no_data
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mercoledě 27 gennaio 2016
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meritatamente premiato
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Film veramente efficace. Chi non avesse ancora un'idea precisa di cosa fosse un campo di concentramento, con questo film se la fa completamente. Il percepito, attraverso le voci fuori campo, il fumo dei forni, i cadaveri sfuocati, le urla dietro le porte, portano lo spettatore ad una immaginazione terrifica della realtŕ della situazione. I primi piani, penetranti oltre che bellissimi, catturano l'attenzione dall'inizio alla fine, immergendo lo spettatore nell'incubo vissuto dalle vittime. Se si pensa che questa č opera prima di un giovane esordiente i Premi a Cannes 2015, il Golden Globe e la Nomination per l'Oscar sono tutti meritatissimi. Complimenti Laszlo!!!
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angelo76
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mercoledě 27 gennaio 2016
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da non perdere
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un film necessario.
da non perdere
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flyanto
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martedě 26 gennaio 2016
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la lotta esasperata e vana di un padre
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Esordio cinematografico del giovane regista ungherese Laszlo Nemes, "Il Figlio di Saul" si inserisce nel filone dei films che ricordano la Shoah e lo sterminio in generale di tutti gli individui nei campi di concentramento durante il secondo conflitto mondiale.
Il protagonista (Géza Rohrig) di nome, appunto, Saul è un prigioniero ungherese di religione ebraica rinchiuso nel campo di concentramento di Auschwitz e, al momento, è ancora in vita rispetto a tutti coloro che sono condotti direttamente nelle camere a gas poichè svolge dei lavori di profonda pulizia e di estrema fatica per i comandanti della prigione dove è rinchiuso.
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Esordio cinematografico del giovane regista ungherese Laszlo Nemes, "Il Figlio di Saul" si inserisce nel filone dei films che ricordano la Shoah e lo sterminio in generale di tutti gli individui nei campi di concentramento durante il secondo conflitto mondiale.
Il protagonista (Géza Rohrig) di nome, appunto, Saul è un prigioniero ungherese di religione ebraica rinchiuso nel campo di concentramento di Auschwitz e, al momento, è ancora in vita rispetto a tutti coloro che sono condotti direttamente nelle camere a gas poichè svolge dei lavori di profonda pulizia e di estrema fatica per i comandanti della prigione dove è rinchiuso. Ma i suoi giorni sono ovviamente contati come tutti quelli dei suoi simili. Un giorno egli, ripulendo le camere a gas dai cadaveri lì deceduti, scopre con sgomento e profondo dolore la presenza anche di suo figlio che egli ha avuto da una relazione extra coniugale. Da questo momento in poi il protagonista si adopererà con ogni mezzo al fine di trovare un rabbino che possa recitare al figlio il Kaddish, le preghiere cioè del funerale e donargli anche una degna sepoltura senza venire cremato nei grossi forni insieme a tutte le altre salme. Purtroppo, tutto ciò si rivelerà invano....
Un film senza alcun dubbio molto crudo ed assai profondo per ricordare una terribile pagina di storia che purtroppo ha infangato la storia dell'umanità in generale. Quello, comunque, che rende il film maggiormente crudo e quanto mai realistico ed efficace nel suo intento di esplicita denuncia, è proprio l'ambientazione stessa in cui la storia è ambientata, l'interno claustrofobico e terribile di un lager dove si consumano giornalmente le violenze più estreme e terribili nei confronti di innocenti esserei umani, all'insegna del buio, dello sporco e dalle grida cacofoniche e continue dei comandanti nazisti preposti alle azioni di sterminio. Pertanto tutte le scene sono girate nella più profonda oscurità, con un ritmo concitato e, ripeto, all'insegna di uno spazio claustrofobico in cui ogni essere ancora in vita pensa al proprio interesse non tanto per puro egoismo, quanto più per istinto di sopravvivenza. Insomma, per essere un'opera d'esordio, il film è molto ben girato, dettagliatamente fedele all'ambientazione ed alla vita nei campi di concentramento, elementi che denotano una certa padronanza della macchina da presa e pertanto un'opera quanto mai efficace ai fini della denuncia di crudeltà disumane nonchè per una profonda riflessione. Da segnalare è anche la buona interpretazione del protagonista principale, l'attore ungherese, a noi sconosciuto, Géza Rohrig, che si manifesta quanto mai espressivo nella sua angoscia e nel suo incessante e frenetico peregrinare per darsi da fare al fine di riuscire nel suo assurdo e difficile intento.
Un esempio, ripeto, di buon cinema.
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elpiezo
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lunedě 25 gennaio 2016
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autentico ed angosciante!!!
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Risoluto esordio alla regia per l'ungherese Laszlo Nemes che racconta l'orrore dei lager nazisti attraverso le disperate gesta di un deportato tra le mura di Auschwitz. Saul, ebreo ungherese addetto allo smistamento ed alla cremazione dei corpi farŕ di tutto per offrire degna sepoltura al cadavere di un bambino (suo figlio?). Una nervosa telecamera ne segue le gesta mentre attorno, l'abominio viene mostrato in maniera offuscata ed intuitiva, corredata da una moltitudine di urla, voci, rumori e lingue differenti atti a comporre una Babele immersa nell'isteria collettiva.
Una ruvida violenza che fa da contorno all'insistente peregrinare dei protagonisti aggrappati alla speranza di un'improbabile rivolta o dall'ossessione di compiere un semplice rituale mistico, mentre le immagini si soffermano sui volti tirati di esseri umani in perenne lotta per la sopravvivenza.
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Risoluto esordio alla regia per l'ungherese Laszlo Nemes che racconta l'orrore dei lager nazisti attraverso le disperate gesta di un deportato tra le mura di Auschwitz. Saul, ebreo ungherese addetto allo smistamento ed alla cremazione dei corpi farŕ di tutto per offrire degna sepoltura al cadavere di un bambino (suo figlio?). Una nervosa telecamera ne segue le gesta mentre attorno, l'abominio viene mostrato in maniera offuscata ed intuitiva, corredata da una moltitudine di urla, voci, rumori e lingue differenti atti a comporre una Babele immersa nell'isteria collettiva.
Una ruvida violenza che fa da contorno all'insistente peregrinare dei protagonisti aggrappati alla speranza di un'improbabile rivolta o dall'ossessione di compiere un semplice rituale mistico, mentre le immagini si soffermano sui volti tirati di esseri umani in perenne lotta per la sopravvivenza.
Il figlio di Saul č un opera coraggiosa ed originale; nonostante le sequenze agitate costringono il pubblico a prender parte all'angosciante follia, il film risulta un valido documento che si prende i rischi di raccontare lo Shoah direttamente dagli occhi dei protagonisti.
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melandri
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lunedě 25 gennaio 2016
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capolavoro assoluto
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Un capolavoro assoluto. Non ci sarebbe altro da aggiungere. Precedenti stupendi film sull'olocausto (Schindler, train de vie, il pianista, tanto per citarne alcuni) , al cospetto di Saul e come scomparissero. Qui si entra direttamente, in quell'inferno degli umani sulla terra, quali furono i lager nazisti. senza se e senza ma. Non si può uscire non segnati dalla sala dopo la visione di quest'opera prima made in Ungheria. Da vedere , al cinema, perchè il formato 4.3 ed un sonoro che è parte vibrante del tutto, ti portano dentro l'orrore attaccati alla schiena di Saul. Una schiena , uno "stuck", che cerca nella cerimonia di una morte un anelito di vita.
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Un capolavoro assoluto. Non ci sarebbe altro da aggiungere. Precedenti stupendi film sull'olocausto (Schindler, train de vie, il pianista, tanto per citarne alcuni) , al cospetto di Saul e come scomparissero. Qui si entra direttamente, in quell'inferno degli umani sulla terra, quali furono i lager nazisti. senza se e senza ma. Non si può uscire non segnati dalla sala dopo la visione di quest'opera prima made in Ungheria. Da vedere , al cinema, perchè il formato 4.3 ed un sonoro che è parte vibrante del tutto, ti portano dentro l'orrore attaccati alla schiena di Saul. Una schiena , uno "stuck", che cerca nella cerimonia di una morte un anelito di vita.
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fabiofeli
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lunedě 25 gennaio 2016
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Łsiamo giŕ morti"
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E’ attonito, stolido, apparentemente indifferente il volto di Saul (Geza Rohrig) che riempie lo schermo per metà film. Saul è un ebreo del Sonderkommando di Auschwitz: deve convincere le vittime a spogliarsi per una doccia e una zuppa calda e spingerle nelle camere a gas. Poi deve ripulire gli spogliatoi, vuotare le tasche dei deportati in cerca di denaro e gioielli, caricare gli “Stűcke”, i “pezzi”, vale a dire i cadaveri ridotti a oggetti per portarli alla cremazione. Se questo è un uomo, scrive Primo Levi. Quello che si svolge attorno a lui si intravede, si intuisce: si sentono gli ordini secchi delle guardie, gli spari delle esecuzioni sommarie e le mani frenetiche delle vittime che battono contro le porte di ferro delle camere a gas.
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E’ attonito, stolido, apparentemente indifferente il volto di Saul (Geza Rohrig) che riempie lo schermo per metà film. Saul è un ebreo del Sonderkommando di Auschwitz: deve convincere le vittime a spogliarsi per una doccia e una zuppa calda e spingerle nelle camere a gas. Poi deve ripulire gli spogliatoi, vuotare le tasche dei deportati in cerca di denaro e gioielli, caricare gli “Stűcke”, i “pezzi”, vale a dire i cadaveri ridotti a oggetti per portarli alla cremazione. Se questo è un uomo, scrive Primo Levi. Quello che si svolge attorno a lui si intravede, si intuisce: si sentono gli ordini secchi delle guardie, gli spari delle esecuzioni sommarie e le mani frenetiche delle vittime che battono contro le porte di ferro delle camere a gas. Saul non collabora con gli altri malcapitati del Sonderkommando; è al termine dei quattro mesi e conosce la sua sorte ormai vicina. Dice: “Siamo già morti”. Si scuote solo al vedere un ragazzo, nel quale crede di ravvisare suo figlio, che respira ancora all’uscita della camera a gas; un medico, però, soffoca il fanciullo e Saul si prefigge solo uno scopo: trovare un rabbino per l’orazione funebre, che lo aiuti nella sepoltura. E’ il solo modo di ribellarsi che gli sembra possibile …
L’orrore del lager viene mostrato quasi fuori campo: una catena di montaggio della fabbrica industriale della morte, organizzata a perfezione, con lo smaltimento dei “pezzi” e il recupero degli oggetti utili come sottoprodotti. Il regista Laszlo Nemes sembra voler dire che l’orrore è irrappresentabile. Si tratta solo di una fabbrica insensata, quasi come a volte si rivela quella dell’industria capitalistica, perché la morte non finisce mai e allo stesso modo la produzione industriale si inceppa con la saturazione del mercato. La tecnica di ripresa in close-up sul viso, sulla fronte, sulla nuca di Saul ricorda lo stile dei Dardenne. Un solo sorriso illumina il volto di Saul, quando vede un altro ragazzo del quale potrebbe essere padre. C’è ancora una scintilla di sentimento umano in lui e smorza in parte, solo in parte, l’amarezza della vicenda.
Un’opera prima: un grandissimo film. Da non mancare.
Valutazione ****
FabioFeli
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marcello1979
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lunedě 25 gennaio 2016
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si.. ma che angoscia..
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Ineccepibile...
Ricostruzione storica perfetta.
Un viaggio nelle tenebre e negli orrori dell'olocausto..
Ombre sulla storia del protagonista, non è molto chiaro il legame con "Ella"..
Tuttavia a queste scenografie preferisco le trame dei romanzi di Bassani..
Non capisco come non si possa partire da una storia semplice per narrare l'orrore dei quel periodo..
E' per forza necessaria tutta questa crudeltà?
Grande attore.
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(di goldy)
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flaw54
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lunedě 25 gennaio 2016
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inguardabile
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Va bene il messaggio, il realismo delle scene, i colori che accompagnano le scene, le riprese sempre in soggettiva, ma il cinema secondo me è un' altra cosa. Io non ho resistito e per la prima volta da moltissimi anni ho abbandonato la sala prima della fine. Puro estetismo rovesciato.
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(di siebenzwerg)
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goldy
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sabato 23 gennaio 2016
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sconvolgente ma vivificante
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L'angoscia delle scene inziali spingono a lasciare la sala ma poi il rispetto e la condivisione verso le vittime della Shoah hanno il sopravvento e si trova la forza per continuare la visione.
Il film non lascia respiro e per gli assurdi della legge del contrappasso diventa un inno alla vita. La tenacia e l'apparente insesatezza del padre che vuole dare dignità alla morte del figlio nessunj altra spiegazione hanno se non la scoperta del senso di riverente rispetto verso la sacralità della vita.
In un mondo come quello attuale dove scoraggiamento e perdita di senso si fanno sempre più largo è davvero necessario scendere in un inferno come quello dei campi di concen
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L'angoscia delle scene inziali spingono a lasciare la sala ma poi il rispetto e la condivisione verso le vittime della Shoah hanno il sopravvento e si trova la forza per continuare la visione.
Il film non lascia respiro e per gli assurdi della legge del contrappasso diventa un inno alla vita. La tenacia e l'apparente insesatezza del padre che vuole dare dignità alla morte del figlio nessunj altra spiegazione hanno se non la scoperta del senso di riverente rispetto verso la sacralità della vita.
In un mondo come quello attuale dove scoraggiamento e perdita di senso si fanno sempre più largo è davvero necessario scendere in un inferno come quello dei campi di concentramento per recuparare il senso delle cose?
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vanessa zarastro
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venerdě 22 gennaio 2016
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il ritorno del cinema ungherese
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Il figlio di Saul è un film molto duro dove la violenza è palese ma non è manifestata con l’immagine, non c’è descrizione o spettacolarizzazione delle camere a gas. Siamo ad Auschwitz nel 1944: ci sono i suoni, i rumori, le urla.
I corpi si possono intravedere in un voluto "fuori fuoco". Tutto è claustrofobico e visto ad altezza d’uomo. Solo un paio di scene dove si vede la natura incontaminata che contrasta con la perfida organizzazione scientifica dello sterminio. Il film parla anche dell'importanza ruolo della memoria e della testimonianza. Da un lato, il tentativo dei ribelli di rimediare una macchina fotografica per rappresentare la tragedia d’immani proporzioni del campo di sterminio, dall’altro, lo sguardo del bambino che, nel finale, vede i fuggiaschi e poi sente gli spari sarà proprio il ricordo del sopravvissuto.
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Il figlio di Saul è un film molto duro dove la violenza è palese ma non è manifestata con l’immagine, non c’è descrizione o spettacolarizzazione delle camere a gas. Siamo ad Auschwitz nel 1944: ci sono i suoni, i rumori, le urla.
I corpi si possono intravedere in un voluto "fuori fuoco". Tutto è claustrofobico e visto ad altezza d’uomo. Solo un paio di scene dove si vede la natura incontaminata che contrasta con la perfida organizzazione scientifica dello sterminio. Il film parla anche dell'importanza ruolo della memoria e della testimonianza. Da un lato, il tentativo dei ribelli di rimediare una macchina fotografica per rappresentare la tragedia d’immani proporzioni del campo di sterminio, dall’altro, lo sguardo del bambino che, nel finale, vede i fuggiaschi e poi sente gli spari sarà proprio il ricordo del sopravvissuto.
Lunghi piani sequenza con la macchina da presa (in pellicola formato 4:3) ad altezza spalla che, quando non inquadra nei primi piani il protagonista eternamente in scena, lo segue ovunque: una “maschera di ferro” in cui il terrore e l’alienazione hanno tolto qualsiasi emozione. Non ci sono i buoni e non c’è pietas c’è solo la spersonalizzazione e un innato senso di sopravvivenza che è la molla dei movimenti e fa sì che non si fa più caso a nulla…a meno che non sia l’immagine di un bambino ucciso soffocato dopo essere incredibilmente sopravvissuto alla camera a gas. Così l’ebreo ungherese Saul Ausländer (un fantastico Géza Röhring, scrittore e poeta) cerca di esorcizzare la sua colpa di collaborazionismo – era reclutato a lavorare nel sonderkommando per rimuovere i cadaveri dalle camere a gas e poi bruciarli - nel tentare di dare una dignità alla morte poiché nella vita non esiste più. Così il film tratta della sua ossessione nel cercare un rabbino che reciti il kaddish e che lo aiuti a dare una sepoltura a suo figlio (ma sarà veramente suo figlio o è solo simbolico?) per cui rischia più volte la morte pur di sottrarre il cadavere, tra le migliaia di corpi, dai forni crematori e nella ricerca di un rabbino disponibile. Gli unici momenti di tenerezza sono nello sguardo del padre, quando distende il corpo del figlio nel suo letto e quando inizia a lavarlo con amore e delicatezza (rechitzah). L’ossessione di Saul lo distoglie anche dall’impegno politico e sociale che infervora i suoi compagni ribelli: in lui c’è solo assuefazione e l’unico suo desiderio è di dignità nella morte. Infatti, nella cultura ebraica la morte ha una notevole importanza e sette sono i giorni di lutto stretto.
László Nemes è un giovane regista ungherese neanche quarantenne figlio d’arte – anche suo padre è regista – che ha studiato cinema sia a Parigi sia a New York ed è al suo primo lungometraggio. Con lui sembra di ritornare agli anni d’oro dei registi ungheresi del “Nuovo cinema ungherese” come ad esempio Miklós Jancsó negli anni Sessanta. Già premiato a Cannes e vinto il Golden Globe, il film è candidato meritatamente all’Oscar 2016 come migliore film straniero.
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[+] un innato senso di sopravvivenza...
(di angelo umana)
[ - ] un innato senso di sopravvivenza...
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