Paul Haggis regista premio Oscar per "Crash", dopo l’ultimo non emozionante thriller “The next three days” torna alla regia con un titolo paradigmatico: "Third person". Il tre, simbolo di perfezione ed assoluta purezza, purtroppo non ha un corrispondente nella storia delle tre vite che si incrociano, intersecano, si infittiscono in tre diverse città del mondo: Parigi,Roma e New York.
Un tre che si ripete in maniera ripetitiva quasi cercando di mediare il gioco virtuosistico atto a cercare di attirare, secondo l’intento del regista, l’attenzione dello spettatore malgrado una durata non indifferente (oltre due ore).
Imperniato sulle relazioni amorose di coppie distrutte dall'amore, proprio quel sentimento che dovrebbe unire e che invece qui è totalmente asservito alle sue declinazioni più decostituenti: il tradimento, l'imbroglio e la terribile indifferenza nei confronti di un figlio, Third Person vanta un cast di stelle purtroppo sottotono rispetto a Crash. Ma se i confronti non reggono, quantomeno la trama che ricorda “piccole vite si spezzano” risulta abbastanza latitante di originalità e creatività.
In un set cinematografico ben ricostruito a Cinecittà (con scorci finti scenograficamente ben rifatti in studio), a Parigi incontriamo il classico scrittore fallito ( che nemmeno l’abilità consumata di Liam Neeson riesce a rendere) in crisi di ispirazione e sentimentale (la moglie Kim Basinger dall’altro capo del telefono nelle innumerevoli conversazioni con il marito ha un che di patetico) intento a intraprende in un hotel un’altrettanto classica relazione con una focosa amante che lo illude per schiacciarlo come un verme (Olivia Wilde nel ruolo di dark lady instabile è decisamente meglio riuscita); a Roma, un affarista americano (l’ex pianista Adrien Brody), pseudo-stilista che odia chiaramente e palesemente tutto il made in Italy si imbatte in una zingara, Monika (Moran Atias) di cui si innamora, cercando di salvarne la figlia di lei ( ma esiste veramente ?) investendo tutti i suoi risparmi per pagare il riscatto a un efferato (?) sequestratore; a New York, Julia (Mila Kunis non più Black Swan), una volta grande frequentatrice di hotel di lusso è ora costretta a lavorare come cameriera in uno di questi per riuscire a pagare l’avvocato e le ingenti spese penali per ottenere il raffidamento del figlio, dopo un grave incidente domestico, ora sotto la tutela del suo ex marito (James Franco).
Un insieme di melò assai noti al grande pubblico, questo il grande limite di Third Person.
Se da un lato, l’idea di intessere gli arabeschi del destino (come diceva qualcuno elegantemente), le coincidenze che permettono di entrare in contatto con personaggi inaspettati, è sicuramente interessante pur se vanamente nota, dall’altro discuterne con un piglio scarsamente empatico e con una chiave di lettura nota a priori sin dalle prime scene appesantisce non poco una sceneggiatura che cerca un colpo di sorpresa che mai arriva.
E, ahimè, il coinvolgimento alla trama è minimale: nelle fisime mentali di Liam Neeson passiamo all’interessamento fin troppo immediato di Adrien Brody, sino ai pallidi tentativi di rivalsa di una Mila Kunis che nelle scene madri del film (“la stanza d’albergo con le rose bianche”, l’essere trascinata come una pezza vecchia dal marito fuori dall’appartamento senza riuscire a toccare l’adorato figlio cui drammaticamente tende una mano aggrappandosi a tappeti e ogni altro suppellettile), rivela un andamento sentilmental-programmatico, Third person anela a una “complicità” che si tramuta solo in noia
Insomma, Haggis sa il fatto suo in quanto la capacità attoriale degli interpreti, la scelta delle inquadratura, gli attimi meta-narrativi (sulla chisura di una porta a Parigi e l’apertura a Roma, ad esempio) sono valide e frutto di accurata scelta fotografica ma l’omaggio alle città amate dal regista, l’intento di voler realizzare un film sulle “sfumature dell’amore”, la terza persona inaspettata, manca proprio di affascinante piglio e presa diretta sullo spettatore che alla visione di uno stranito Adrien Brody a Roma turlupinato dalla bella di turno in un "bar americano" (dove chiaramente nessuno parla inglese e dove è evidente il sorriso ironico sull’opinione di uno straniero riguardo il nostro bel paese), fa rimpiangere i vecchi film melò anni ’60.
Vecchi sì, è vero ma emozionanti almeno.
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antonio montefalcone
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mercoledì 8 aprile 2015
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l’ultima, non convincente fatica di haggis
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Il cinema di Paul Haggis sembra tornare nelle zone di “Crash – Contatto fisico”: molte vicende parallele che accadono nello stesso momento fino a convergere e legate dal filo conduttore dell’amore e della fiducia. Tre storie in tre ambientazioni diverse, presentate in modo allegorico quasi a voler rappresentare l’inizio, lo sviluppo e la fine di una relazione d’amore. E in ognuna svariati personaggi, dinamiche psicologiche e grandi attori ad interpretarli. Il film possiede in sé alcuni pregi e qualità, ma nel complesso appare un’opera non ben riuscita. Qualcosa manca, qualcosa era ancora da perfezionare. Haggis fino a questo momento ha scritto ottime sceneggiature ma come regista non è stato dello stesso livello; e, infatti, anche per questo (ma non solo!) la sua ultima quarta pellicola non funziona.
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Il cinema di Paul Haggis sembra tornare nelle zone di “Crash – Contatto fisico”: molte vicende parallele che accadono nello stesso momento fino a convergere e legate dal filo conduttore dell’amore e della fiducia. Tre storie in tre ambientazioni diverse, presentate in modo allegorico quasi a voler rappresentare l’inizio, lo sviluppo e la fine di una relazione d’amore. E in ognuna svariati personaggi, dinamiche psicologiche e grandi attori ad interpretarli. Il film possiede in sé alcuni pregi e qualità, ma nel complesso appare un’opera non ben riuscita. Qualcosa manca, qualcosa era ancora da perfezionare. Haggis fino a questo momento ha scritto ottime sceneggiature ma come regista non è stato dello stesso livello; e, infatti, anche per questo (ma non solo!) la sua ultima quarta pellicola non funziona. Il problema principale sembra stavolta nello script (seppur in sé denso) e nella regia che la indebolisce. Comunque nulla toglie che non possa ugualmente piacere allo spettatore.
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