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Ad un passo dalla morte. Valutazione 3 stelle su cinque

di ashtray_bliss


Feedback: 29534 | altri commenti e recensioni di ashtray_bliss
mercoledì 20 luglio 2016

Immeritate le critiche negative che si è guadagnata questa decentissima pellicola ed opera prima alla regia di Yannick Sailet che anche se ricalca un motivo già noto e sfruttato, quello della sopravvivenza di una singola persona in una situazione di stallo e prigionia, riesce a mettere in piedi in modo dignitoso e convincente il dramma del protagonista evitando accuratamente sentimentalismi e melodrammi: un soldato dell'esercto francese, sopravvissuto a un agguato dei talebani che è costato la vita a tutti i suoi compagni in missione nel deserto dell'Afganistan, accidentalmente pesta una mina. Immobilizzato e pietrificato dalla paura e angoscia l'uomo ha pochi mezzi a disposizione per tentare di sopravvivere nelle ore a venire e chiamare aiuto. Ma davanti a lui si trova un soldato ferito e un camion carico di droga con una donna francese presa in ostaggio. La situazione si fà sempre più tesa col passare delle ore durante le quali lo spettatore viene costretto ad immedesimarsi completamente nel protagonista. Nel film infatti, non vi è alcun cambiamento di scena, nessun flashback, nessuna allucinazione che possa allontanare lo spettatore e alleviarlo momentaneamente da quella desertica e spietata visuale. Ma lo scopo del film, come del resto si riscontra nel semi perfetto Buried (2010), è proprio quello di far vivere al pubblico le stesse emozioni del protagonista Denis nel suo luogo di prigionia che paradossalmente non è un luogo chiuso e claustrofbico ma un deserto, arido e inospitale, fatto di pietre, rocce e sole che brucia. In queste condizioni di esasperatezza totale, panico e irreversibilità, Dennis si ritrova a dover affrontare la morte a occhi aperti, la quale si manifesta sempre sotto forme diverse: uno scorpione che si avvicina, un cecchino che spara a distanza, un fuoristrada con un talebano a bordo, che parla una lingua a lui incomprensibile e pronto ad ucciderlo. Ma la morte imminente viene rappresentata anche dalla tempesta di sabbia, il freddo pungente della notte contrapposto al caldo esaustivo del giorno. La natura del luogo sembra complottare contro lo sfortunato protagonista il quale si ritrova a dover combattere e resistere verso più fronti mentre fisicamente e psicologicamente si mostra sempre più indebolito. La mina a quel punto è l'unico legame che gli resta tra la vita e con la morte nell'incertezza che quella vecchia mina di produzione sovietica possa essere ancora in grado di attivarsi ma coltivando la speranza che ciò non accada. In tutto questo contesto di rassegnatezza e resistenza al contempo, assistiamo al legame di conforto, che nasce tra il soldato e la donna sequestrata alla quale Dennis non smette mai di parlare e incoraggiarla a tenere duro, mentre aspetta che i soccorsi lo raggiungano. La ricetrasmittente ed un vecchio cellularre sono del resto gli unici agganci che Dennis ha col mondo esterno, i suoi colleghi in procinto di mandargli i soccorsi e la sua famiglia in Francia che si eà lasciato alle spalle da mesi. Ma in tutto questo scenario desertico e isolato si vedrà passare davanti a lui uno sciame di donne velate le quali lo superano e lo ignorano con freddezza e indifferenza impegnate a caricare i muli con la droga del camion. Solo un bambino oserà passare quel confine tra umanità e desolazione, estraniazione umana, osando avvicinarsi al 'nemico' ed invasore e prestargli ascolto e compagnia per un pò di tempo in cambio di oggetti che alla fine non accetterà. Solo il piccolo farà la differenza e riuscira momentaneamente a ristabilire la speranza nell'umanità. Infine tutto sembra voler finalmente lasciar presagre il meglio per lo sfortunato protagonista ma il colpo di scena finale ribalterà nuovamente gli equilibri stabiliti lasciando un senso di incompiutezza e smarrimento nel pubblico. 
L'opera prima di Saillet risulta un prodotto semi-riuscito che pur non basandosi su un soggetto originale o innovativo (un unico uomo alle prese con la sopravvivenza in un posto dal quale non può scappare) riesce comunque a risultare un buon dramma-thriller che non annoia e non delude le aspettative. La recitazione è valida anche se non al top e l'attore protagonista (Pascal Elbe) per certi versi risulta poco convincente ma pensando che da solo ha dovuto soreggere tutto il peso della pellicola in un ruolo difficile e impegnativo si può dire che anch'esso ne esce a testa alta dalla sfida posta inizialmente. In definitiva si tratta di un prodotto godibile ed apprezzabile, che evidenzia ancora una volta, seppur con delle dovute sforzature da copione, la salda forza di volontà e istinto di sopravvivenza di un uomo letteralmente piegato -come da titolo originale- nel corpo e nello spirito. Un opera scarna e spoglia di qualsivoglia sentimentalismo o didascalie etico-morali che forse qualcuno s'aspetta data l'attualità dell'ambientazione e degli avvenimenti che fanno da cornice alla pellicola, il film si concentra volutamente nel rappresentare l'odissea di un uomo che dal momento in cui pesta la mina smette di essere un soldato in guerra e si trasforma in un uomo dedito alla mera sopravvivenza su un campo di battaglia ormai a lui estraneo, un soggetto che tenta di restare aggrappato alla vita il più possibile. Il ritmo narrativo risulta a tratti lento ma senza mai far perdere o sminuire l'interesse e la curiosità che si è venuta a creare tra il pubblico. L'azione e i colpi di scena non mancano mentre i dialoghi, comprensibilmente, sono ridotti all'osso. Insomma, non si tratta di un capolavoro ma di un progetto decente, attuale e interessante.
Da vedere, 3/5. 

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