rmarci 05
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martedì 16 luglio 2019
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un film che manca di vera profondità
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Tratto dall’acclamato romanzo autobiografico Caso letterario scritto dal giornalista Massimo Gramellini, che Marco Bellocchio adatta con lo scopo di rielaborare alcune delle tematiche a lui più care, come il disagio psicologico, con tanto di allucinazioni e momenti onirici, che deriva dall’elaborazione del lutto. Da questo punto di vista, il film funziona solamente nella prima parte, dove la descrizione della Torino degli anni ‘60 ed il racconto di un’infanzia irreversibilmente segnata sono piuttosto efficaci. Nella seconda, invece, Bellocchio cambia registro e tenta di esprimere le ansie ed il malessere interiore del bravo Valerio Mastandrea attraverso l’espressività della splendida fotografia, scadendo però troppe volte nel semplicismo con parecchie scene inconcludenti, in cui lo spessore delle tematiche trattate si riduce ad un esiguo alternarsi di immagini e sguardi.
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Tratto dall’acclamato romanzo autobiografico Caso letterario scritto dal giornalista Massimo Gramellini, che Marco Bellocchio adatta con lo scopo di rielaborare alcune delle tematiche a lui più care, come il disagio psicologico, con tanto di allucinazioni e momenti onirici, che deriva dall’elaborazione del lutto. Da questo punto di vista, il film funziona solamente nella prima parte, dove la descrizione della Torino degli anni ‘60 ed il racconto di un’infanzia irreversibilmente segnata sono piuttosto efficaci. Nella seconda, invece, Bellocchio cambia registro e tenta di esprimere le ansie ed il malessere interiore del bravo Valerio Mastandrea attraverso l’espressività della splendida fotografia, scadendo però troppe volte nel semplicismo con parecchie scene inconcludenti, in cui lo spessore delle tematiche trattate si riduce ad un esiguo alternarsi di immagini e sguardi. E’ evidente, quando si guarda il film, di assistere ad un prodotto artistico di un grande autore, molto competente in ambito registico, ma che stavolta risulta poco ispirato e/o incapace di trovare la cifra stilistica ideale per centrare il suo obiettivo. In conclusione, manca di vera profondità. 2,5 stelle.
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ralphscott
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domenica 6 agosto 2017
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se dramma dev'essere...e sia!
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Ben girato,ben recitato da tutti,annaquato forse dalle insicurezze di Massimo,eccessive per uno spettatore medio che pur apprezzerà gli intermezzi buffi. Il comportamento del ragazzino appare qua e là poco credibile,sebbene la recitazione sia di livello anche quando l'orfanello è alto un soldo di cacio. E' la sceneggiatura a non convincermi appieno,con le scene di un bimbo che urla al funerale,che schiaffeggia il prete,ecc. Il suicidio è un po' liberatorio,per lo spettatore. Luci ed ombre.
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lupo67
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martedì 25 luglio 2017
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un film un po’ ruffiano
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Voto 6
Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico, questo film parla dell’eleborazione di un lutto. Massimo, il protagonista, perde la mamma a nove anni, e da quel momento in poi non sarà capace di interiorizzare la perdita, di attenuare il dolore a ricordo.
Il regista (Marco Bellocchio) ci porta a conoscere Massimo, ma lo fa intimamente, dall’interno di quel dolore, attraverso gli occhi del bambino che rifiutando la morte della madre, rifiuta con questo l’esistenza compiuta del Massimo adulto.
Nel film c’è una bella battuta. A Massimo, che continua a chiedersi come sarebbe se sua madre fosse ancora viva, un professore risponde che: Il “se” è il marchio dei falliti.
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Voto 6
Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico, questo film parla dell’eleborazione di un lutto. Massimo, il protagonista, perde la mamma a nove anni, e da quel momento in poi non sarà capace di interiorizzare la perdita, di attenuare il dolore a ricordo.
Il regista (Marco Bellocchio) ci porta a conoscere Massimo, ma lo fa intimamente, dall’interno di quel dolore, attraverso gli occhi del bambino che rifiutando la morte della madre, rifiuta con questo l’esistenza compiuta del Massimo adulto.
Nel film c’è una bella battuta. A Massimo, che continua a chiedersi come sarebbe se sua madre fosse ancora viva, un professore risponde che: Il “se” è il marchio dei falliti. In questa vita si diventa grandi “nonostante”. Ebbene, quel “se” è la forma che il regista ha voluto dare al film, e a mio parere ne costituisce anche il difetto più grande. Perché tutto il resto della narrazione si perde in quell’interrogativo, si polverizza sotto al peso di quella domanda enorme e priva di risposta. E il regista se ne rende ben conto, sa che il tema portante del film è fragile e che necessita di essere puntellato qua e là. E così troviamo il finanziere, la guerra a Sarajevo, Superga, l’amico del cuore, che assolvono certamente al compito, ma sono rivoli narattivi che si perdono nel nulla. Quando a questo aggiungiamo i continui salti temporali, usati più per movimentare una storia altrimenti statica che per virtuosismo o cinematografica necessità, ci troviamo confusi e perdiamo il senso della storia, che poi sta tutta nel primo e nell’ultimo quarto d’ora.
Tirando le somme, un film noiosetto e volutamente strappalacrime. Sse non ne già avessimo visti a dozzine di simili, sia peggiori, sia migliori, varrebbe anche la pena suggerirne la visione. Ma così com’è si tratta di un film decisamente anonimo, nonstante Bellocchio.
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yarince
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lunedì 8 maggio 2017
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"fai bei sogni ovvero quando sarò capace di amare"
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Altro che "uccidere metaforicamente la madre", Bellocchio le madri le uccide veramente! Matricidi, suicidi, malati di mente, bestemmiatori. La famiglia non è mai il nido caldo della tradizione pascoliana (volgarmente detta del mulino bianco), ma una placenta soffocante da cui liberarsi per sopravvivere. Famiglie borghesi disfunzionali, rapporti patologici e folli, ipocrisie cattoliche: l'ora di religione, i pugni in tasca, nel nome del padre, gli occhi, la bocca; c'è, in questi suoi film, quel fil rouge che li collega: l'ossessione di Bellocchio per la figura materna e i rapporti familiari, e il suo modo di esorcizzare le paure dell'infanzia, vissuta con un fratello malato di mente.
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Altro che "uccidere metaforicamente la madre", Bellocchio le madri le uccide veramente! Matricidi, suicidi, malati di mente, bestemmiatori. La famiglia non è mai il nido caldo della tradizione pascoliana (volgarmente detta del mulino bianco), ma una placenta soffocante da cui liberarsi per sopravvivere. Famiglie borghesi disfunzionali, rapporti patologici e folli, ipocrisie cattoliche: l'ora di religione, i pugni in tasca, nel nome del padre, gli occhi, la bocca; c'è, in questi suoi film, quel fil rouge che li collega: l'ossessione di Bellocchio per la figura materna e i rapporti familiari, e il suo modo di esorcizzare le paure dell'infanzia, vissuta con un fratello malato di mente. Ero incuriosita da questo ultimo suo film, non tanto per la storia (perchè ha dovuto, in qualche modo, restare idelogicamente fedele al romanzo di Grammellini) ma piuttosto, da come avrebbe risolto la perdita della figura materna, lì dove mamma non è una figura negativa di cui liberarsi, ma una figura indispensabile, positiva, amorevole, lì dove il rapporto filiare non è castrante ma simbiotico e divertente (come si vede nelle prime scene del film, mentre ballano a perdifiato il twist e guardano abbracciati Belfagor). "Fai bei sogni" : un augurio che, nell'immaginario collettivo rimanda ad un momento rassicurante e intimo dell'infanzia, quando i nostri genitori ci rimboccano le coperte, e dopo la favola, spengono la luce e ci augurano la buona notte. Nel film, questa frase diventa l'incipit di un incubo, in cui l'unico compagno di cui fidarsi e a cui affidarsi è belfagor e dove tutte le figure che ruotano intorno al bimbo, amplificano la sua solitudine, l'assenza di abbracci, il disamore. Un incubo che termina, forse, solo con la crisi di panico, in età adulta, segnando il risveglio e la presa di coscienza che è arrivato il momento di conoscere la verità, di liberare la mamma dall'incantesimo e lasciarla andare via...
Bellocchio mi è sempre piaciuto, anche se il suo modo dissacrante di raccontare le famiglie mi ha sempre spinto verso pensieri cinici. Uno psicoterapeuta mi disse che le persone più equilibrate sono gli orfani... da donna non madre, a volte, penso al coraggio di chi mette al mondo un figlio, consapevole o non, che con la sua presenza o assenza, condizionerà la sua vita per sempre.
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domenica 26 marzo 2017
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un libro intenso diventa un film noiso
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Che peccato. C’erano tutte le premesse per realizzare un piccolo capolavoro. Un testo di partenza ricco e profondo, una storia emozionante, un cast di attori strepitosi, un regista affermato, mica noccioline. Eppure. Il racconto parte benissimo, con piccoli interpreti di straordinaria bravura, la giusta tensione sentimentale senza sbavature, una leggera ansia che percorre i silenzi ambigui, in attesa di quelle scoperte introspettive capaci di cambiare la vita. Invece. Il tempo comincia a scorrere vanamente, gli sguardi sempre più opachi non riescono a rivelare nulla, il ritmo si sfilaccia, la noia avanza.
Nel montaggio si affollano scene inutili e senza spessore, che sembrano quasi messe lì a bilanciare i meravigliosi camei di giganti come Herlitzka o Gifuni.
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Che peccato. C’erano tutte le premesse per realizzare un piccolo capolavoro. Un testo di partenza ricco e profondo, una storia emozionante, un cast di attori strepitosi, un regista affermato, mica noccioline. Eppure. Il racconto parte benissimo, con piccoli interpreti di straordinaria bravura, la giusta tensione sentimentale senza sbavature, una leggera ansia che percorre i silenzi ambigui, in attesa di quelle scoperte introspettive capaci di cambiare la vita. Invece. Il tempo comincia a scorrere vanamente, gli sguardi sempre più opachi non riescono a rivelare nulla, il ritmo si sfilaccia, la noia avanza.
Nel montaggio si affollano scene inutili e senza spessore, che sembrano quasi messe lì a bilanciare i meravigliosi camei di giganti come Herlitzka o Gifuni. I dilemmi interiori del libro si risolvono sullo schermo in fugaci e ripetute occhiate tristi, distribuite un po’ a casaccio. Il bravo Valerio Mastandrea sembra quasi rassegnarsi ad un mutismo ermetico, senza lasciar trapelare quasi nulla della girandola interiore che attraversa il testo scritto. Persino l’episodio dell’attacco di panico pare un fulmine a ciel sereno, vista l’esteriore passività emotiva del suo protagonista, mai risolta prima con una sincera apertura al mondo dei drammi sepolti in fondo al cuore. Il regista non prende una posizione neanche alla fine, compiacendosi quasi di un clima di fastidiosa vaghezza che ha caratterizzato tutto il film, senza scavare in quello che significa il dolore di un adulto, mai diventato tale. Un’occasione mancata, che però il libro aveva centrato in pieno.
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carolinamarsic
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lunedì 6 marzo 2017
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per essere un film italiano niente male
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Avendo già letto il libro, sapevo cosa aspettarmi. Certo ero sicura di non rimanere troppo entusiasta dopo la visione del film e in effetti è stato così. A mio parere vi sono stati troppi tempi "morti" che rendevano la narrazione pesante, ma l'idea di fondo è arrivata e soprattutto dopo la pubblicazione della lettera a Simone trovo che la qualità del film sia decisamente migliorata. Concludo quindi con un feedback positivo, nonostante trovo che la narrazione e la recitazione potevano essere migliorate, data la buona base di partenza.
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pierdelmonte
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venerdì 24 febbraio 2017
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film non facile
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Bellocchio porta sul grande schermo la vita di Massimo Gramellini, operazione riuscita a meta’, corrette le atmosfere con un credibile Mastandrea e i momenti toccanti mamma e bimbo, non efficace nella traduzione cinematografica dei tormenti di un ragazzo orfano di un grande affetto, insomma il tema principale viene sviluppato non in maniera chiara.
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parteripario
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mercoledì 8 febbraio 2017
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ricredersi
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Non so con precisione quando la mia ammirazione per Massimo Gramellini e i suoi buongiorno su “La Stampa” sia scemata, né perché. Credo cinque o sei anni fa e forse perché gli ho scritto un paio di volte e non mi ha risposto, forse perché seguire uno che ha sempre ragione dopo un po' annoia, forse perché non sbrocca mai. E poi, più di due o tre buoni sentimenti la settimana mi fanno apparire chiazze rosse sulla pelle. Fatto sta che ho smesso di leggerlo e ho cominciato ad arricciare il labbro ogni volta che lo incontravo.
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Non so con precisione quando la mia ammirazione per Massimo Gramellini e i suoi buongiorno su “La Stampa” sia scemata, né perché. Credo cinque o sei anni fa e forse perché gli ho scritto un paio di volte e non mi ha risposto, forse perché seguire uno che ha sempre ragione dopo un po' annoia, forse perché non sbrocca mai. E poi, più di due o tre buoni sentimenti la settimana mi fanno apparire chiazze rosse sulla pelle. Fatto sta che ho smesso di leggerlo e ho cominciato ad arricciare il labbro ogni volta che lo incontravo. Adesso poi è passato al Corriere e le occasioni di incrociare i suoi scritti saranno poche o nulle.
Ieri sera ho visto “Fai bei sogni” il film che ne ha tratto Bellocchio con Valerio Mastandrea nella parte di Gramellini, appunto. Non ci sarei mai andato di mia iniziativa, ma il film apre una rassegna di 8 pellicole in abbonamento e quindi... E poi l'alternativa sarebbe stata la prima serata di Sanremo.
Il problema è che il film mi è entrato dentro. Subito. Dalle prime scene, e questo non era affatto previsto. È facile commuovermi. Due canzoni a cavallo tra gli anni 60 e 70, un po' di riferimenti alla Torino di quell'epoca e la nostalgia viene su come bagna caoda. Quel bambino (attore Nicolò Cabras, non bravo: bravissimo), figlio unico, che gioca con la sua mamma sarei potuto essere io: stessi anni, stesso tipo di casa, addirittura stesso quartiere, Santa Rita. La faccio breve: il film racconta una storia vera, nella quale si fa riferimento alla felicità soltanto per contrapporla alla perdita e alla mancanza. Si vedono e si intuiscono un'infanzia e un'adolescenza davvero pesanti, come non mi aspettavo. Il dramma che si consuma, poi, è di una semplicità tale da apparire credibile, quasi tangibile. Ora che ho visto il film, cambia qualcosa? Probabilmente sì. Toccandomi da vicino, ha avuto l'effetto di una doccia e mi ha lavato via un po' di spocchia polverosa. Mi sento come dopo una visita a un conoscente in un brutto reparto di un brutto ospedale: pieno di buoni propositi e pronto a iniziare un nuovo ciclo con un tasso di cinismo più contenuto. Finché dura.
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manfredinino
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lunedì 16 gennaio 2017
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traspozione di bellocchio riuscita
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Era difficile come impresa ...io ho letto il libro e, volevo vedere il film.Bellocchio l'ha riletta e, realizzata cinematograficamente bene...senza sbavature...era difficile molto difficile e da lettore a spettatore...ero perplesso.Operazione riuscita...grazie al volto e l'interpretazione di Mastandrea...del bambino fenomenale e di 2 partecipazioni veramente esemplari di Gifuni ed Herlitska.Non eccezionale ma bello e profondo.
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aurash
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giovedì 8 dicembre 2016
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filmone
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Filmone. Solo Marco Bellocchio è in grado, oggi, nel 2016 di entrare nell'intimità della storia delle persone con una speranza, tutta umana, che gli permette di leggerne anche i risvolti più drammatici e dolorosi, quelli che nessun regista se non lui, ad oggi, è capace di raccontare, con profondità e verità.
Indimenticabili gli occhi del bambino innamorato della madre. Indimenticabile l'interpretazione di Valerio Mastrandrea. Indimenticabile e commovente la vicenda umana del bambino e dell'uomo. Bravo!
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