reckless project
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venerdì 3 maggio 2013
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fino all'ultimo respiro
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Il debutto alla regia di Valeria Golino sarà a Cannes nella sezione Un Certain Regard. E’ liberamente ispirato al libro "A nome tuo" di Mauro Covacich e ricorda le vicende di Jack Kevorkian, dalle quali è stato tratto un film Tv nel 2010 diretto da Barry Levinson e interpretato da Al Pacino. Miele è lo pseudonimo che sceglie la protagonista per mantenere l’anonimato; il film è stato scritto dalla regista con Valia Santella e Francesca Marciano. A quest’ultima non piace la definizione di “angelo della morte” in riferimento al personaggio interpretato da Jasmine Trinca ma in realtà è perfettamente calzante: Irene (questo il suo vero nome, dal greco “pace”) è una trentenne che aiuta le persone affette da malattie terminali o degenerative a porre fine alla loro sofferente esistenza.
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Il debutto alla regia di Valeria Golino sarà a Cannes nella sezione Un Certain Regard. E’ liberamente ispirato al libro "A nome tuo" di Mauro Covacich e ricorda le vicende di Jack Kevorkian, dalle quali è stato tratto un film Tv nel 2010 diretto da Barry Levinson e interpretato da Al Pacino. Miele è lo pseudonimo che sceglie la protagonista per mantenere l’anonimato; il film è stato scritto dalla regista con Valia Santella e Francesca Marciano. A quest’ultima non piace la definizione di “angelo della morte” in riferimento al personaggio interpretato da Jasmine Trinca ma in realtà è perfettamente calzante: Irene (questo il suo vero nome, dal greco “pace”) è una trentenne che aiuta le persone affette da malattie terminali o degenerative a porre fine alla loro sofferente esistenza. Più che di eutanasia si può parlare di suicidio assistito; la ragazza viaggia su e giù per l’Italia e per procurarsi il barbiturico illegale che non lascia tracce nell’autopsia vola fino in Messico. E’ legata a suo padre e porta avanti una doppia relazione (con il complice De Rienzo e l’ignaro Marchioni) ma essenzialmente è una persona che vive una forte solitudine, aggravata dal fatto che il modo in cui si guadagna da vivere è anche il suo grande segreto. Miele cerca il contatto con la vita fino allo sfinimento, gesto che nel film è reso efficacemente dalle corse forsennate in bicicletta, dalle immersioni subacquee, dai ricordi d’infanzia e dai rapporti sessuali che bruciano veloci dando al tutto un senso di espiazione. La sua è una missione a fin di bene alla quale è ormai assuefatta e freddamente abituata finchè un giorno un “errore di sistema” la risveglia. Un ingegnere settantenne le ha mentito: si è fatto procurare il farmaco ma scoppia di salute. Il tradimento del suo codice etico e il senso di colpa la fanno avvicinare all’uomo, prima nel tentativo di sottrargli il barbiturico e poi per cercare di dissuaderlo dalla sua volontà. Difficile trovare materiale superfluo nel film e assolutamente d’obbligo non svelare nulla se non che la storia è basata saldamente sul rapporto tra la giovane Irene e l’ingegner Grimaldi, interpretato quasi alla perfezione da Carlo Cecchi, una persona giovanile e acuta, fisicamente sana ma stanca di vivere anche a causa dell’ “imbecillità contemporanea”. Il punto debole è proprio all’inizio dello sviluppo, l’imprudenza di un paio di passaggi fondamentali e della loro prevedibilità insieme a qualche leggera forzatura di scrittura non convincono pienamente e rendono il dialogo un po’ letterario e dottrinale.Il tema è quello recentemente abusato ma fortissimo (e tabù in Italia, vedi anche Bella addormentata) della malattia e del desiderio di morire facendosi aiutare, che ci ha regalato alcuni eccellenti film negli ultimi anni (da Le invasioni barbariche ad Amour assando per Mare dentro e Million dollar baby). Quest’opera offre spunti di riflessione piuttosto che un intreccio melodrammatico o sequenze cariche di pathos e affronta il tema sensatamente con tocco leggero. Valeria Golino dimostra di essere una perla rara nel panorama cinematografico nostrano. Chi può vantare di aver diviso la scena con un Dustin Hoffman da Oscar (in Rain Man) o con una superstar come Madonna (nel tarantiniano Four rooms)? Scoperta dalla Wertmuller ha recitato negli USA per John Carpenter, Mike Figgis e nell’esordio alla regia di Sean Penn; da noi è stata bravissima negli ultimi tempi come protagonista di Respiro e de La guerra di Mario per entrambi i quali ha vinto il Nastro d’argento come miglior attrice. Questa esordiente con trent’anni di carriera, forse per paura di spaventare il pubblico, afferma che il suo film è vitale e parla, in contrapposizione, anche della vita e, scelta arguta, il decesso non è mai mostrato. Di certo non è un film triste ma di rado ci si trova dinanzi ad un’opera così intrisa di morte, che avvicina e stringe gli spettatori a quel senso di afflizione e di brutale epilogo che trasmettono gli ultimi momenti della vita umana, di un corpo che ha vibrato di gioia e vitalità e ora non può far altro che spegnersi inesorabilmente lasciandoci impotenti ad assisterne la fine, immobilizzati e incupiti davanti a crudeli giacigli, a occhi senza più speranza. Tornata brava perché a suo dire meravigliosamente diretta, Jasmine Trinca, silenziosa traghettatrice per l’aldilà, porta sullo schermo un personaggio asfissiato dal dolore e dalla morte altrui che ha più contatti - e più intensi - con chi se ne sta andando piuttosto che con chi è vicino e presente. Una giovane che ha scelto una vita da boia buono, che si rispecchia nel malessere esistenziale del reticente Grimaldi ma rimane incollata alla vita. Finalmente un personaggio del nostro cinema che rimarrà, in un film che specularmente all’argomento trattato potrebbe avere lunga vita se non l’immortalità, che “non sembra italiano” nemmeno visivamente e con una colonna sonora diegetica che spazia da Bach a Thom York. C’è chi sarà colpito al cuore (forse nell’epoca in cui viviamo una diciottenne difficile lo potrà eleggere a film generazionale) ma per molti sarà scomodo e per altri, sfortunatamente, indigesto.
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goldy
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mercoledì 1 maggio 2013
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molto poco italiano
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Girato con stacchi secchi, aspri e inquadrature mai casuali racconta di vite al tramonto. Con uno stile molto insolito per il cinema italiano, privo di qualsiasi cedimento emotivo, affronta con una maturità laica di chi sente di avere il diritto di poter disporre della propria fine esente da sudditanze religiose il problema dell'eutanasia. La protagonista facilita una fine indolore e accetta di farlo solo per chi è malato terminale. Quando scopre invece che un suo "paziente" desidera farlo per disinteresse alla vita si ribella e si ascoltano.
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Girato con stacchi secchi, aspri e inquadrature mai casuali racconta di vite al tramonto. Con uno stile molto insolito per il cinema italiano, privo di qualsiasi cedimento emotivo, affronta con una maturità laica di chi sente di avere il diritto di poter disporre della propria fine esente da sudditanze religiose il problema dell'eutanasia. La protagonista facilita una fine indolore e accetta di farlo solo per chi è malato terminale. Quando scopre invece che un suo "paziente" desidera farlo per disinteresse alla vita si ribella e si ascoltano. La tematica può sembrare scoraggiante e invece se ne esce con un senso di liberazione rispetto a un tabù che continua a rimanere tale ma di cui si riesce a parlare con sufficiente serenità.
Un film che vedo finalmente adatto anche un mercato internazionale.
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(di lesterburnham)
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