osteriacinematografo
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giovedì 29 dicembre 2011
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umane ipocrisie
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L’opera è un ritratto dell’Iran contemporaneo, in cui la vita scorre, attraverso le vicissitudini quotidiane dei protagonisti, in modo non così dissimile da quello in cui si sviluppa in Occidente, per quelle che sono le cognizioni di chi scrive, per lo meno.
C’è naturalmente una separazione alla base della storia, una separazione fra un uomo e una donna, concreta ma non definitiva, da cui poi s’ingenera l’elemento scatenante, un incidente domestico, una lite da cui scaturisce -o sembra scaturire- un delitto: una donna assiste l’anziano padre dell’ uomo; l’uomo torna a casa, trova il padre solo, legato al letto; perde il controllo e spinge la donna fuori dalla porta di casa; quest’ultima scivola per le scale, e perde così il bambino che portava in grembo.
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L’opera è un ritratto dell’Iran contemporaneo, in cui la vita scorre, attraverso le vicissitudini quotidiane dei protagonisti, in modo non così dissimile da quello in cui si sviluppa in Occidente, per quelle che sono le cognizioni di chi scrive, per lo meno.
C’è naturalmente una separazione alla base della storia, una separazione fra un uomo e una donna, concreta ma non definitiva, da cui poi s’ingenera l’elemento scatenante, un incidente domestico, una lite da cui scaturisce -o sembra scaturire- un delitto: una donna assiste l’anziano padre dell’ uomo; l’uomo torna a casa, trova il padre solo, legato al letto; perde il controllo e spinge la donna fuori dalla porta di casa; quest’ultima scivola per le scale, e perde così il bambino che portava in grembo.
Tali fatti rappresentano la superficie più o meno visibile della vicenda.
Ansia e tensione crescono in un contesto astioso che sembra banale in apparenza, ma che rivela gradualmente piccole ma determinanti sfumature dei protagonisti, lati nascosti del carattere e dei comportamenti posti in essere sul momento, particolari che stravolgono la realtà dei fatti, fino al punto d’insinuare dubbi su chiunque.
Tre fattori mi hanno colpito particolarmente.
Anzitutto, la camera par oscillare nevroticamente, come nel primo (e nell’ultimo) Von Trier, nelle fasi di maggior tensione, quasi a seguire il passo schizofrenico-crescente dei protagonisti e delle loro relazioni pericolose.
In secondo luogo, e questo è il dato di maggior interesse, gli avvenimenti che si susseguono non vengono mai mostrati del tutto e non sono mai immediatamente visibili; l’autore si prende il tempo necessario alla narrazione, lascia all’intuito di chi guarda la possibilità di interpretare, ipotizzare, condannare o redimere, lasciando molti indizi e nessuna certezza, alimentando un dubbio che diviene struttura portante del film.
Non può poi passare inosservato il dato storico, reale, del peso dell’Islam su una società intera; gli aspetti religiosi limitano ogni tipo di libertà, ogni comportamento, con un occhio di riguardo per le donne, che ne subiscono effetti devastanti: la libertà femminile è a tal punto limitata da riguardare persino la possibilità di accudire un anziano malato, in una delle scene più rappresentative della pellicola.
Nessun protagonista uscirà senza macchia dalla storia, molti dubbi rimarranno tali, come caramelle da scartare, sotto lo sguardo attento e deluso di due ragazzine, che -al cospetto della menzogna- vedranno forse – e irrimediabilmente- spezzarsi l’incantesimo dell’innocenza.
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angelo umana
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sabato 17 dicembre 2011
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i figli ci giudicano
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L’inquadratura che sembra racchiudere tutto il senso degli avvenimenti familiari raccontati nel film è quella finale: mentre già scorrono i titoli di coda la camera “osserva” i due genitori separandi, seduti l’una quasi di fronte all’altro nell’anticamera del giudice tutelare a cui, sola, la figlia adolescente della coppia dirà con quale dei due ha scelto di vivere. La donna lo guarda con insistenza, pare cercare un contatto, un ravvedimento da parte del marito il quale invece volge altrove lo sguardo cocciuto. Dopo tante beghe e liti – l’attenzione è tenuta viva durante tutto il film - si ha voglia di un gesto rappacificatore ma lui è accanito a restare nelle sue posizioni: vuole proseguire la lite con una coppia più povera, attribuisce alla cura di suo padre – preda dell’Alzheimer - il motivo di non volersi trasferire all’estero con moglie e figlia, ma pare venga suggerito che il maschio stia più comodo in Iran, anche se sono le donne a condurre il gioco anche un una società patriarcale.
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L’inquadratura che sembra racchiudere tutto il senso degli avvenimenti familiari raccontati nel film è quella finale: mentre già scorrono i titoli di coda la camera “osserva” i due genitori separandi, seduti l’una quasi di fronte all’altro nell’anticamera del giudice tutelare a cui, sola, la figlia adolescente della coppia dirà con quale dei due ha scelto di vivere. La donna lo guarda con insistenza, pare cercare un contatto, un ravvedimento da parte del marito il quale invece volge altrove lo sguardo cocciuto. Dopo tante beghe e liti – l’attenzione è tenuta viva durante tutto il film - si ha voglia di un gesto rappacificatore ma lui è accanito a restare nelle sue posizioni: vuole proseguire la lite con una coppia più povera, attribuisce alla cura di suo padre – preda dell’Alzheimer - il motivo di non volersi trasferire all’estero con moglie e figlia, ma pare venga suggerito che il maschio stia più comodo in Iran, anche se sono le donne a condurre il gioco anche un una società patriarcale. La bambina dal canto suo ha sempre chiesto ai suoi col silenzio di restare assieme.
Il regista ci ha introdotti – già lo fece con “About Elly” - a conoscere un po’ di più la società iraniana e per farlo costruisce delle vicende familiari in qualche modo complicate, drammatiche, che denunciano le pecche, i costumi imposti da una società teocratica, che sembra tarpare le ali a un modo di pensare più libero. Si temono disgrazie se si osa spergiurare sul Corano, è inammissibile che una donna frequenti la casa di un altro uomo se non accompagnata da suo marito oppure che essa possa vedere nudo un anziano malato (una scena così era in “Viaggio a Kandahar”, il medico che visitava la paziente da dietro una tenda). La vicenda familiare è pretesto per fornire uno spaccato della società iraniana: la moglie che chiede il divorzio dal marito lo fa perché lui non vuole seguirla all’estero dove lei ammette di cercare migliori condizioni di vita, ma una tale affermazione davanti al giudice conciliatore iraniano deve essere controproducente, nella scena la donna pare rischiare un’incriminazione d’ufficio.
La giustizia applicata in modo così diretto o sommario nei tribunali iraniani brulicanti d’anime viene resa quasi più attrattiva di quella nostra, che ha l’in-giustizia di tempi lunghissimi. Buon film, una storia avvincente e ottimamente interpretata.
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gioinga
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venerdì 16 dicembre 2011
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un film che sa di tragedia greca
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Ho appena finito di vedere una separazione. Il film mi è piaciuto, fa stare in tensione, fa riflettere, fa dubitare per tutto il tempo. Non sai mai fino in fondo con chi schierarti e alla fine uscendo dal film, chiacchierando ognuno si è fatto un ' idea un pò diversa, anche a seconda del proprio vissuto. Mi ha ricordato molto la tragedia greca.I personaggi hanno un pò di torto e un pò di ragione, ma non è che sono cattivi, semplicemente si sono trovati in un momento della loro vita difficile ed è capitato quel che è capitato. E' un film che suscita domande, ed è anche ( o soprattutto) questo che mi piace del cinema.
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riccardo76
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domenica 27 novembre 2011
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una vicenda famigliare narrata come un thriller
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Meritatamente vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, sia come miglior film che per i migliori attori maschili e femminili, Una Separazione si rivela uno dei film più belli dell’anno.
La grandezza del regista Farhadi è quella di essere riuscito a raccontare l’Iran, con i suoi problemi e le sue contraddizioni, attraverso una vicenda famigliare perlopiù ordinaria, ma narrata alla stregua di un avvincente thriller, in modo da tenere costantemente accesa la curiosità e la tensione del pubblico.
Sin dalle prime battute lo spettatore si ritrova, così, coinvolto in questa vicenda domestica senza riuscire veramente a schierarsi dalla parte di uno dei quattro protagonisti: Nader, sua moglie Simin, la badante Razieh ed il marito.
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Meritatamente vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, sia come miglior film che per i migliori attori maschili e femminili, Una Separazione si rivela uno dei film più belli dell’anno.
La grandezza del regista Farhadi è quella di essere riuscito a raccontare l’Iran, con i suoi problemi e le sue contraddizioni, attraverso una vicenda famigliare perlopiù ordinaria, ma narrata alla stregua di un avvincente thriller, in modo da tenere costantemente accesa la curiosità e la tensione del pubblico.
Sin dalle prime battute lo spettatore si ritrova, così, coinvolto in questa vicenda domestica senza riuscire veramente a schierarsi dalla parte di uno dei quattro protagonisti: Nader, sua moglie Simin, la badante Razieh ed il marito. Ognuno di essi infatti espone in modo chiaro il proprio punto di vista, presentando le motivazioni delle loro scelte e del loro agire, tutte egualmente palesi e comprensibili, cosicché il pubblico non riesce a stabilire se, per esempio, sia più giusto per la figlia della coppia lasciare il paese o restare in Iran col padre, dal momento che Nader è obbligato a restare per curare il vecchio padre malato d’Halzeimer, mentre Simin non vede un futuro per sé e sua figlia in un paese governato da un regime e non può lasciare scadere i visti ottenuti per l’espatrio.
La stessa incertezza si ripresenta allo spettatore a seguito dell’incidente, dove viene compiuto uno sbaglio da ognuna delle parti - lasciare l’anziano malato legato al letto, da parte di Razieh, spingere la donna , da parte di Nader – e dove ognuno subisce un danno – l’aver rischiato di perdere il padre, per Nader, la perdita del figlio in grembo per la badante. Persino le reazioni isteriche del marito di Razieh finiscono per risultare comprensibili. L’unico aspetto che appare certo, è che le vere vittime di tutto ciò risultano le rispettive figlie delle coppie, le quali assimilano in silenzio la tragedia, esprimendo il loro dolore attraverso i loro intensi occhi innocenti.
Inoltre, la maestria del regista fa sì che il pubblico rimanga continuamente incuriosito sul modo in cui i fatti si siano realmente verificati, attraverso un gioco di intelligenti omissioni di particolari, che vengono pian piano svelati nel corso del film, in un alternarsi di verità e piccole menzogne, contrasti e conciliazioni, fino alla verità finale, scottante come le problematiche che il film solleva indirettamente, come l’oppressione del regime, dal quale Simin sente il bisogno di fuggire, la condizione della donna, il fanatismo religioso , talmente potente da mettere in difficoltà una badante nel pulire un anziano malato.
Capita raramente di venire coinvolti talmente tanto da un film, dall’inizio alla fine, senza abbassare mai la tensione; Farhadi ci riesce, trasformando una vicenda famigliare in un avvincente thriller, avvalendosi anche di ottimi attori, sia adulti - tutti premiati a Berlino - che bambine, le vere protagoniste, poiché simboleggianti il futuro.
Memorabile il finale, che lascia lo spettatore in un’attesa infinita, quasi a voler simboleggiare l’incertezza di questo paese in crisi.
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[+] orso d'oro 2011 e oscar: miglior film straniero!
(di riccardo76)
[ - ] orso d'oro 2011 e oscar: miglior film straniero!
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riccardo tavani
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sabato 19 novembre 2011
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crescere nella doppia verità
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Il dramma è subito posto, già nella prima inquadratura e nel primo brandello di dialogo. Simin e Nader, moglie e marito, sono in tribunale davanti a un giudice civile: la donna chiede di divorziare perché l'uomo non vuole lasciare con lei l'Iran. Hanno ottenuto entrambi il permesso di espatriare con la loro figlia undicenne Termeh, ma Nader non solo non vuole seguirla ma le nega il permesso di andare via con la ragazza. Ma Simin non vuole assolutamente che sua figlia cresca in Iran, e così se Nader non la seguirà all'estero e non lascerà che la figlia vada con la madre, sarà Simin ad abbandonare lui.
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Il dramma è subito posto, già nella prima inquadratura e nel primo brandello di dialogo. Simin e Nader, moglie e marito, sono in tribunale davanti a un giudice civile: la donna chiede di divorziare perché l'uomo non vuole lasciare con lei l'Iran. Hanno ottenuto entrambi il permesso di espatriare con la loro figlia undicenne Termeh, ma Nader non solo non vuole seguirla ma le nega il permesso di andare via con la ragazza. Ma Simin non vuole assolutamente che sua figlia cresca in Iran, e così se Nader non la seguirà all'estero e non lascerà che la figlia vada con la madre, sarà Simin ad abbandonare lui. “Perché – le chiede il giudice – non vuole che sua figlia cresca in Iran, signora? Si rende conto della gravità di ciò che dice?”. La domanda rimane in sospeso, e anche l'udienza è aggiornata. Appena a casa la donna abbandona immediatamente la casa del marito, che rimarrà solo con la figlia adolescente e il vecchio padre malato di Alzheimer, il quale neanche lo riconosce più. La malattia del padre è la ragione che Nader oppone davanti al giudice per non abbandonare il paese. Senza più Simin in casa, l'uomo deve subito trovare una badante che accudisca e sorvegli il padre mentre lui è al lavoro in banca e Termeh a scuola. Come già nel precedente film di Asghar Farhadi, About Ellly, il tema della “doppia verità” si innesca fin dall'inizio in modo prima lieve, quasi trascurabile, per aggrovigliarsi poi in maniera sempre più drammatica, inestricabile e con tragiche conseguenze. Razieh, la donna che faceva soltanto le pulizie, e che ora Nader convince a diventare la badante del padre, deve adottare una sua verità di fronte al marito e all'intera società. Perché lei non può stare da sola in casa di un uomo in cui non c'è più la moglie, e non potrebbe neanche lavare le parti intime di un altro uomo che se l'è fatta addosso, sebbene ultrasettantenne e colpito dall'Alzheimer. Così questo conduce anche Nader ad adottare una verità ufficiale davanti al marito della donna, in una catena di successive complicazioni che mettono a nudo il vero volto di una società fondata interamente sulla doppia verità. È una questione che ha radici profonde nell'Islam, dai tempi di Averroè, il grande filosofo e traduttore di Aristotele, nato a Cordova nel 1126 e morto 70 anni dopo in esilio a Marrakesh, per l'intolleranza religiosa che si opponeva al suo pensiero. Non che Averroè avesse mai teorizzato una doppia verità, una buona per la fede, l'altra per la ragione, però, di fatto dovette fare i conti con essa per attenuare l'impatto della sua opera filosofica e scientifica, in quanto considerata come negazione della verità coranica. Lo stesso giudice civile, laico, della prima scena si trova ora a dipanare la matassa molto più intricata e amara di una semplice causa di divorzio, nella quale la badante ha intanto perso il bambino che aspettava, cadendo giù dalle scale. A pagare, sopratutto, il regime della doppia verità sono le donne e le bambine, le adolescenti come Termeh, in particolare. La ragazza assiste prima allibita alla esibizione della doppia verità da parte del padre, poi ne rimane direttamente coinvolta, dovendo testimoniare. La scena finale, con i corridoi del tribunale percorsi avanti e indietro da ragazzi di ogni età, mentre Termeh, davanti al giudice, piange perché non sa cosa rispondere è invece la risposta alla scena iniziale: quella del perché la madre non voleva che sua figlia crescesse in quel paese.
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olgadik
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giovedì 17 novembre 2011
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un drammatico spaccato della società iraniana
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Distribuito dalla Sacher film, l’ultima fatica di Asghar Farhadi (della penultima About Elly parlammo a suo tempo) è una storia ambientata in Iran, ma soprattutto ci mette dinanzi a una serie di sentimenti, contraddizioni, problemi, definibili come universali. Per la cura attenta ai singoli individui e ai “fondamentali” di qualsiasi essere umano, non si discosta dal modo di narrare del regista, ma prende in esame uno spaccato di società inusuale per lui: la numerosa e agiata classe medio-borghese. Nel modo di vivere, abitare, comunicare, essa non appare molto diversa dalla nostra, eppure via via sfumature, zone d’ombra, contrasti tra ceti diversi, tra religione tradizionale ed esigenze di vivere più liberamente, convergono, insieme ad accorte metafore (per non allarmare la censura) a fornire un quadro molto complesso.
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Distribuito dalla Sacher film, l’ultima fatica di Asghar Farhadi (della penultima About Elly parlammo a suo tempo) è una storia ambientata in Iran, ma soprattutto ci mette dinanzi a una serie di sentimenti, contraddizioni, problemi, definibili come universali. Per la cura attenta ai singoli individui e ai “fondamentali” di qualsiasi essere umano, non si discosta dal modo di narrare del regista, ma prende in esame uno spaccato di società inusuale per lui: la numerosa e agiata classe medio-borghese. Nel modo di vivere, abitare, comunicare, essa non appare molto diversa dalla nostra, eppure via via sfumature, zone d’ombra, contrasti tra ceti diversi, tra religione tradizionale ed esigenze di vivere più liberamente, convergono, insieme ad accorte metafore (per non allarmare la censura) a fornire un quadro molto complesso. Per rendere tale complessità, Farhadi si serve di vari elementi di linguaggio, usandoli in maniera da intersecarsi gli uni con gli altri. Il ritmo è spesso incalzante, quasi da thriller, con piccoli colpi di scena (vedi vicende in tribunale). In altre sequenze la macchina a mano entra nelle case e quasi ne fruga gli angoli, facendo intravedere la realtà che c’è dietro le porte socchiuse, simbolo della situazione politica, sottintesa senza che se ne parli. In altri momenti ancora il movimento della cinepresa è fluido e la fotografia si fa più moderna e lineare. Insomma sia la grammatica che i contenuti del film, esprimono l’impegno nell’analizzare a fondo ragioni e torti, emozioni e furberie, onestà e tentazioni disoneste dei vari personaggi. Tra di essi, tutti interpretati ottimamente e tali da attirare comunque simpatia, vorrei ricordare i due più indifesi. Mi riferisco alla figlia undicenne della coppia di separati con lo sguardo profondo e severo puntato sulla realtà, che giudica in silenzio ma con una forte richiesta etica ai genitori che ha scoperto fallibili. C’è poi la figlia piccolina dell’altra donna al centro del racconto nel ruolo della badante. La bimba, che sembra uscita dalla mano di un fumettista di classe per le sue fattezze ed espressioni, pronta a passare dalla curiosità tutta infantile allo smarrimento, è lì con i suoi occhi tondi e il visino somigliante a un punto interrogativo. Brunissima, spesso contornata dal suo foulard bianco e dalla veste rosa, rimane nella memoria più di un qualsiasi dialogo per quella interpretazione muta. Ma veniamo alla trama coinvolgente fin dalle prime scene. Una coppia, Simin la donna e Nader il marito, sta davanti al giudice per separarsi legalmente. La moglie vuole espatriare con i suoi per non vivere più “nelle circostanze di quel paese”, lui non si decide a partire per non abbandonare a se stesso un padre vecchio e malato di Alzheimer. L’altro personaggio femminile importante è Razieh. Proviene dal proletariato, è incinta ma non lo dice e lavora a casa di Nader come badante, di nascosto di un marito tradizionalista e religioso. Da questo punto in poi la storia delle due coppie si intreccia e fa nascere interrogativi sui singoli e sulla società, senza che il regista presuma di fornire facili risposte. Finale perciò aperto.
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[+] brava....
(di francesco2)
[ - ] brava....
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pepito1948
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giovedì 17 novembre 2011
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il neorealismo cifrato di farhadi
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Tutto ha inizio in una città dell’Iran odierno, intasata di macchine, rumorosa e pulsante di vita come qualsiasi altra affollata città del mondo, con la richiesta di separazione giudiziale di due coniugi sposati da 14 anni con una figlia adolescente a carico: lei vuole approfittare di un permesso di espatrio che impone una scelta rapida, lui non intende lasciare il padre malato di Alzheimer né consente che la moglie porti con sé la figlia. Il giudice propende per la tesi del marito, e quindi la separazione avviene di fatto perché la donna si trasferisce da sola dalla madre, forse per convinzione forse per mettere alla prova il consorte recalcitrante.
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Tutto ha inizio in una città dell’Iran odierno, intasata di macchine, rumorosa e pulsante di vita come qualsiasi altra affollata città del mondo, con la richiesta di separazione giudiziale di due coniugi sposati da 14 anni con una figlia adolescente a carico: lei vuole approfittare di un permesso di espatrio che impone una scelta rapida, lui non intende lasciare il padre malato di Alzheimer né consente che la moglie porti con sé la figlia. Il giudice propende per la tesi del marito, e quindi la separazione avviene di fatto perché la donna si trasferisce da sola dalla madre, forse per convinzione forse per mettere alla prova il consorte recalcitrante. L’impellente esigenza di assicurare una sufficiente assistenza sanitaria al vecchio padre induce Nader a ricorrere alla collaborazione di una badante trentenne incinta, il cui stato non è facilmente riconoscibile sotto la lunga veste. Il rapporto si interrompe bruscamente e la badante viene cacciata da casa, ma perde il bambino. Da qui si innesca una dinamica che gradatamente coinvolge i componenti di due nuclei familiari che entrano in un conflitto sempre più vasto, complesso e tortuoso e apparentemente senza soluzione, in cui prevale il tutti contro tutti, ed attacco e difesa si alternano senza esclusione di colpi, mentre neanche l’autorità (giudiziaria) riesce ad conciliare le diverse posizioni emerse. Inevitabilmente l’incapacità di addivenire ad un accordo soddisfacente per tutti si scarica sulle giovani figlie delle coppie protagoniste, che sapranno dare una lezione di maturità ed un esempio di costruttiva solidarietà di fronte agli sterili comportamenti dei “grandi”.
Ashgar Farhadi , dopo la presa di posizione a favore di Panahi e di altri registi ed intellettuali dissidenti perseguitati da uno dei regimi più oscurantisti ed arroccati a difesa della propria verità, si è visto costretto ad aggirare i rischi della censura (e del carcere) raccontando nella forma più rassicurante della commedia, attraverso il filtro invisibile di simbolismi e metafore, una storia di vita privata apparentemente slegata da un particolare contesto per la sua valenza universale. Infatti prende spunto dalla crisi di un matrimonio, “che rappresenta un rapporto tra due esseri umani indipendente dall’epoca o dalla società in cui si vive”, e dalla relativa separazione, che, come avviene altrove, è il primo passo verso la rottura definitiva del rapporto. Già a questo punto, vista l’equivalenza delle ragioni esposte, è difficile per noi spettatori decidere da che parte stare. Ma il complicarsi della vicenda ci costringe, nel susseguirsi delle rispettive argomentazioni, a prendere posizione ed a mutarla continuamente; le responsabilità circolano, nessuno ha pienamente ragione, tutti mentono, a sé ed altri, ciascuno palesa limiti e debolezze, tranne chi non ha più l’uso della ragione (il povero vecchio padre) e chi è ancora fuori da logiche distruttive per motivi di età. La tensione e lo sconcerto salgono quanto più s’infittisce il gioco di accuse e controaccuse in un clima sempre più claustrofobico e dilaniante, fino al finale aperto che tuttavia offre un messaggio univoco: davanti all’inquinamento della ragione solo l’innocenza, l’immediatezza e la purezza dei sentimenti di chi non è ancora schiavo dei condizionamenti degli adulti può salvarci (l’occhiata di complicità che si scambiano le due bambine è una delle chicche del film). E’ la filosofia recentemente proposta da Polanski con Carnage. I conflitti individuali e di classe (qui tra media borghesia e precariato infraborghese) si verticalizzano, assumendo una dimensione generazionale.
Ma dov’è in tutto ciò il riferimento critico alla società iraniana ed al suo pervasivo sistema di potere? Innanzitutto già il tema della separazione sembra velatamente alludere allo scollamento tra il regime oppressivo e teocratico vigente ed una delle popolazioni e culture più vivaci, vitali e ricche di tradizioni del mondo asiatico. Inoltre non sfugge il protagonismo ossessivo ed onnipresente del chador, fuori e dentro casa, che richiama la soggezione della condizione femminile alle ferree leggi islamiche secondo le interpretazioni restrittive degli ayatollah, a simboleggiare l’intrusività dei modelli imposti dal regime finanche nella vita privata. Inoltre la consultazione telefonica della badante con una qualche autorità teocratica (si fa peccato a svestire un uomo malato per lavarlo?) dà un’idea di quanto sia dominante e condizionante la religione di Stato nei comportamenti umani nell’Iran di oggi (ma è poi così diverso da quanto succedeva da noi fino a qualche tempo fa -e da qualche parte forse ancora oggi- quando il confessionale era l’arbitro incontestabile delle nostre azioni?). Insomma un film diverso dalla cinematografia impegnata e drammatica iraniana cui siamo abituati, dai toni gravi e solenni; mancano il pathos e la solennità tragica del “Cerchio” o di “Donne senza uomini”, la poetica della sofferenza, i silenzi gravidi di inquietudini. Forse i dialoghi sono troppo serrati ed “esplicativi” lasciando troppo poco spazio all’intuitività; ma l’importante è andare oltre la comunicazione cifrata; ciò che non passa dalla porta passa dalla finestra, e, attraverso la rappresentazione di episodi di realismo della quotidianità, Farhadi ci inocula (magari obbligandoci ad una lenta elaborazione digestiva) un senso di disagio che è la risultante di tutto ciò che in qualche modo il regista ha voluto comunicarci. Senza scontentare, a quanto se ne sa, gli organi di censura del suo Paese.
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donatella petrino
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martedì 15 novembre 2011
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la civilta' e la dignita del popolo iraniano
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Vorrei prima di tutto raccontarvi che questo Film l'ho Visto insieme a mio fratello Marco al
cinema ALPHAVILLE DI CB, perchè al SACHER DI ROMA di Nanni Moretti, MARCO non l'hanno fatto entrare perchè aveva una mascherina per proteggersi da infezioni, poichè il 21 agosto 2011 ha subito a PISA un trapianto di RENE e PANCREAS. IL Direttore del SACHER ha esordito dicendo che con la mascherina non sarebbe potuto entrare perchè nel cinema circolavano i soldi e che alla posta neppure l'avrebbero fatto mai entrare. Alla posta di Roma invece non solo Marco è entrato ma ha avuto anche la precedenza assoluta su quanti erano in fila. I falsi intellettuali che si riempiono la bocca di solideriatà e apertura mentale, devono assolutamente essere rivelati con verità che è anche l'argomento di questo film meraviglioso che racconta la dignità e l'esigenza di rispondere alla propria coscienza di tutto l'operato quotidiano.
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Vorrei prima di tutto raccontarvi che questo Film l'ho Visto insieme a mio fratello Marco al
cinema ALPHAVILLE DI CB, perchè al SACHER DI ROMA di Nanni Moretti, MARCO non l'hanno fatto entrare perchè aveva una mascherina per proteggersi da infezioni, poichè il 21 agosto 2011 ha subito a PISA un trapianto di RENE e PANCREAS. IL Direttore del SACHER ha esordito dicendo che con la mascherina non sarebbe potuto entrare perchè nel cinema circolavano i soldi e che alla posta neppure l'avrebbero fatto mai entrare. Alla posta di Roma invece non solo Marco è entrato ma ha avuto anche la precedenza assoluta su quanti erano in fila. I falsi intellettuali che si riempiono la bocca di solideriatà e apertura mentale, devono assolutamente essere rivelati con verità che è anche l'argomento di questo film meraviglioso che racconta la dignità e l'esigenza di rispondere alla propria coscienza di tutto l'operato quotidiano.
E' la storia di un popolo che non prende nulla se non lo merita e che al primo posto nella scala dei valori mette l'assoluta onestà e la bugia è detta solo quando la verità non avrebbe compiuto la giustizia.
Grande insegnamento dal popolo IRANIANO consiglio anche a MORETTI e al SUO STRETTO COLLABORATORE NONCHE' AMICO DI RIVEDERLO E SOPRATTUTO DI CAPIRLO !!
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chiarialessandro
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martedì 15 novembre 2011
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povertà (di mezzi). ricchezza (di espressione)
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L’inizio della narrazione è sulla falsariga del titolo ma ben presto ci si rende conto del fatto che la separazione altro non è se non uno dei tanti rivoli che confluiscono in un fiume impetuoso, nelle cui acque profonde nuota una miriade di pesci pronta a gettare il suo sguardo sulle infinite sfaccettature della vita quotidiana che iniziano, sì, da una “normale” separazione la quale però altro non è se non il timone che guida la navigazione di una barca attraverso le impervietà della coscienza, della religione, della politica, della censura. Film “povero” e “concitato” con svolgimento largamente imprevedibile e recitazione sopra la norma.
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L’inizio della narrazione è sulla falsariga del titolo ma ben presto ci si rende conto del fatto che la separazione altro non è se non uno dei tanti rivoli che confluiscono in un fiume impetuoso, nelle cui acque profonde nuota una miriade di pesci pronta a gettare il suo sguardo sulle infinite sfaccettature della vita quotidiana che iniziano, sì, da una “normale” separazione la quale però altro non è se non il timone che guida la navigazione di una barca attraverso le impervietà della coscienza, della religione, della politica, della censura. Film “povero” e “concitato” con svolgimento largamente imprevedibile e recitazione sopra la norma. Premi meritatissimi.
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vipera gentile
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lunedì 7 novembre 2011
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l'eterno conflitto della coppia e sociale.
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E' ambientato in Iran e racconta l'eterno conflitto tra uomo e donna e tra classi sociali diverse; c'è tutta la frustrazione della moglie che si sente trascurata dal marito e tenta di risvegliarne i sentimenti minacciando il divorzio; e quella della coppia più bisognosa che si sente ingannata e turlupinata dal ceto benestante. Colpisce particolarmente la sottomissione alla religione islamica che induce la badante a telefonare al rabbino per chiedergli il permesso di cambiare i vestiti all'uomo anziano di cui si deve occupare.
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E' ambientato in Iran e racconta l'eterno conflitto tra uomo e donna e tra classi sociali diverse; c'è tutta la frustrazione della moglie che si sente trascurata dal marito e tenta di risvegliarne i sentimenti minacciando il divorzio; e quella della coppia più bisognosa che si sente ingannata e turlupinata dal ceto benestante. Colpisce particolarmente la sottomissione alla religione islamica che induce la badante a telefonare al rabbino per chiedergli il permesso di cambiare i vestiti all'uomo anziano di cui si deve occupare. Bellissima la parte delle bambine, testimoni dei conflitti tra gli adulti, che giocano comunque insieme, solidali. Soprattutto la più piccola ha gli occhi enormi ed è tenerissima.
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