cipposlippo
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mercoledì 26 settembre 2012
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un solo strozzino, una strage di papà e mariti
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Se questa è la realtà della Corea, è davvero drammatica. kim ci porta a comprendere i nostri giudizi immediati rispetto a quelli più meditati:
lo strozzino è davvero un carnefice gratuito? Oppure è la risposta perfetta a ciò che pensa della vita ogni uomo coinvolto? Infatti il neopapà con la chitarra viene risparmiato, è lui stesso che si invalida. Ci dice che noi determiniamo insieme alle circostanze esterne il risultato finale ci ciò che ci accade.
La vendetta psichica della finta mamma è stata eccezionale. il potere della mente sulla forza bruta. Comunque è un film che non rivedrei più.
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Se questa è la realtà della Corea, è davvero drammatica. kim ci porta a comprendere i nostri giudizi immediati rispetto a quelli più meditati:
lo strozzino è davvero un carnefice gratuito? Oppure è la risposta perfetta a ciò che pensa della vita ogni uomo coinvolto? Infatti il neopapà con la chitarra viene risparmiato, è lui stesso che si invalida. Ci dice che noi determiniamo insieme alle circostanze esterne il risultato finale ci ciò che ci accade.
La vendetta psichica della finta mamma è stata eccezionale. il potere della mente sulla forza bruta. Comunque è un film che non rivedrei più. Troppo angosciante e claustrofobico. Una volta basta. Eppoi non capisco: ma prima di indebitarsi, non sapevano di pagare1000% d'interesse? E se proprio vuoi suicidarti, non ci provi ad ammazzare il tuo strozzino? Nessuno ci prova? Se ho capito bene la finta mamma uccide il capo dello strozzino, almeno quello...
Eppoi, a nessuno è venuto in mente di fuggire prima di farsi invalidare o suicidarsi?? Forse non mi rendo conto che non sarebbe possibile in certe realtà.
E nella scena finale, quando il corpo lascia la scia di sangue sull'asfalto... dico, ma quanto ne ha?? 300 litri??
Vista la vistosa strage di vita animale, nonchè il loro maltrattamento, ricordo una frase che può connettersi alle condizioni umane che noi stessi creiamo:
- Fintanto che l'uomo continuerà a distruggere gli esseri viventi inferiori, non conoscerà mai né la salute né la pace. Fintanto che massacreranno gli animali, gli uomini si uccideranno tra di loro. Perché chi semina delitto e dolore non può mietere gioia e amore - (Pitagora)
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omero sala
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domenica 28 luglio 2013
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mater dolorosa
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Kang-do è un feroce teppista che riscuote i debiti per conto di uno strozzino. Vive da solo nello squallido appartamento di una casa in decadimento. Il quartiere in cui si muove è in attesa di essere demolito, isola di povertà e degrado circondata dai palazzi pomposi di cemento e cristallo della metropoli aliena che dilaga. I suoi debitori si trascinano come lui nella miseria come topi di fogna intrappolati in lavori subumani, incapaci di alzare la testa, indeboliti e impotenti, rassegnati di fronte al destino immodificabile, chiusi in una gabbia in cui è impossibile sopravvivere, da cui è impossibile evadere.
Kang-do, nato e abbandonato in questo marciume, è figlio e conseguenza di questo disfacimento.
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Kang-do è un feroce teppista che riscuote i debiti per conto di uno strozzino. Vive da solo nello squallido appartamento di una casa in decadimento. Il quartiere in cui si muove è in attesa di essere demolito, isola di povertà e degrado circondata dai palazzi pomposi di cemento e cristallo della metropoli aliena che dilaga. I suoi debitori si trascinano come lui nella miseria come topi di fogna intrappolati in lavori subumani, incapaci di alzare la testa, indeboliti e impotenti, rassegnati di fronte al destino immodificabile, chiusi in una gabbia in cui è impossibile sopravvivere, da cui è impossibile evadere.
Kang-do, nato e abbandonato in questo marciume, è figlio e conseguenza di questo disfacimento. Nessuno lo ha accudito, da nessuno ha avuto cure e affetti; per nessuno ha affetti e attenzioni: è selvatico, misantropo, chiuso, afasico, ottuso, impietoso. Se i debitori dello strozzino non rispettano la scadenza, li massacra freddamente, li strazia senza pietà, li sfigura e li mutila per incassare i soldi dell’assicurazione.
Un giorno si presenta da lui Mi-sun, una piccola dolce donna che dice di essere sua madre.Con tremore ed afflizione gli chiede perdono per averlo abbandonato, con ostinata dolcezza tenta di offrirgli le tenerezze negate, con pazienza accoglie la sua rabbiosa disperazione. L’implacabile seviziatore non le crede, la maltratta, la violenta, la caccia: lei insiste, subisce, ritorna; si addossa le colpe della infelicità e della cattiveria del ragazzo, accetta la condanna dell’emarginazione e del disprezzo, ma si installa silenziosa in casa, riassetta, cuce, fa la spesa, imbandisce i pasti e svolge quieta le umili mansioni di una madre premurosa senza pretendere altro.
A poco a poco l’irremovibile Kang-do cede. La sua incolmabile rabbia, che non è altro che ineliminabile disperazione, trova in quella pacata presenza femminile il risarcimento per amorevolezze mai conosciute. Non si lascia andare, non fa trapelare emozioni, non arriva ad esprimere sentimenti: la sua coriacea anaffettività non glielo consente; ma si abitua alle premure e si affeziona a quell’ombra muta fino al punto di accorgersi che non vuole, non può fare a meno di lei.
Qualcuno (?) entrerà nelle crepe di questa imprevedibile fragilità per applicare la pena del contrappasso, compire la vendetta ed infliggere a Kang-do intrappolato una condanna risolutiva, uccidendogli l’anima.
Appare evidentissima, in una lettura in chiave socio-politica, la feroce critica al mito del progresso e della modernità che infesta il mondo senza rispetto per gli individui, le culture tradizionali, le relazioni, la giustizia sociale; inappellabile è la condanna ad un regime che celebra i fasti del capitalismo globale sommergendo i deboli e lasciandoli ai margini del benessere, massacrati da sacrifici inutili e dissanguati da mafie e usure. L’ambientazione cupa, le inquadrature claustrofobiche e i colori lividi esasperano la disperazione di questa accusa.
Speculare a quella sociale è la rappresentazione delle interiorità. Anche le anime dei personaggi sono perse, si portano dentro il deserto, sono immerse nell’infelicità e oppresse dalla consapevolezza di non avere sbocchi. I poveri lo sono fino all’ottundimento incosciente. Kang-do è inconsapevolmente devastato dalla disperazione che sfocia in furia disumana. La donna nasconde, sotto una maschera di pietà, la voglia di vendetta di un’anima morta dentro, impietosa e spietata fino alla follia.
La storia è disarmonica e un po’ sconclusionata, la trama è improbabile e svolta in modi troppo ruvidi ed essenziali, le vicende appaiono spesso incongruenti, i personaggi hanno evoluzioni incomprensibili e sono tratteggiati sbrigativamente con enfatica crudezza, senza sfumature; il pathos sconfina nell’eccesso; i dialoghi a tratti sono disturbanti per dei didascalismi inutili e quasi ridicoli, le musiche in alcuni momenti debordano. Il manifesto poi, che storpia il titolo originale aggiungendo un accento ed una citazione sviante, è davvero deplorevole.
Ma l’insufficienza di rifiniture compromette appena la carica del film che comunque mantiene l’andamento insensato di una tragedia greca, l’inesplicabile assolutezza di un’epopea, l’immenso fascino illogico del mito (la nemesi, Edipo, Eros e Thanatos, la catabasi senza ritorno) che tocca le corde irrazionali del profondo e sconcerta.
Nel film – insolitamente debordante per l’essenziale regista coreano – si intrecciano aggrovigliati i temi del delitto e del castigo (Dostoevskij), del male (anzi, del Male) e dell’espiazione, della colpa e della ritorsione. Con l’aggiunta di variazioni sull’amore perduto e sull’amore negato, sull’odio e sul sacrificio, sulla dannazione e sulla redenzione. E poi c’è incomunicabilità, esclusione, rabbia, sconfitta, segreti e bugie, ambiguità, morte. Manca solo, appunto, la pietà.
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peer gynt
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mercoledì 5 settembre 2012
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un'allegoria di violenza, vendetta ed espiazione
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Kang-do è un ragazzone tutto istinti e faccia cattiva che fa il sicario per uno strozzino di Seul. Passa a ritirare il denaro e storpia chi non riesce a pagare, in modo da potersi rifare con i soldi dell'assicurazione: un malvivente crudele e cinico, che non ama nessuno e che da nessuno è amato, quindi senza punti deboli. Ma quando all'improvviso compare una donna che gli chiede perdono, lo segue e lo serve e gli dice di essere sua madre, colei che lo ha abbandonato alla nascita, Kang-do prova su di sé quei sentimenti a cui non è affatto abituato. E questa novità scardina definitivamente la sua crudele cattiveria, spinta all'estremo dalle immagini iperrealiste e dotate di graffiante ironia del regista coreano.
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Kang-do è un ragazzone tutto istinti e faccia cattiva che fa il sicario per uno strozzino di Seul. Passa a ritirare il denaro e storpia chi non riesce a pagare, in modo da potersi rifare con i soldi dell'assicurazione: un malvivente crudele e cinico, che non ama nessuno e che da nessuno è amato, quindi senza punti deboli. Ma quando all'improvviso compare una donna che gli chiede perdono, lo segue e lo serve e gli dice di essere sua madre, colei che lo ha abbandonato alla nascita, Kang-do prova su di sé quei sentimenti a cui non è affatto abituato. E questa novità scardina definitivamente la sua crudele cattiveria, spinta all'estremo dalle immagini iperrealiste e dotate di graffiante ironia del regista coreano. È l'inizio della fine per questa macchina del male più puro, che sentimenti come la tenerezza e la pietà indeboliscono fino alla completa sconfitta. La madre, caratterizzata soprattutto dal colore rosso (il colore del cuore, della passione e del dolore), deve introdurre nel malvivente (caratterizzato invece dal colore nero) quell'elemento di umanità che scardina la sua spietata determinatezza. Quello di Kim Ki-duk è un cinema allegorico: si veda la già accennata mescolanza stilistica del registro serio e di quello ironico, come anche la necessità impellente dell'autore coreano di creare in ogni suo film una realtà e di farle significare qualcosa tramite un simbolo. E qui il simbolo è la pietà, raffigurata sulla locandina con un'immagine (chiara citazione dalla Pietà di Michelangelo) che il film si guarda bene dal mostrare in modo così esplicito. E il termine "pietà" va inteso non come concetto cristiano, ma piuttosto come la latina pietas, il sentimento che porta l'uomo ad amare e a rispettare valori tradizionali quali la famiglia. Ed è proprio questo sentimento nuovo dell'avere una famiglia che sgretola la granitica fedeltà al proprio capo (ovvero, al capitalismo che non guarda in faccia a nessuno) di questo sicario senza pietà.
Crudele e intenso, il film non sfigurerebbe fra i Leoni d'oro della mostra veneziana.
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molenga
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giovedì 10 gennaio 2013
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ancora una volta, dalla corea, l'etica della vende
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Kang-do è un "esattore": si guadagna da vivere, nella più totale solitudine, riscuotendo debiti per conto di uno strozzino, il "boss". Durante il lavoro non mostra il minimo scrupolo, invita i debitori a suicidarsi per riscuoterne poi l'assicurazione sulla vita, mutila e sfregia senza ritegno. Un giorno a casa sua si presenta una minuscola signora che afferma di essere la madre che l'ha abbandonato 30 anni prima e qualcosa, nella quotidianità di kang-do, cambia: egli fa di tutto alla donna per farla allontanare da lui ma, dopo aver iniziato a credere alla sua storia, ne diventa lentamente dipendente. Certo, non sa che...
Kim Ki-Duk trionfa aVenezia con questo film che, come aveva preannunciato nello straziante"arirang", abbandona il lirismo di "primavera, inverno.
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Kang-do è un "esattore": si guadagna da vivere, nella più totale solitudine, riscuotendo debiti per conto di uno strozzino, il "boss". Durante il lavoro non mostra il minimo scrupolo, invita i debitori a suicidarsi per riscuoterne poi l'assicurazione sulla vita, mutila e sfregia senza ritegno. Un giorno a casa sua si presenta una minuscola signora che afferma di essere la madre che l'ha abbandonato 30 anni prima e qualcosa, nella quotidianità di kang-do, cambia: egli fa di tutto alla donna per farla allontanare da lui ma, dopo aver iniziato a credere alla sua storia, ne diventa lentamente dipendente. Certo, non sa che...
Kim Ki-Duk trionfa aVenezia con questo film che, come aveva preannunciato nello straziante"arirang", abbandona il lirismo di "primavera, inverno..." e lo stile di "ferro3" per tornare alla crudeltà di "coccodrillo" e 2indirizzo sconosciuto", con la lezione di 15 anni di cinema in più. È, questo pietà", un film che sovrappone dolori insuperabili su uno scenario universale: il regista supera se stesso attraverso l'annientamento dei suddetti dolori nella sporcizia( evidente nell'uso dei colori) e nellalontananza dalla civiltà...civilizzata. Grandissimo.
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rescart
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martedì 25 giugno 2013
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metafora onirica del lavoro e della vita
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Il cinema migliore rimanda sempre a qualcosa di altro e di oltre perché rappresentare la realtà significa fotografarla mettendosi dalla parte dei soggetti ripresi, che in questo caso sono i lavoratori. Ki-Duk ha fatto molti lavori nella sua vita e quindi ha sperimentato sulla sua pelle che cosa significa la fatica del lavoro quotidiano ed il suo rischio, nella duplice e speculare veste del rischio fisico e dell’azzardo morale. L’operaio che lavora con macchinari potenzialmente invalidanti se usati male anche una sola delle milioni di volte in cui il gesto produttivo viene ripetuto, non può perdere mai la concentrazione neanche per un solo istante. Sa che questo è impossibile e che quindi il caso, la “Tuche” di omerica memoria, sarà per otto e più ore al giorno la sua divinità guida e sarà quindi portato a continuare ad onorarla anche nelle periodi di riposo dal lavoro.
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Il cinema migliore rimanda sempre a qualcosa di altro e di oltre perché rappresentare la realtà significa fotografarla mettendosi dalla parte dei soggetti ripresi, che in questo caso sono i lavoratori. Ki-Duk ha fatto molti lavori nella sua vita e quindi ha sperimentato sulla sua pelle che cosa significa la fatica del lavoro quotidiano ed il suo rischio, nella duplice e speculare veste del rischio fisico e dell’azzardo morale. L’operaio che lavora con macchinari potenzialmente invalidanti se usati male anche una sola delle milioni di volte in cui il gesto produttivo viene ripetuto, non può perdere mai la concentrazione neanche per un solo istante. Sa che questo è impossibile e che quindi il caso, la “Tuche” di omerica memoria, sarà per otto e più ore al giorno la sua divinità guida e sarà quindi portato a continuare ad onorarla anche nelle periodi di riposo dal lavoro. L’unica possibilità per affrancarsi da questa idolatria, che lo pone ogni giorno su uno spietato campo di battaglia di una guerra tra lui e la macchina, è la carriera. Ma per fare carriera l’operaio ha come unico ascensore sociale l’obbedienza cieca al padrone, l’asservimento totale. E così passa dall’adorare la dea Tuche ad adorare la “Ananche”, la necessità che lo obbliga ad essere più realista del re. Kang-do è passato da questa parte della barricata. Non sappiamo se prima abbia adorato anche lui la Tuche. Forse sì vista l’abilità con cui lui stesso maneggia le macchine. Lo vediamo all’opera nella sua personale ed efferata idolatria dell’Ananche, una divinità che proprio per la sua natura alla fine arriva a non aver più bisogno neanche del suo servizio. Tuche e Ananche in questo pari sono, come i fratelli della stessa madre (nulla si sa del padre) che fanno la stessa fine. La cultura coreana coreana autentica è qui rappresentata dalla madre rediviva. Anche sotto il giogo di un capitalismo d’importazione, individuabile nella skyline metropolitana che contrasta con la brulicante favela sottostante, lo spirito ancestrale del popolo cova sotto le ceneri e riemerge nell’indomabile figura della madre e nel suo certosino piano di nemesi fortissimamente voluto e liberamente realizzato. Il suo piano, a differenza di quello dei due figli, è sottratto all’idolatria delle due sorellastre Tuche e Ananche, ha solo apparentemente lo stesso epilogo. Perché il vero male non è il suicidio in sé, ma l’inganno che porta con sé quando è attuato come una liberazione. Nella donna il suicidio è una vendetta, un contrappasso una lezione, che il regista coreano ci vuole dare concludendo il film nello stesso modo con cui era iniziato. “In medio stat virtus”, la virtù sta nel mezzo, cioè nel suicidio della madre. Ma il suo film paradossalmente come la realtà è tutt’altro che equilibrato.
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tiamaster
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lunedì 24 settembre 2012
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il film del' anno e non solo....
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La sensazione che provi quando hai finito di vedere pietà e quel senso di entusiasmo,di gioia che si prova solo dopo aver visto un capolavoro. E kim-ki-Duk è un esperto di capolavori.Dopo averci deliziato con la poesia, la drammacità di film totali come "L'isola", "Ferro 3","Primavera,estate,autunno inverno e.......ancora primavera" e dopo un' incidente che avuto che gli ha provocato depressione (documentatevi non starò qui a raccontarvi) Kim-Ki-Duk torna sul grande schermo come meglio non si potrebbe.Un film immensamente drammatico,teso,potente,crudo,violento,immenso che racconta con tristezza Vita, Morte, Denaro e non solo..
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La sensazione che provi quando hai finito di vedere pietà e quel senso di entusiasmo,di gioia che si prova solo dopo aver visto un capolavoro. E kim-ki-Duk è un esperto di capolavori.Dopo averci deliziato con la poesia, la drammacità di film totali come "L'isola", "Ferro 3","Primavera,estate,autunno inverno e.......ancora primavera" e dopo un' incidente che avuto che gli ha provocato depressione (documentatevi non starò qui a raccontarvi) Kim-Ki-Duk torna sul grande schermo come meglio non si potrebbe.Un film immensamente drammatico,teso,potente,crudo,violento,immenso che racconta con tristezza Vita, Morte, Denaro e non solo....perchè Pietà è un film così grande che i temi che tocca sono infiniti, e li tocca con drammaticità, ma mai perdendo il contatto con la realtà o finendo per essere TROPPO eccesivo; perchè il film è eccessivo,e come se lo è,ma probabilmente,proprio questo eccesso,è uno dei suoi più grandi pregi.Un film monumentale,immenso,che rimarrà.Non conto di rivederlo agli oscar,perchè ultimamente l'accademy premia solo il "politically correct"....Indescrivibile.....
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rita branca
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sabato 14 settembre 2013
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amor omnia vincit
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Pietà, film (2012 Leone d’Oro a Venezia) del coreano Kim Ki-Duk con Lee Jung-jin e Jo Min-soo
Potente film drammatico ambientato in una brutta e degradata metropoli orientale che presenta la spietata vita degli schiavi contemporanei, vittime dei ricatti di usurai che estorcono il danaro prestato con interessi del 1000%, impossibile da pagare con gli introiti scarsi di lavori svolti in misere officine, ed incassati comunque attraverso i premi assicurativi ottenuti con le storpiature provocate apposta dagli estorsori che cercano di impedirne la morte solo perché inutile economicamente.
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Pietà, film (2012 Leone d’Oro a Venezia) del coreano Kim Ki-Duk con Lee Jung-jin e Jo Min-soo
Potente film drammatico ambientato in una brutta e degradata metropoli orientale che presenta la spietata vita degli schiavi contemporanei, vittime dei ricatti di usurai che estorcono il danaro prestato con interessi del 1000%, impossibile da pagare con gli introiti scarsi di lavori svolti in misere officine, ed incassati comunque attraverso i premi assicurativi ottenuti con le storpiature provocate apposta dagli estorsori che cercano di impedirne la morte solo perché inutile economicamente.
E’ in questo contesto dai colori fortemente contrastanti, soprattutto nero e rosso, metafore di sporco / paura/ vendetta / amore/ sangue / morte, che si muove la vita violenta del bellissimo, crudele e infelicissimo esattore Lee Gang-do.
La sua giornata, alle dipendenze di un altrettanto spietato boss, che è rivelato solo verso la fine, comincia, si svolge e si conclude in solitario. Impressiona il contrasto dei suoi bellissimi lineamenti che ingannevolmente promettono solo dolcezza, e che invece, senza la minima contrazione, accompagnano le sue disumane azioni criminali ai danni di poveri derelitti. Quando infierisce sulle vittime rassegnate sembra corazzato di impenetrabile amianto che nulla sembra avere di umano, è refrattario alla pietà: niente lo scalfigge, né la vista del dolore fisico, né le implorazioni, né le umiliazioni dei disperati che subiscono le sue angherie.
Normalmente chi si comporta così deve aver subìto un colpo mortale che gli ha lacerato l’anima facendo scivolar via il cuore. E’ così anche nel suo caso. Lo spettatore lo scopre quando gli si presenta una bellissima donna, che dice di essere la madre che lo ha abbandonato 30 anni prima, alla nascita e gli chiede ripetutamente perdono senza raccontare altro. Anche a lei, a cui inizialmente non crede, Lee Gang-do riserva trattamenti terribili, ma poi la dolcezza di lei, le attenzioni che gli mostra, lo fanno capitolare e si affeziona a tal punto da essere tormentato dalla paura che possa venirgli di nuovo a mancare.
La rinascita del protagonista è evidenziata gradualmente, e balza agli occhi quando è folgorato dal racconto di un operaio pronto a farsi rompere le ossa di entrambe le mani, per poter pagare il debito e assicurarsi un premio che gli permetta di far crescere dignitosamente il bambino che sta per nascere. Ma la sorpresa maggiore deve ancora arrivare.
Intensissimo film, giustamente premiato, in cui oltre l’ottima recitazione spiccano la fotografia e la colonna sonora altrettanto ammirevoli.
Rita Branca
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mericol
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domenica 21 luglio 2013
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amore, vendetta, pietà
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Nell’ultimo film di Kim Ki-duk,Leone d’oro a Venezia 2012, tante riflessioni sul dramma della umanità oggi, nella società globalizzata,del profitto ad ogni costo. Pur svolgendosi in Corea è un tema universale quello trattato dal geniale regista sudcoreano.
La storia si svolge a Seul. Alla grandiosità dei grattacieli,spesso sullo sfondo delle inquadrature, fa da contraltare una periferia che più disastrata non si potrebbe immaginare. Il protagonista ,Kang-do, giovane aitante,forse anche bello, è l’esattore di una agenzia che presta denaro ad usura. I debitori inadempienti subiscono violenze indicibili. E nulla frena, in questo perverso compito, il cinico Kang-do al centro di torture spesso al limite dell’immaginabile.
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Nell’ultimo film di Kim Ki-duk,Leone d’oro a Venezia 2012, tante riflessioni sul dramma della umanità oggi, nella società globalizzata,del profitto ad ogni costo. Pur svolgendosi in Corea è un tema universale quello trattato dal geniale regista sudcoreano.
La storia si svolge a Seul. Alla grandiosità dei grattacieli,spesso sullo sfondo delle inquadrature, fa da contraltare una periferia che più disastrata non si potrebbe immaginare. Il protagonista ,Kang-do, giovane aitante,forse anche bello, è l’esattore di una agenzia che presta denaro ad usura. I debitori inadempienti subiscono violenze indicibili. E nulla frena, in questo perverso compito, il cinico Kang-do al centro di torture spesso al limite dell’immaginabile.
Compare la figura di una donna misteriosa (Mi-sun) che lo segue, lo insegue, sembra quasi perseguitarlo. Un atteggiamento che si direbbe da “stalking”, Ancora giovane, ancora bella. Dichiara ad un certo punto di essere sua madre e invoca il suo perdono per averlo abbandonato egoisticamente in tenera età.
Prescindendo dal preciso evolversi della vicenda,che alla fine assume l’andamento del thriller, mentre all’inizio prevaleva il dramma sociale, è l’umanità di questa nostra epoca che induce alla riflessione e alla pietà.
Il capitalismo galoppante con la sua spietatezza, le enormi contraddizioni,le spaventose brutture. I grattacieli della città moderna contro il degrado delle periferie. La ricerca ossessiva del denaro e del profitto da un lato, la miseria più profonda e degradante dall’altro.
Eppure il cinico protagonista avverte il bisogno di amore, quello materno che non ha mai avuto e che ora sembra avere ritrovato, ma anche l’amore più in generale, anche quello fisico,passionale,che probabilmente gli manca, ridotto com’è alla masturbazione.
Amore,dedizione,sensibilità,odio,vendetta. Sì proprio vendetta. Sono sentimenti che possono trasformarsi l’uno nell’altro, senza che ci sia la possibilità di meditarvi, quando la guida del mondo é la ricerca del denaro e del profitto ad ogni costo. Il finale,solo apparentemente ambiguo, costituisce la sintesi di tutta la tematica del film. Mi-sun, che non era la madre di Kang-do ma di una delle sue vittime, si suicida. Kang-do si lascia trascinare senza speranza da un’auto in corsa, in un viale che non sembra avere fine. La madre compie un estremo atto d’amore verso il figlio vero scegliendo di giacere accanto a lui per sempre e un estremo atto di vendetta verso Kang-do al quale aveva dato l’illusione di avere ritrovato l’amore materno, ma perdendolo lo condanna ancora di più alla dannazione. Kang-do compie un atto estremo di espiazione. Lo schermo resta nero per molti secondi mentre risuona una toccante melodia orientale.
Finale più esplicito di altri chiaramente definiti. La interpretazione dei 2 protagonisti principali e ,in particolare, di Cho Min-Soo (la madre), è da applausi.
Difficile ,e nemmeno opportuno, confrontare “Pietà” con le opere precedenti di Kim Ki-duk. Anche in questa c’è un modo di fare cinema, primi piani prolungati e da diverse angolazioni,immagini dei personaggi e dei panorami a tratti sfumate, che entrano nel vivo dell’anima dei protagonisti e poi dello spettatore. Un modo di fare cinema che è prerogativa di pochi eccelsi Autori ..
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barbara genise
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domenica 16 settembre 2012
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il festival dell'aridita'
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Film che, seppur realizzato con stile da un maestro come Kim Ki-duk, esprime un deserto interiore dove l'amore non compare mai, dove le sbandierate metafore sono blindate all'interno di un universo autistico, prive di un aggancio confortante ad una riflessione propositiva sul potere delle relazioni umane. L'ultima scena è rappresentativa di un contesto narrativo senza speranza, agghiacciante e di una miseria inaudita, la scia di sangue di Kang-do lasciata sulla strada da un furgoncino condotto dalla compagna di una delle sue vittime ...non si esce da un messaggio depressivo di incomunicabilità, solitudine, profonda amarezza, cinismo interiore, morte.
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Film che, seppur realizzato con stile da un maestro come Kim Ki-duk, esprime un deserto interiore dove l'amore non compare mai, dove le sbandierate metafore sono blindate all'interno di un universo autistico, prive di un aggancio confortante ad una riflessione propositiva sul potere delle relazioni umane. L'ultima scena è rappresentativa di un contesto narrativo senza speranza, agghiacciante e di una miseria inaudita, la scia di sangue di Kang-do lasciata sulla strada da un furgoncino condotto dalla compagna di una delle sue vittime ...non si esce da un messaggio depressivo di incomunicabilità, solitudine, profonda amarezza, cinismo interiore, morte. In questo scenario pervaso di squallore inimmaginabile, l'unico brevissimo flash di elevazione spirituale alberga in un ipotetico inizio di trsformazione profonda e interna che sembra impossessarsi di Kang-do, man mano che il rapporto con la madre e l'illusione di essere amato da lei, prendono forma. Ma anche questo significato dal notevole spessore simbolico viene tracimato con durezza da un percorso narrativo che segue il filo della vendetta e dell'ambiguitò calcolata e insita nelle poche ambivalenti "manifestazioni d'affetto" di una madre. Una madre che non sa uscire dalla vendetta e dall'odio e non comprende, o meglio non ha mai provato e conosciuto, la responsabilità di quella relazione primaria che può essere in grado di cambiare le sorti dell'umanità. Il film non mi è affatto piaciuto, l'ho trovato inoltre ammantato di un'aurea nobilitatrice di sbandierate metafore ed eccessivo manierismo. Che sia un film d'autore non me ne può fregar di meno. Spero solo che il suo successo non sia un polso dello scenario politico, economico ed umano che stiamo vivendo in questo momento storico. Credo però
ci siano molte probabilità che io abbia ragione.
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[+] peccato originale.
(di simone dato)
[ - ] peccato originale.
[+] non date retta a barbara.
(di pasquale scevola)
[ - ] non date retta a barbara.
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