essere umano, povero sì, ma non assolutamente immiserito
fisicamente e spiritualmente. In questo contesto non si diventa
necessariamente uno psicopatico individualista, narcisista, estremamente
e disperatamente solo, prono quindi alla cieca distruzione, al trionfo
della “pulsione di morte”, ma si può essere un umano che nella sua
semplicità (beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei
cieli) dove, pur non albergando grandi e sofisticati studi o sviluppi
intellettuali clamorosi, riesce a prendersi cura dell’altro, e quindi di
se stesso: e riesce a risolvere positivamente e in modo creativo i
conflitti che necessariamente emergono. Come quando Shota non vuole
niente a che fare con Juri, l’ultima arrivata. Una vittoria fulgida
della “pulsione di vita”, per dirla in modo semplicistico. Anche perché
tutto ruota non su quello che possiedi, o su gli altri che cosa pensano
che tu debba fare o pensare o essere, perché “giusto”, in una farsa e
pantomima continua, basato sul nulla, in mondo solo animato da
burattini, ma quanto sei nella testa dell’altro, sei pensato, sei
voluto. Alla fine di questo film travagliato, Shota chiama Osamu:
“papà”. L’essere umano può essere stupefacente.
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flaw54
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lunedì 17 settembre 2018
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non riesco a capire tutto questo entusiasmo
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Film decisamente brutto con un montaggio dilettantesco e recitazione da parte degli adulti che talvolta sfiora il ridicolo. Una noia mortale. I film italiani giustamente discussi per la loro monotonia e ripetitivitá al confronto sono di una vivacità enorme. Proprio non riesco a capire l'entusiasmo suscitato da quest'opera. Va bene l'analisi della famiglia e della società giapponese, tutto quello che volete, ma un po' di brillantezza sarebbe necessaria. Due ore sprecate
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freerider
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lunedì 17 settembre 2018
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variazioni seriali sul tema famiglia
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La Palma d’Oro non deve necessariamente essere un capolavoro, idealmente dovrebbe essere “solo” il migliore tra i film in concorso e in questo caso, nell’impossibilità di vedere tutti gli altri titoli candidati, il primato relativo conquistato dal film di Kore-eda mi fa pensare a un’edizione festivaliera senza troppi contendenti temibili. Inutile girarci intorno, Affari di famiglia non mi ha conquistato e, pur riconoscendo al regista giapponese sensibilità e mestiere, non posso negare di averlo vissuto in modo molto distaccato. Certo è un film di buoni sentimenti, con una bimbetta adorabile e una morale tanto semplice (i legami più profondi non sono necessariamente quelli di sangue) quanto inconfutabile, insomma un messaggio ricevibile senza difficoltà né sconvolgimenti interiori, nuovo forse solo per la tradizionalista società giapponese.
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La Palma d’Oro non deve necessariamente essere un capolavoro, idealmente dovrebbe essere “solo” il migliore tra i film in concorso e in questo caso, nell’impossibilità di vedere tutti gli altri titoli candidati, il primato relativo conquistato dal film di Kore-eda mi fa pensare a un’edizione festivaliera senza troppi contendenti temibili. Inutile girarci intorno, Affari di famiglia non mi ha conquistato e, pur riconoscendo al regista giapponese sensibilità e mestiere, non posso negare di averlo vissuto in modo molto distaccato. Certo è un film di buoni sentimenti, con una bimbetta adorabile e una morale tanto semplice (i legami più profondi non sono necessariamente quelli di sangue) quanto inconfutabile, insomma un messaggio ricevibile senza difficoltà né sconvolgimenti interiori, nuovo forse solo per la tradizionalista società giapponese. Gli esperti hanno citato il cinema di Ozu, che sicuramente è tra i maestri di riferimento del prolifico Kore-eda, ma se i temi in esame possono essere comuni manterrei una netta distinzione in merito al rango: Affari di famiglia è un ritratto di un gruppo girato con correttezza ma senza particolari acuti o intuizioni nè obiettivi formali, che non fai mai davvero male e corregge il tiro non appena il registro piega troppo verso il serio. Gli stessi personaggi sono caratterizzati più per concentrazione e tipologia di problemi personali (l’accumulo di rivelazioni verso la fine mi è sembrata una caduta di stile) che non per profondità e spessore psicologico e nel complesso la storia procede senza generare una tensione drammatica palpabile. Qualche trovata gestita in assenza di particolare estro (l’intimità ritrovata, le confidenze con il ragazzo preadolescente, il “duello” tra operaie licenziate, tutti passaggi obbligati e già sfruttati) e una certa costante ricerca di empatia col pubblico ne fanno un film pomeridiano, una ennesima variazione sul tema delle relazioni familiari non certo sconsigliabile in assoluto ma da vedere con obiettività e senza farsi troppo condizionare dal prestigioso riconoscimento ricevuto.
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loland10
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lunedì 17 settembre 2018
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miserie di un 'gruppo familiare'
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“Un affare di famiglia” (Manbiki kazoku, 2018) è il diciannovesimo lungometraggio del regista di Tokyo Hirokazu Kore'da.
Le essenze dei luoghi, gli incroci tra le persone, il vivere inerme, lo studio di ripresa di un gruppo. La famiglia come indagine di vita o meglio il silenzio tra persone conviventi: una famiglia che tale non è. Il titolo del film parla dì ‘taccheggiatori’, una strada per vivere la giornata.
Le aspettative, inutile negarle, erano tante prima di entrare in sala.
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“Un affare di famiglia” (Manbiki kazoku, 2018) è il diciannovesimo lungometraggio del regista di Tokyo Hirokazu Kore'da.
Le essenze dei luoghi, gli incroci tra le persone, il vivere inerme, lo studio di ripresa di un gruppo. La famiglia come indagine di vita o meglio il silenzio tra persone conviventi: una famiglia che tale non è. Il titolo del film parla dì ‘taccheggiatori’, una strada per vivere la giornata.
Le aspettative, inutile negarle, erano tante prima di entrare in sala. Un qualcosa che non soddisfa c’è. L’evitare di non entrare dentro i personaggi, la sola ripresa quasi da documento, il muoversi poco, gli accadimenti minimi e quasi palpabili. Quando arriva la pioggia e la ruberia può fare cilecca, pare già tutto in anticipo come ogni silenzio dei corpi in movimento.
Che dire, qualcuno ha trovato il film capolavoro e da incorniciare quasi pura poesia, per chi scrive meno: un susseguirsi di piccoli episodi e di vite in attesa dei tempi. Sia dentro che fuori. Importante è mangiare qualcosa, arrangiarsi e, senza conoscersi, potersi aiutare.
Una famiglia che non c’è. Una nonna che ha una pensione. Un uomo che vivacchia con qualche lavoretto in cantiere. Una donna che ogni tanto fa la stiratrice. Un bambino che adopera le mani per rubare tra mercati e negozi. Una bambina in aggiunta che impara il mestiere.
Un film semplice nei gesti e nelle parole dove ogni sguardo sembra complice di qualcuno che stai imparando a conoscere. Una vita soffusa, misera, nascosta. Dentro le mura di una casa piccola, quasi senza luoghi, non delimitata, un gruppo di persone sono in compagnia, complici di silenzi interiori e di vite vissute. Tutto scorre cercando il cibo tra sotterfugi, ruberie, lavori saltuari e la pensione della nonna. Nessuno è padre, nessuna è madre. Per essere madre si deve partorire. Ma sei madre se non partorisci. I luoghi comuni, i gesti giornalieri e le miserie interiori sono lì davanti a loro: tutto va avanti senza tempo, quasi senza contrapposizioni. Ma fuori qualcosa cambia, i tempi si possono interrompere e il lavacro di una pioggia come di una fuga da una piccolo furto trovano il passo ad un cambio che nessuno osserva. Nessuno si accorge di quello che è attorno, ma è l’attorno che entra dentro e vede tutto quello che di famiglia, in gergo arcaico e semplice, non c’è. Praticamente tutto.
Ed ecco che arriva la tv con i giornalisti a frotte, la legge con le domande senza risposta, i cadaveri e gli scheletri reali e veramente nascosti. Il giorno e il suo peregrinare, la notte dormiente, il passare qualche ora lieta, il mare come vero diversivo, lasciano il passo al funereo, macabro è triste mondo che non vediamo.
Quando la bambina passa in tv, con l’appello dei genitori, sembra tutto normale, tutto appare in linea: basta un taglio dei capelli, un cappellino e il viso sembra di una altra. Ma il vivere, anche con la legge è di un bastimento umano indegno, indecoroso anche quando il fare l’amore toglie le soddisfazioni tra due persone sconosciute. La bambina in questo marasma sembra trovarsi bene, basta che ‘non mi picchi’. Una società acre, amara, lignea e con un cuore al contrario. Stare con qualcuno appare difficile, stare con i bambini logico, stare con il rubare e il nascondere corpi è un qualcosa che non ti avvedi. Non si vede nulla. Anche il mangiare è senza preparazione. La vita va avanti, il cibo e la morte si piacciono senza farsi vedere.
Un film che dice molto, un film che lascia segni, un film che distribuisce verità ma il suo porsi, per chi scrive, è una lentezza fuori dalle righe, una dire stretto e un non pronunciamento dei nomi ‘familiari’. Dire ‘papà’ non è semplice. Una partenza, un distacco segnano l’unione tra un adulto e un figlio non suo.
La scena della spiaggia appare delicatamente retrò, un senso di vuoto e spaesamento per una nonna che vede la ‘sua famiglia’ unita. Finale (senza dirlo) o meglio ultima inquadratura che si legge più volte e in anticipo par di capirla. Il realismo senza filtri.
Regia di poco movimento e teatrale.
Voto 7-/10 (***).
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maurizio.meres
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lunedì 17 settembre 2018
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intenso,profondo e vero,un film di grande spessore
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Senza dubbio un film di grande valore,ambientato in una periferia degradata di una metropoli Giapponese,anche se non viene menzionata si tratta di Tokyo,lo scorrere della vita quotidiana di un gruppo di persone ai margini della vita sociale che con espedienti non proprio onesti cerca di vivere.
Questa famiglia,e qui il regista impone allo spettatore la domanda sulla creazione di un nucleo famigliare,si può scegliere,in questo caso creatasi dalla disperazione,in un paese così detto civile dove questo tipo di emarginazione fa diventare le persone solo ombre che girano nel vuoto della loro solitudine e il mangiare in continuazione diventa quasi l'unico scopo di vita,ma in ognuno di loro esce la parte più pura dell'anima in un sentimentalismo di pietà reciproca solo per dare ad ognuno un segnale di esistenza.
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Senza dubbio un film di grande valore,ambientato in una periferia degradata di una metropoli Giapponese,anche se non viene menzionata si tratta di Tokyo,lo scorrere della vita quotidiana di un gruppo di persone ai margini della vita sociale che con espedienti non proprio onesti cerca di vivere.
Questa famiglia,e qui il regista impone allo spettatore la domanda sulla creazione di un nucleo famigliare,si può scegliere,in questo caso creatasi dalla disperazione,in un paese così detto civile dove questo tipo di emarginazione fa diventare le persone solo ombre che girano nel vuoto della loro solitudine e il mangiare in continuazione diventa quasi l'unico scopo di vita,ma in ognuno di loro esce la parte più pura dell'anima in un sentimentalismo di pietà reciproca solo per dare ad ognuno un segnale di esistenza.
Il regista compone una storia di una drammaticità cruda e allo stesso tempo crudele,coglie in ognuno dei personaggi entrando nel profondo intimo ogni attimo di tristezza e allo stesso tempo di gioia vivere,con piccole cose ma importanti per loro,da una perfetta immagine di usi e costumi di un Giappone assente,egoistico,e tollerante.
Le riprese sono intense e profonde,di una dolcezza unica sono i due bambini,i loro sguardi,così come tutta la tematica del film penetrano nel profondo dell'essere umano in una riflessione personale sulla disuguaglianza sociale,su ciò che veramente siamo e il perché ci siamo,dove i meno fortunati vengono privati della propria dignità,la morte vista con molta marginalità quasi una liberazione reciproca,il film si svolge in Giappone ma poteva essere in qualsiasi parte al mondo.
Consigliatissimo
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