lbavassano
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lunedě 7 marzo 2016
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capolavoro di rigore stilistico ed etico
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Una rappresentazione dell'universo concentrazionario che ha pochi, pochissimi eguali sotto il profilo del rigore stilistico. La macchina da presa costantemente incollata al volto del protagonista rende con la massima forza la mostruosità claustrofobica, fisica ed etica, al pari dello sfocato di tutto ciò che lo circonda, dell'accumulo indistinguibile dei corpi destinati al macello, ma rende anche l'impossibilità di comprendere ciò che veramente vive, continua nonostante tutto a vivere, dietro quello sguardo implacabilmente fisso che solo in due occasioni si scioglie a sfiorare un improbabile, assurdo sorriso.
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Una rappresentazione dell'universo concentrazionario che ha pochi, pochissimi eguali sotto il profilo del rigore stilistico. La macchina da presa costantemente incollata al volto del protagonista rende con la massima forza la mostruosità claustrofobica, fisica ed etica, al pari dello sfocato di tutto ciò che lo circonda, dell'accumulo indistinguibile dei corpi destinati al macello, ma rende anche l'impossibilità di comprendere ciò che veramente vive, continua nonostante tutto a vivere, dietro quello sguardo implacabilmente fisso che solo in due occasioni si scioglie a sfiorare un improbabile, assurdo sorriso. Così è per il sonoro confuso, in cui risulta estremamente difficile discernere il rumore di fondo continuo, ossessivo, dalle parole, dalla babele dei linguaggi incomprensibili, incomunicabili se non come violenza. Un'inferno dantesco esplicitamente evocato in scene di lucidissima crudezza che non concedono spazio alcuno alla retorica ed alla facile commozione.
L'unica forma di umana pietà non può che essere destinata ad un cadavere, scelto quasi casualmente fra migliaia di altri, l'unica forma di dignità umana non può che apparire ancora più folle della troppo lucida follia che ogni umano rapporto ha devastato, la follia di un Saul radicalmente straniero, straniero ai carnefici così come alle altre vittime.
Ma forse sarebbe sufficiente una sola parola: capolavoro.
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writer58
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sabato 13 febbraio 2016
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una stagione all'inferno
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Un volto in primo piano, tutto il resto è sfocato, non si intuisce quasi nulla. La messa a fuoco rivela un paesaggio di campagna, un complesso di edifici tetri sormontati dalla scritta "Arbeit macht frei". Reclusi con un segno rosso sulla schiena, una grande X, inquadrati da dietro mentre si recano al lavoro. La cinepresa che accompagna i movimenti disordinati di una folla di persone nude che si riversano verso una doccia di Zyklon B, mentre una voce li esorta a sbrigarsi "per non fare raffreddare la zuppa". La fatica brutale dei sonderkommando che devono trascinare decine e decine di corpi, i "pezzi", fuori dalle camere a gas, recuperare vestiti, valigie e oggetti di valore, introdurre i cadaveri nei crematori, raccogliere le ceneri, disperderle.
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Un volto in primo piano, tutto il resto è sfocato, non si intuisce quasi nulla. La messa a fuoco rivela un paesaggio di campagna, un complesso di edifici tetri sormontati dalla scritta "Arbeit macht frei". Reclusi con un segno rosso sulla schiena, una grande X, inquadrati da dietro mentre si recano al lavoro. La cinepresa che accompagna i movimenti disordinati di una folla di persone nude che si riversano verso una doccia di Zyklon B, mentre una voce li esorta a sbrigarsi "per non fare raffreddare la zuppa". La fatica brutale dei sonderkommando che devono trascinare decine e decine di corpi, i "pezzi", fuori dalle camere a gas, recuperare vestiti, valigie e oggetti di valore, introdurre i cadaveri nei crematori, raccogliere le ceneri, disperderle. E bisogna fare in fretta, nuovi deportati attendono di entrare nelle "docce", occorre fare più turni, ottimizzare la forza lavoro, rendere più efficiente la macchina del genocidio.
Movimenti caotici di persone che escono da spazi chiusi per entrare in altri ambienti identici, con gli occhi puntati sulla schiena di chi gli sta davanti, che si assembrano, parlano a voce bassissima o che sono troppo attoniti per parlare e guardano fisso davanti a sè ed è tutto privo di contorni, vedi solo chi ti sta vicino, in testa risuonano gli ordini delle SS che ti urlano di fare in fretta, che organizzano la logistica dello sterminio.
Si va avanti come automi, mentre ondate di deportati vengono spinte lungo il percorso abituale, il gioco dell'oca della morte o, quando le camere a gas sono piene, ammazzati con una sventagliata di fucile o un getto di lanciafiamme.
Un giorno ti sembra di vedere tra i corpi esanimi un volto conosciuto. E' tuo figlio, magari non è il tuo vero figlio, ma in quel momento è come se lo fosse. Un adolescente di forse 14 anni e lo vuoi strappare al circuito abituale, vuoi dargli una degna sepoltura. Vai alla ricerca di un rabbino, supplichi il medico di mettere da parte il corpo, chiedi ai compagni che non capiscono di indicarti una persona che possa recitare il kaddish e celebrare il funerale.
Corri rischi tremendi per seppellire il ragazzo, puoi venir ucciso in ogni istante. Ma tanto, la tua fine è già segnata, la X sulla schiena è simile a un conteggio alla rovescia prossimo allo zero, tra due giorni tutta la squadra dei sonderkommando verrà sterminata. Se la vita è stata ridotta a un cumulo di orrori, tanto vale santificare la morte, dare dignità all’estremo congedo.
“Il figlio di Saul”, opera prima di Nemes, regista ungherese, è terrorizzante, caotico, sconvolgente, lascia nello spettatore un senso di sgomento di fronte alla “fabbrica della morte”. L’abominio dell’Olocausto è mostrato attraverso immagini parziali, confuse, convulse, come se la cinepresa fose affetta da miopia e riuscisse a inquadrare solo i dettagli vicini.
Un grande film.
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(di vanessa zarastro)
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angelo umana
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martedě 9 febbraio 2016
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abominio
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Qualcuno ha scritto che dopo un film come questo di László Nemes nessuno più ne girerà altri sulla Shoah. E’ un’esagerazione, altri film escono sull’argomento, la testimonianza non cesserà, anche perché “Fin quando la tragedia non incontra qualcuno che la sappia raccontare essa scivola sugli abiti come acqua nel diluvio”: questo ha detto Marco Belpoliti, scrittore e critico letterario, docente di letteratura a Bergamo e massimo esperto su Primo Levi. Nemes l’ha raccontata specificamente dai locali della eliminazione (Vernichtung) delle persone, che poi diventano corpi da far bruciare e la cui cenere veniva buttata nei fiumi tedeschi (una lapide in un punto del Danubio ricorda che lì fu buttata la cenere di 30.
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Qualcuno ha scritto che dopo un film come questo di László Nemes nessuno più ne girerà altri sulla Shoah. E’ un’esagerazione, altri film escono sull’argomento, la testimonianza non cesserà, anche perché “Fin quando la tragedia non incontra qualcuno che la sappia raccontare essa scivola sugli abiti come acqua nel diluvio”: questo ha detto Marco Belpoliti, scrittore e critico letterario, docente di letteratura a Bergamo e massimo esperto su Primo Levi. Nemes l’ha raccontata specificamente dai locali della eliminazione (Vernichtung) delle persone, che poi diventano corpi da far bruciare e la cui cenere veniva buttata nei fiumi tedeschi (una lapide in un punto del Danubio ricorda che lì fu buttata la cenere di 30.000 corpi!).
Nel suo primo lungometraggio, premio speciale della Giuria a Cannes 2015 e “plurinominato” per vari concorsi, il regista 39enne immagina il lavoro che svolgevano dei Sonderkommando (comando speciale) ungheresi, prigionieri essi stessi del lager di Auschwitz nel ’44 e destinati alla morte quando nuovi lavoratori prendevano il loro posto: è proprio una fabbrica organizzata o meglio una macelleria che lavora dei “pezzi” (Stücke). La macchina da presa costantemente alle spalle di Saul o sul suo volto, morto vivente che con altri riceve i nuovi carichi di ebrei in arrivo, che vengono fatti spogliare, i vestiti raccolti frettolosamente e ripuliti di eventuali gioielli e documenti privati, vite annullate senza più identità ma solo numeri, corpi, “pezzi”. Si chiudono le porte ermetiche della camera a gas e il sonderkommando sente il trambusto mortale e disperato che si placa in fretta dietro quelle porte.
Solo un tratto passeggero di umanità sembra avere il viso di Saul, quando accoglie i nuovi prigionieri a cui viene promesso lavoro, cure mediche e sa che sono di lì a poco destinati alla morte, come egli stesso, nulla più da sperare. E’ un film di ordini urlati, corpi trascinati o aperti che scorrono inavvertiti accanto a Saul, pianti di bambini. Riconosce tra la nuova produzione di “pezzi” il cadavere di suo figlio e il suo unico scopo diventa la ricerca di un rabbino che reciti il Kaddish e la sepoltura di quel corpo da non lasciar bruciare come gli altri. Non siamo sicurissimi che il figlio sia proprio il suo, ma questa idea di dargli degna sepoltura pare un desiderio di redenzione rispetto alla bruttezza del luogo e del lavoro che è costretto a compiere. Per farlo tradisce i suoi compagni che preparavano la rivolta e la fuga (inverosimili) prima che un nuovo sonderkommando prendesse il loro posto (Hai tradito dei vivi per seppellire un morto?!).
Non c’è musica, non c’è un sorriso in questo film, in fondo è un documento sulla crudezza di quei posti in una visione particolare del regista, un “La vita è bella” molto più tragico e rude. Un’ombra di sorriso appare sul volto di Saul in un bosco tra gente che fugge, quando evita ad un ragazzo dell’età del figlio di essere bersaglio dei nazisti che sparano a chi fugge.
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francoin
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domenica 7 febbraio 2016
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ma non sembrava un videogioco?
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bellissima la scelta narrativa, la soggettiva allucinata del protagonista sull'orrore oggettivo, sfumato da una psicche alterata. Però la scelta stilistica della camera che segue il protagonista inseguendo solo il suo punto di vista per tutto il film mi ha, dopo le prime terribili ed efficaci immagini, fatto allontanare dal contesto e mi ha fatto sentire in un videogioco militare, dove il contesto è ositle, terribile, ma troppo convergente sul protagonista per essere vero, e quindi dopo un pò l'impatto emotivo è calato, e verso la fien anche l'attenzione non c'era più.
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catcarlo
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giovedě 4 febbraio 2016
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il figlio di saul
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L’Olocausto è materia vasta, ma già ampiamente sfruttata e la ricerca di una nuova via per raccontarlo diventa quasi obbligata per evitare i rischi della banalizzazione più o meno lacrimevole: affrontare l’argomento utilizzando gli stilemi del film da festival è aggiungere sfida alla sfida con una certa dose di sorvegliata incoscienza. Partendo da simili, impegnativi premesse, l’esordiente ungherese Nemes realizza un’opera dalla controllatissima struttura formale attraverso la quale ricostruisce l’orrore dei campi di concentramento e, soprattutto, il livello zero di umanità in essi raggiunto: ne scaturisce un lavoro che, unendo mirabilmente estetica ed etica, colpisce con vigoroso impatto traendo forza dalla messa al bando di qualsiasi patetismo.
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L’Olocausto è materia vasta, ma già ampiamente sfruttata e la ricerca di una nuova via per raccontarlo diventa quasi obbligata per evitare i rischi della banalizzazione più o meno lacrimevole: affrontare l’argomento utilizzando gli stilemi del film da festival è aggiungere sfida alla sfida con una certa dose di sorvegliata incoscienza. Partendo da simili, impegnativi premesse, l’esordiente ungherese Nemes realizza un’opera dalla controllatissima struttura formale attraverso la quale ricostruisce l’orrore dei campi di concentramento e, soprattutto, il livello zero di umanità in essi raggiunto: ne scaturisce un lavoro che, unendo mirabilmente estetica ed etica, colpisce con vigoroso impatto traendo forza dalla messa al bando di qualsiasi patetismo. Grazie all’ottimo contributo della fotografia di Mátyás Erdély, il regista sceglie un inusuale formato in 4:3 con cui pedinare attraverso ossessivi e lunghissimi piani sequenza (magistrali fin dal primo e tremendo riguardante la camera a gas) il protagonista adottandone il punto di vista pressoché autistico: la poca profondità di campo fa sì che le figure restino a lungo sfocate, mentre i suoni a volte anticipano la visione accentuando un effetto straniante provocato inoltre dal loro mischiarsi ai dialoghi pronunciati in una babele di lingue diverse. L’inquadratura di testa, collo e spalle di Saul si ripete e si prolunga, ma non risulta mai stucchevole sapendo raccontare alla perfezione di come gli uomini si chiudano in se stessi nel momento in cui, in condizioni estreme, è solo la sopravvivenza a contare: è ormai questa la condizione del prigioniero (che di cognome fa Ausländer, ovvero ‘straniero’ in tedesco), membro di un Sonderkommando, le squadre che si occupavano della rimozione di cadaveri nei lager. Dopo una delle tristi ‘docce’ allo Zyklon B, un ragazzo viene trovato che ancora respira e Saul pretende di scorgere in lui il figlio (che non ha mai avuto): quando il giovane muore, si intestardisce a cercargli un rabbino per le esequie, in una sorta di fissazione – la presenza del religioso non è necessaria per gli Ebrei – che gli consenta di sentirsi di nuovo un essere umano. Perché nel mondo in cui vive pietà l’è morta, visto che vi si alternano il sadismo nazista dei beffardi annunci ai morituri e della dettagliata contabilità degli ‘Stücke’ (i corpi), i rapporti di sudditanza psicologica fra vittime e carnefici, le relazioni di potere fra i capetti prigionieri, il cortile durante l’episodio della porta che disturba quanto quello finale del pasoliniano ‘Salò’, l’angosciante e impeccabile scena da bolgia dantesca della fucilazione notturna nel bosco. Saul non si cura neppure di rischiare di mandare all’aria con le sue mosse il tentativo di ribellione dei suoi compagni di sventura (ispirato alla rivolta dell’ottobre del 1944 ad Auschwitz), ma la scossa che ricava dalla vicenda riesce infine a regalargli un pallido sorriso, unico e tenuissimo lampo di speranza nella più fitta oscurità. La minuziosa attività di cesello cinematografico non poteva prescindere dagli attori e, in un gruppo di volti difficili da dimenticare, davvero si fatica a immaginare una scelta migliore di Géza Röhrig – anche lui per la prima volta sul grande schermo – che impersona Saul regalando alla sua figura un andatura sgraziata e, in special modo, un viso dall’espressione ferita che pare uscire dritto dagli anni Trenta. Le somma delle scelte stilistiche di Nemes costringono a seguire il suo interprete assieme alla cinepresa e, al contempo, a immedesimarsi con il personaggio fino a doversi confrontare di persona con le atrocità: se è necessario meditare che questo è stato, la rappresentazione brutale e sincera voluta dal regista magiaro è tanto impossibile da scordare quanto importante per interrogarsi sulle cause e, di conseguenza, sul rischio che analoghe aberrazioni si possano ripetere.
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zulu51
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martedě 2 febbraio 2016
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un occasione fallita
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Al di là del tema, molto importante del film e di quanto sia giusto, per la memoria di tutti, portare a conoscenza di un periodo storico, dominato dalla follia, nutro però molte riserve, per quanto riguarda la sceneggiatura, che presenta, a mio avviso, molti buchi, provo ad analizzare i punti che mi sembrano ben poco credibili: i prigionieri che arrivano al campo non sembrano affatto denutriti, lo stesso per il ragazzo trovato, ancora vivo, dall'aspetto sano e bello pulito, negli indumenti i prigionieri hanno non solo i documenti, ma anche oggetti di valore, questo vuol dire che non sono stati nè registrati, nè perquisiti, questo mi sembra molto strano, qualcuno potrebbe anche avere delle armi e passare inosservato.
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Al di là del tema, molto importante del film e di quanto sia giusto, per la memoria di tutti, portare a conoscenza di un periodo storico, dominato dalla follia, nutro però molte riserve, per quanto riguarda la sceneggiatura, che presenta, a mio avviso, molti buchi, provo ad analizzare i punti che mi sembrano ben poco credibili: i prigionieri che arrivano al campo non sembrano affatto denutriti, lo stesso per il ragazzo trovato, ancora vivo, dall'aspetto sano e bello pulito, negli indumenti i prigionieri hanno non solo i documenti, ma anche oggetti di valore, questo vuol dire che non sono stati nè registrati, nè perquisiti, questo mi sembra molto strano, qualcuno potrebbe anche avere delle armi e passare inosservato.
Alla fine dell'esecuzione il medico esegue l'autopsia, a che scopo?, dice pure che deve registrare tutti i cadaveri, ma come se non ha i documenti? Più tardi si vedono anche dei corpi, interi infilati nei forni, questi non hanno subito l'autopsia?
La facilità con cui i detenuti addetti a questo terribile servizio, si muovono nel campo, senza alcun controllo. Il comportamento del soldato tedesco, quando il protagonista viene sorpreso in una stanza dove non dovrebbe stare, che si mette a danzare attorno a Saul, canzonandolo in un modo ben poco tedesco, alla presenza di un ufficiale di alto grado. La facilità con cui Emma la prigioniera, consegna il pacchetto con la polvere da sparo al protagonista e poi perchè mandare lui, sapendo lo stato d'animo in cui si trova, sapendo che il suo ha unico scopo è quello di seppellire il cadavere di un ragazzo, che lui crede essere suo figlio, anche se diverse volte i compagni di prigionia gli fanno presente che lui non ha figli.
In un altra scena Saul ed un altro stanno scavando la fossa per la sepoltura e dietro passano dei soldati tedeschi, ma nessuno si cura di andare a vedere cosa stiano facendo.
Quando il protagonista, una volta avuto il pacchetto va a cercare il rabbino, senza preoccpuarsi prima di sbarazzarsi del pacchetto, tanto pericoloso, si spoglia per vestire il rabbino, altrimenti destinato ad essere ucciso e si trova lui adesso a dover cercare i vestiti, dove li trova? Quando poi si accorge di aver perso il pacchetto, i compagni di prigionia non lo strozzano, come forse avrebbero fatto nella realtà.
A questa punto la figura di Saul, diventa fastidiosa, fuori luogo, ossessionato com'è dal desiderio di dare sepoltura e recitare la preghierina, io credo che una persona in un incubo del genere, si preoccuperebbe di salvarsi e di salvare altri, invece di pensare ad un morto, ed infatti la fuga, fallisce anche per colpa sua, il rabbino probabilmente non è un rabbino, perchè quando deve recitare la preghiera, non la sa.
Anche la fuga e la rivolta sono troppo facili, non si capisce dove abbiano trovato le armi e come siano riusciti ad uscire.
Tutti questi fattori mi fanno dubitare molto della validità di questo film, che ha avuto molti consensi e probabilmente vincerà, senza meritarlo, l'Oscar, sull'inquadratura sempre puntata sul protagonista invece non ho niente da dire, rende bene l'idea di girone infernale che vuole dare, ma per il resto mi sembra che un tema, così tragico ed importante, andasse affrontato con una conoscenza storica più approfondita.
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(di francesco2)
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no_data
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domenica 31 gennaio 2016
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il figlio di saul
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AVEVO MOLTE ASPETTATIVE RIGUARDO A QUESTO FILM ANCORA DI PU' QUANDO HO SAPUTI CHE HA VINTO IL PREMIO DELLA GIURIA A CANNES. FORSE E' PER QUESTO CHE NON GLI HO DATO CINQUE STELLE, PERCHE' MI ASPETTAVO UN CAPOLAVORO CHE EFFETIVAMENTE C'E' MA HO FATTO UN PO' FATICA A CAPIRE IL FILO LOGICO DI QUEATO FILM . COMUNQUE IL FILM EFFETTIVAMENTE E' MOLTO UMAN ITARIO INFATTI LA SALA ERA COMPELTAMENTE PIEBA. MA LA COSA DIFFICILE E' IL CAPIRE LE SEQUENZE DELLA IMMAGINI INOLTRE UN'ALTRA PECCA E' CHE E' PARLATO IN LINGUASTRANIERA PERCIO' BISOGNAVA STARE PER QUASI DUE ORE HA FISSARE I SOTTOTITOLI. MA COMUNQUE BNEL FILM NON CONSIGLIATO PER LE SCUOLE PERCHE' POTREBBERO FARE MOLTA FATICA A CAPIRE LE SEQUENZE.
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AVEVO MOLTE ASPETTATIVE RIGUARDO A QUESTO FILM ANCORA DI PU' QUANDO HO SAPUTI CHE HA VINTO IL PREMIO DELLA GIURIA A CANNES. FORSE E' PER QUESTO CHE NON GLI HO DATO CINQUE STELLE, PERCHE' MI ASPETTAVO UN CAPOLAVORO CHE EFFETIVAMENTE C'E' MA HO FATTO UN PO' FATICA A CAPIRE IL FILO LOGICO DI QUEATO FILM . COMUNQUE IL FILM EFFETTIVAMENTE E' MOLTO UMAN ITARIO INFATTI LA SALA ERA COMPELTAMENTE PIEBA. MA LA COSA DIFFICILE E' IL CAPIRE LE SEQUENZE DELLA IMMAGINI INOLTRE UN'ALTRA PECCA E' CHE E' PARLATO IN LINGUASTRANIERA PERCIO' BISOGNAVA STARE PER QUASI DUE ORE HA FISSARE I SOTTOTITOLI. MA COMUNQUE BNEL FILM NON CONSIGLIATO PER LE SCUOLE PERCHE' POTREBBERO FARE MOLTA FATICA A CAPIRE LE SEQUENZE. COMUNQUE MOLTO BELLO QUEALCHE DECINA DI MINUTI IN MENNO E SAREBBE SATATO PERFETTO.
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robroma66
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domenica 31 gennaio 2016
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resistenza all'abisso
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László Nemes ha avuto coraggio e il suo primo lungometraggio è ben riuscito, anche se è difficile dare dare un giudizio su un film che parla della Shoah.
Saul è un componente del Sonderkommando di Auschwitz, cioè uno dei prigionieri -periodicamente uccisi e sostituiti- che aiutavano gli aguzzini nazisti nella gestione dello sterminio. Saul ha il compito di accompagnare nelle camere a gas, pulire, bruciare i corpi. Un giorno Saul vede un bambino sopravvissuto
al gas e finito da un medico.
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László Nemes ha avuto coraggio e il suo primo lungometraggio è ben riuscito, anche se è difficile dare dare un giudizio su un film che parla della Shoah.
Saul è un componente del Sonderkommando di Auschwitz, cioè uno dei prigionieri -periodicamente uccisi e sostituiti- che aiutavano gli aguzzini nazisti nella gestione dello sterminio. Saul ha il compito di accompagnare nelle camere a gas, pulire, bruciare i corpi. Un giorno Saul vede un bambino sopravvissuto
al gas e finito da un medico. In quel bambino si convince di riconoscere suo figlio e decide
di dargli degna sepoltura, secondo
il cerimoniale del Kaddish. Si innesca così una forma di resistenza, di recupero della dimensione umana. La missione di Saul si affianca e quasi si contrappone ad un piano di fuga di alcuni prigionieri. Ma non c'è salvezza per nessuno.
A mio sentire, una delle scene più icastiche e rappresentative della funzione di annientamento umano del lager è stata la reazione dei nazisti nei confronti di Saul quando lo sorprendono ad aggirarsi negli ambienti della 'sala autoptica'. Lui è alla ricerca del corpo del ragazzo e quando viene scoperto si giustifica dicendo "Devo pulire". Un giovane ufficiale nazista comincia a scimmiottarlo e a deriderlo, accompagnato dalle risate degli altri aguzzini.
Saul è sempre al centro dell'inquadratura e l'orrore del campo di concentramento si vede sfocato.
Il film pare perfino che non sia dispiaciuto al regista, sceneggiatore e produttore novantenne francese Claude Lanzmann, autore di “Shoah” (monumentale raccolta di interviste ai sopravvissuti) che ha da sempre posizioni radicali, convinto che bisogna solo dar voce ai testimoni e nessuna immagine può degnamente essere prodotta sul tema degli stermini nazisti.
Naturalmente è un film che trasmette un'angoscia incomprimibile dalla quale è impossibile liberarsi.
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enzo70
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venerdě 29 gennaio 2016
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anche all'inferno si puň essere uomini
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Laslo Nemes esordisce alla regia con un film destinato ad entrare nella storia del cinema. Attenzione, non è un capolavoro; qualche indugio di troppo lo lascia nel limbo dei tanti bei film destinati a perdere nella comparazione dei grandi film. Ma alla durezza della storia che racconta, o alla sua infinita dolcezza, il regista ungherese affianca una tecnica di regia innovativa nella sua crudezza, le immagini sfocate continuamente sovrapposto, l’utilizzo rude del sonoro per trasferire il dramma delle urla e del dolore infinito della Shoà.
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Laslo Nemes esordisce alla regia con un film destinato ad entrare nella storia del cinema. Attenzione, non è un capolavoro; qualche indugio di troppo lo lascia nel limbo dei tanti bei film destinati a perdere nella comparazione dei grandi film. Ma alla durezza della storia che racconta, o alla sua infinita dolcezza, il regista ungherese affianca una tecnica di regia innovativa nella sua crudezza, le immagini sfocate continuamente sovrapposto, l’utilizzo rude del sonoro per trasferire il dramma delle urla e del dolore infinito della Shoà. Saul è un componente del sonderkommando di Aushwitz, un uomo la cui sopravvivenza è dovuta all’esigenza qualcuno bruci altri uomini, sulla base delle regole fissate da un popolo che al tempo dimenticò cosa significa l’umanità. Saul riconosce in un pezzo, così venivano chiamati gli ebrei passati per la camera a gas, suo figlio. O meglio, identifica in un bambino morto un figlio di quel popolo destinato al dolore. E mentre i membri del sondercommando preparano una rivolta, avendo deciso che è meglio morire combattendo che morire strisciando, l’unica preoccupazione di Saul è quella di seppellire il figlio, garantendogli il rito Kaddish. E non basta un rabbino, perché nell’inferno dei campi di concentramento tutto è vietato, anche seppellire un corpo nella fabbrica dei morti. Nemes ci porta così in un viaggio all’inferno, nel cuore produttivo di Auschwitz, i rumori sono quelli di un’acciaieria, il sogno teutonico dell’efficienza produttiva è realizzato nel campo di sterminio. La dolcezza c’è tutta nell’ultimo, e unico, sorriso di Saul al termine del film. Perché anche all’inferno ci si può ricordare di essere uomini.
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deadman
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mercoledě 27 gennaio 2016
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una storia rovinata
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conosco la storia del sonderkommando di auschwitz che in prossimità sella loro eliminazione si ribellò ai nazisti e vado a vedere il film, ma già dopo pochi secondi capisco cosa mi aspetto, l'inquadratura non è la solita da cinema la cosidetta 4:3 ma un misero quadrato evabbè, finisse qui ma il regista non contento ci propina un'inquadratura fissa sul personaggio in questione (dopo ne parleremo) con totale sfocatura della scena la quale va a fuoco solo quando il primo piano si sfoca. e questo per tutta la durata del film, una cosa che mi dà un'irritazione bestiale, provate poi capite. capisco che è la tua opera prima e vuoi far vedere che sei in "artista" ma amico mio stai parlando dell'olocausto non stai facendo una videoclip, che poi le qualità tecniche le avrebbe pure quindi non capisco questa scelta autoriale e snobistica veramente stupida che toglie nitidezza nel vero senso della parola a tutto il lungometraggio.
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conosco la storia del sonderkommando di auschwitz che in prossimità sella loro eliminazione si ribellò ai nazisti e vado a vedere il film, ma già dopo pochi secondi capisco cosa mi aspetto, l'inquadratura non è la solita da cinema la cosidetta 4:3 ma un misero quadrato evabbè, finisse qui ma il regista non contento ci propina un'inquadratura fissa sul personaggio in questione (dopo ne parleremo) con totale sfocatura della scena la quale va a fuoco solo quando il primo piano si sfoca. e questo per tutta la durata del film, una cosa che mi dà un'irritazione bestiale, provate poi capite. capisco che è la tua opera prima e vuoi far vedere che sei in "artista" ma amico mio stai parlando dell'olocausto non stai facendo una videoclip, che poi le qualità tecniche le avrebbe pure quindi non capisco questa scelta autoriale e snobistica veramente stupida che toglie nitidezza nel vero senso della parola a tutto il lungometraggio. poi invece di puntare sulla rivolta degli internati sposta l'attenzione sulla storia del personaggio principale totalmente assurda, in pratica trova un ragazzo in fin di vita nella camera e gas ed assiste senza fiatare quando il nazista lo uccide per poi sostenere che è suo figlio (?) e per tutto il tempo va in cerca di un rabbino per poterlo seppellire, totalmente assurdo in un campo di concentramento. a questo punto preferisco un film come labirinto di silenzi che espleta la sua funzione di denuncia senza sfronzoli "pseudo-artistici" peccato perchè la storia era veramente fantastica/orribile un regista con meno velleità l'avrebbe svolta meglio per esempio guardatevi "il falsario" stupendo, o "il pianista"
speriamo solo che non diventi un altro inarritu
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[+] maggior indulgenza
(di goldy)
[ - ] maggior indulgenza
[+] pienamente d'accordo
(di flaw54)
[ - ] pienamente d'accordo
[+] ...
(di no_data)
[ - ] ...
[+] uno storico .... che non vede "la storia"?
(di smarter)
[ - ] uno storico .... che non vede "la storia"?
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