carloalberto
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domenica 3 maggio 2020
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non tutto è ormai perduto
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La trama ricorda vagamente Stanno tutti bene di Tornatore, per il resto è cosa diversa. E’ un remake di Viaggio a Tokio di Ozu del 1953.
E’ uno di quei film di cui si stenta a parlare, non perché non abbia significati concettualmente trascrivibili, anzi, ogni immagine evoca riflessioni, ma perché è uno di quei rari casi in cui la cinematografia produce un’opera d’arte, che deve essere fruita di persona nella sua irripetibile ed intraducibile essenza.
Yamada rappresenta il confronto tra due generazioni che vivono in due contesti diversi, il mondo agreste e quello industriale, vissuto attraverso la relazione genitori-figli.
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La trama ricorda vagamente Stanno tutti bene di Tornatore, per il resto è cosa diversa. E’ un remake di Viaggio a Tokio di Ozu del 1953.
E’ uno di quei film di cui si stenta a parlare, non perché non abbia significati concettualmente trascrivibili, anzi, ogni immagine evoca riflessioni, ma perché è uno di quei rari casi in cui la cinematografia produce un’opera d’arte, che deve essere fruita di persona nella sua irripetibile ed intraducibile essenza.
Yamada rappresenta il confronto tra due generazioni che vivono in due contesti diversi, il mondo agreste e quello industriale, vissuto attraverso la relazione genitori-figli. Le aspettative e le amorevoli apprensioni degli uni, un insegnante in pensione e sua moglie, che vivono in una piccola isola-villaggio, si infrangono nell’indifferenza frenetica, avida o conformista degli altri, la parrucchiera, il dottore, il precario, emigrati a Tokio per lavoro.
Uno dei figli, il meno integrato di tutti nel sistema, ha nella sua piccola casa un enorme elicottero che pende dal soffitto. E’ un aspirazione ed al contempo un invito a guardare le cose da un punto di vista diverso, senza tuttavia abbandonarle. La sua vecchia cinquecento è definita rottame dal figlio adolescente del fratello; è la terza generazione, ormai totalmente asservita al consumismo. I vecchi sono paragonati ad inutili ed ingombranti rottami, di cui bisogna liberarsi al più presto, collocandoli in albergo, seppure con un piccolo sacrificio economico, per assicurare la continuità dell’operosa e indaffarata vita cittadina. Il danaro, come bene supremo, è ben speso se è sacrificato al dio affare. In un dialogo tra fratelli, uno dirà che per il pasto offerto ai genitori non si è badato a spese. Qui il danaro è assunto come unità di misura per quantificare il valore degli affetti più cari e come mezzo di scambio, succedaneo moderno del sentimento di riconoscenza e della devozione filiale tradizionale.
All’inferno metropolitano di sobborghi e grattacieli si contrappone il paesaggio naturale del piccolo paese isolano, ancora incontaminato dallo stile di vita moderno, dove le persone si aiutano senza pensare allo scambio e la ragazza porterà il cane del vecchio a passeggio con gioia e non perché pagata per farlo. Nostalgia per un mondo ormai perduto, fatto di sentimenti devoti, che forse, ancora un poco, potrà sopravvivere grazie al passaggio del testimone, l’orologio, metafora del tempo, donato a chi ha la sensibilità per viverlo secondo altri ritmi, coltivando le tradizioni del passato nell’arido deserto della tumultuosa contemporaneità.
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carloalberto
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domenica 3 maggio 2020
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La trama ricorda vagamente Stanno tutti bene di Tornatore, per il resto è cosa diversa. E’ un remake di Viaggio a Tokio di Ozu del 1953.
E’ uno di quei film di cui si stenta a parlare, non perché non abbia significati concettualmente trascrivibili, anzi, ogni immagine evoca riflessioni, ma perché è uno di quei rari casi in cui la cinematografia produce un’opera d’arte, che deve essere fruita di persona nella sua irripetibile ed intraducibile essenza.
Yamada rappresenta il confronto tra due generazioni che vivono in due contesti diversi, il mondo agreste e quello industriale, vissuto attraverso la relazione genitori-figli.
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La trama ricorda vagamente Stanno tutti bene di Tornatore, per il resto è cosa diversa. E’ un remake di Viaggio a Tokio di Ozu del 1953.
E’ uno di quei film di cui si stenta a parlare, non perché non abbia significati concettualmente trascrivibili, anzi, ogni immagine evoca riflessioni, ma perché è uno di quei rari casi in cui la cinematografia produce un’opera d’arte, che deve essere fruita di persona nella sua irripetibile ed intraducibile essenza.
Yamada rappresenta il confronto tra due generazioni che vivono in due contesti diversi, il mondo agreste e quello industriale, vissuto attraverso la relazione genitori-figli. Le aspettative e le amorevoli apprensioni degli uni, un insegnante in pensione e sua moglie, che vivono in una piccola isola-villaggio, si infrangono nell’indifferenza frenetica, avida o conformista degli altri, la parrucchiera, il dottore, il precario, emigrati a Tokio per lavoro.
Uno dei figli, il meno integrato di tutti nel sistema, ha nella sua piccola casa un enorme elicottero che pende dal soffitto. E’ un aspirazione ed al contempo un invito a guardare le cose da un punto di vista diverso, senza tuttavia abbandonarle. La sua vecchia cinquecento è definita rottame dal figlio adolescente del fratello; è la terza generazione, ormai totalmente asservita al consumismo. I vecchi sono paragonati ad inutili ed ingombranti rottami, di cui bisogna liberarsi al più presto, collocandoli in albergo, seppure con un piccolo sacrificio economico, per assicurare la continuità dell’operosa e indaffarata vita cittadina. Il danaro, come bene supremo, è ben speso se è sacrificato al dio affare. In un dialogo tra fratelli, uno dirà che per il pasto offerto ai genitori non si è badato a spese. Qui il danaro è assunto come unità di misura per quantificare il valore degli affetti più cari e come mezzo di scambio, succedaneo moderno del sentimento di riconoscenza e della devozione filiale tradizionale.
All’inferno metropolitano di sobborghi e grattacieli si contrappone il paesaggio naturale del piccolo paese isolano, ancora incontaminato dallo stile di vita moderno, dove le persone si aiutano senza pensare allo scambio e la ragazza porterà il cane del vecchio a passeggio con gioia e non perché pagata per farlo. Nostalgia per un mondo ormai perduto, fatto di sentimenti devoti, che forse, ancora un poco, potrà sopravvivere grazie al passaggio del testimone, l’orologio, metafora del tempo, donato a chi ha la sensibilità per viverlo secondo altri ritmi, coltivando le tradizioni del passato nell’arido deserto della tumultuosa contemporaneità.
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gmigliori
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lunedì 22 giugno 2020
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amaro apologo sui rapporti generazionali
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In una scena del film dal sapore simbolico, un furgoncino passa in un quartiere periferico di Tokyo per un servizio porta a porta di ritiro dei vecchi elettrodomestici rotti, oppure semplicemente obsoleti. Nella capitalistica e consumistica società giapponese contemporanea (e non solo…) anche i vecchi sono inutili rottami, un peso di cui liberarsi alla prima occasione: se ne accorgono molto presto Shūkichi Hirayama e sua moglie Tomiko, i due anziani coniugi giunti dalla loro sperduta isoletta nella grande metropoli per trascorrere un po’ di tempo con i loro tre figli e le rispettive famiglie. Le loro aspettative sono brutalmente deluse da una realtà in cui gli impegni professionali e le aspirazioni di carriera dei figli hanno il sopravvento assoluto sulla dimensione affettiva e sul senso della famiglia.
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In una scena del film dal sapore simbolico, un furgoncino passa in un quartiere periferico di Tokyo per un servizio porta a porta di ritiro dei vecchi elettrodomestici rotti, oppure semplicemente obsoleti. Nella capitalistica e consumistica società giapponese contemporanea (e non solo…) anche i vecchi sono inutili rottami, un peso di cui liberarsi alla prima occasione: se ne accorgono molto presto Shūkichi Hirayama e sua moglie Tomiko, i due anziani coniugi giunti dalla loro sperduta isoletta nella grande metropoli per trascorrere un po’ di tempo con i loro tre figli e le rispettive famiglie. Le loro aspettative sono brutalmente deluse da una realtà in cui gli impegni professionali e le aspirazioni di carriera dei figli hanno il sopravvento assoluto sulla dimensione affettiva e sul senso della famiglia. La presenza dei genitori, subito relegati in asfittiche camerette di appartamenti periferici e sovraffollati, si fa sin da subito ingombrante, al punto che, dopo una serie di disguidi e malintesi, si decide di comune accordo e senza tanti rimorsi di spedire i due vecchietti in un lussuoso albergo, mascherando la proposta come una specie di vacanza premio. Sentendosi soli e abbandonati, Shūkichi e Tomiko decidono di abbandonare l’albergo in cui si percepiscono come prigionieri e di organizzarsi autonomamente per un’ultima notte a Tokyo prima di ripartire: ma il destino interverrà perfidamente a sconvolgere i loro piani e ad impedire un sereno ritorno al loro sereno ménage di coppia.
Il film va decisamente oltre lo schematismo dei ruoli (figli – cattivi vs. genitori - buoni) e proprio in questa capacità di approfondimento e di introspezione si trova secondo me uno dei punti forti della sceneggiatura. Nel corso della vicenda si profilano infatti delle significative eccezioni: in contrasto con la dolcezza e la delicatezza di Tomiko, Shūkichi si dimostra burbero, ostinato, poco incline alle manifestazioni d’affetto, con un passato non del tutto rimosso da iracondo alcolista, troppo severo con il terzo figlio che ritiene un incapace e un fallito (mentre ammira molto il primogenito medico), il quale a sua volta si dimostra imprevedibilmente l’ucapace di esprimere un po’ di amore e di dedizione per i genitori.
Altro aspetto molto interessante da sottolineare: gli estranei si dimostrano più affettuosi, comprensivi e disponibili dei figli: è il caso della moglie del primogenito, della fidanzata del terzogenito e dei vicini di casa nel paesello d’origine dei genitori (che si incaricheranno spontaneamente e gratuitamente di accudire il padre dopo la partenza dei figli). Nel mondo rurale della sperduta isoletta si trova ancora qualche scampolo di altruismo e di solidarietà umana, valori del tutto perduti nella frenetica metropoli, un tema questo che mi ricorda, mutatis mutandis, situazioni analoghe nella verghiana Vita dei Campi.
Un capolavoro che rende un adeguato omaggio all’omonimo Viaggio a Tokyo del grande Yasujirō Ozu, di cui Yōji Yamada. si dimostra degno discepolo ed erede.
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