pensionoman
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lunedì 28 gennaio 2013
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peter weir. il ritorno di un grande regista.
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The Way Back, ovvero come la mano di un grande artista può raccontare una storia epica e senza tempo.
1939. Nella Polonia invasa dai nazisti, Janusz (un giovane ufficiale polacco) viene condannato per spionaggio, in base alle accuse della moglie, costretta con la violenza a testimoniare contro di lui. Con questo fardello terribile nell'anima, senza un processo, viene spedito senza complimenti nell'inferno dei gulag siberiani, dove il suo destino si incontrerà con quello degli altri dissidenti, l'americano Mr. Smith (un Ed Harris semplicemente strepitoso), l'attore russo Khabarov, il criminale ladro e assassino Valka (bravissimo Colin Farrell), il prete Voss e il cuoco artista Tomasz.
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The Way Back, ovvero come la mano di un grande artista può raccontare una storia epica e senza tempo.
1939. Nella Polonia invasa dai nazisti, Janusz (un giovane ufficiale polacco) viene condannato per spionaggio, in base alle accuse della moglie, costretta con la violenza a testimoniare contro di lui. Con questo fardello terribile nell'anima, senza un processo, viene spedito senza complimenti nell'inferno dei gulag siberiani, dove il suo destino si incontrerà con quello degli altri dissidenti, l'americano Mr. Smith (un Ed Harris semplicemente strepitoso), l'attore russo Khabarov, il criminale ladro e assassino Valka (bravissimo Colin Farrell), il prete Voss e il cuoco artista Tomasz. Da questo incontro, nasce un piano di fuga apparentemente disperato, che i protagonisti metteranno in pratica in una gelida notte di tempesta: scappare dal campo attraversando a piedi tutta la Siberia, verso la Transiberiana e la Mongolia, per poi dirigersi in Tibet, attraversando la Cina, e di li fino in India.
Un viaggio epico, all'apparenza impossibile, attraverso montagne, steppe, deserti, fiumi e ghiacciai, tempeste di sabbia e bufere di neve, la furia degli elementi e le privazioni della marcia, la fame, la sete, la devastante stanchezza e la mancanza di sonno per la fuga estenuante, che saranno solo alcune delle terribili prove che gli uomini dovranno affrontare, nella disperata e tormentata fuga dai loro carcerieri, quanto dai loro demoni interiori.
Infatti, grazie all'incontro lungo la strada con una giovane donna (fuggiasca anche lei dagli orrori del comunismo), ognuno dei protagonisti farà emergere cenni della sua storia personale e confessera il peso che porta dentro la sua coscienza.
Così facendo, lungo il percorso, tra le prove affrontate e quelle da affrontare di volta in volta, dall'iniziale interesse utilitaristico che li aveva uniti i protagonisti si avvicineranno tra loro, a poco a poco, come esseri umani, fino a diventare una cosa sola, una famiglia, con un unico comune sentimento (straordinaria la professione di fedelta dell'assassino Valka a Janusz, come vero leader del gruppo), sempre più forte e intenso tanto quanto le perdite che dovranno subire per la morte di alcuni di loro.
Del gruppo originario, solo in quattro riusciranno a fare ritorno, completamente cambiati, come individui e come uomini.
Ecco dunque che il viaggio attraverso la natura selvaggia, diventa il viaggio attraverso se stessi, alla scoperta della propria fibra interiore, della propria natura di uomo e del risanamento della propria anima lacerata. Un lavoro magistrale, che solo la mano raffinata di un grande artista come Peter Weir poteva tratteggiare sapientemente (spesso senza nemmeno un dialogo, solo con la potenza evocativa delle immagini), in perenne equilibrio tra l'epico e l'umano. Una grande Odissea, dove i temi della sopravvivenza, della storia e di Madre Natura, pur importanti, cedono il passo alla storia dell'Uomo e della sua ostinata conquista della libertà e dignità umana.
Peter Weir ritorna dopo una lunga assenza di quasi otto anni dal suo ultimo lavoro (il pur bello Master and Commander) per fare un cinema classico, alla vecchia maniera, che sa raccontare con efficace semplicita grandi storie, e grandi emozioni, attraverso le imprese strordinarie di uomini veri.
Superare lo straordinario L'attimo fuggente non era facile, ma The Way Back é sinceramente un piccolo capolavoro e tocca vette inesplorate nelle opere precedenti del regista.
Un film bellissimo. Da rivedere.
Saluti
Pensionoman
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[+] un film da proiettare nelle scuole
(di terra.it)
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jaylee
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lunedì 23 luglio 2012
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il viaggio dentro
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Picnic a Hanging Rock si incrocia con Master & Commander nella più recente prova del maestro Peter Weir. Arrivato con ben due anni di ritardo sullo schermo, The Way Back racconta del ritorno a casa di Janusz, (Jim Sturgess) militare polacco ingiustamente accusato di spionaggio ed imprigionato in Siberia e che impiegherà ben 48 anni per farlo (dal 1941, anno in cui si svolge la trama, al 1989, anno del crollo del comunismo in Polonia)… Dovrà attraversare i ghiacci della Siberia, le paludi della steppa, il deserto del Gobi, le vette dell’Himalaya… fino ad arrivare in India, dove potrà finalmente riposare. Sarà un lunghissimo viaggio, seguito da una gruppo di disperati come lui, un prete lettone, un ragioniere jugoslavo, un cuoco ed artista ungherese, un ingegnere americano, un delinquente russo, una ragazzina polacca… qualcuno si fermerà prima della fine, qualcuno morirà, qualcuno arriverà con lui fino alla fine.
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Picnic a Hanging Rock si incrocia con Master & Commander nella più recente prova del maestro Peter Weir. Arrivato con ben due anni di ritardo sullo schermo, The Way Back racconta del ritorno a casa di Janusz, (Jim Sturgess) militare polacco ingiustamente accusato di spionaggio ed imprigionato in Siberia e che impiegherà ben 48 anni per farlo (dal 1941, anno in cui si svolge la trama, al 1989, anno del crollo del comunismo in Polonia)… Dovrà attraversare i ghiacci della Siberia, le paludi della steppa, il deserto del Gobi, le vette dell’Himalaya… fino ad arrivare in India, dove potrà finalmente riposare. Sarà un lunghissimo viaggio, seguito da una gruppo di disperati come lui, un prete lettone, un ragioniere jugoslavo, un cuoco ed artista ungherese, un ingegnere americano, un delinquente russo, una ragazzina polacca… qualcuno si fermerà prima della fine, qualcuno morirà, qualcuno arriverà con lui fino alla fine. Sarà un vero viaggio interiore alla scoperta della propria essenza: quanto si può spingere un uomo sulla propria motivazione? Su cosa si focalizza quanto tutto sembra crollare intorno?
Come dicevamo, è un film che parla di un viaggio estremo, con paesaggi mozzafiato e terribili allo stesso tempo, ed in questo Peter Weir non può non attingere al suo esordio Picnic a Hanging Rock… spesso qui come allora, gli uomini sono rappresentati piccoli piccoli in mezzo alla natura, madre crudele e sapiente allo stesso tempo. E non può non ricordare a tratti Master & Commander, con questi uomini tesi alla sopravvivenza, con regole e valori comuni ferrei, così diversi eppure nella loro essenza così simili, il gruppo come protezione e appartenenza, come sopravvivenza emotiva ancor prima che fisica, e con la leadership di Janusz nella quale confidano quasi religiosamente (seppur, proprio come nella fede, a volte mettendone in dubbio le scelte). Il viaggio come metafora della vita, con personaggi che entrano ed escono e ci accompagnano per un tratto breve o lungo che sia.
I paesaggi sono assolutamente i protagonisti di questo film, trasmettono un senso di magnificenza e allo stesso tempo di angoscia, di indefinitamente precario… Molto belle anche le musiche di Burkhard Dallwitz, tipicamente un punto di forza d Peter Weir, uno dei grandi registi che coniugano autorialità e capacità di utilizzare un linguaggio cinematografico “commerciale”. Buone le prestazioni degli attori, da Jim Sturgess a Colin Farrell, da Dragos Bucur a Saoirse Ronan, ma soprattutto emerge Ed Harris, un volto scavato più dal dolore interiore che dalle intemperie. Il più anziano del gruppo, sarà quello che crescerà di più alla fine del viaggio, riappacificandosi con la vita proprio mentre stava per uscirne. Aggrapparsi ad essa come atto di fede e preghiera.
Pur non essendo il miglior film di Weir, soprattutto nel finale un po’ posticcio, The Way Back non può non toccare lo spettatore ed è un peccato che sia rimasto in panchina per così tanto tempo… Ma meglio tardi che mai. (www.versionekowalski.it)
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fabian t.
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giovedì 16 agosto 2012
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la lunga marcia verso la libertà
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Film serio, solido, sobrio, del tutto privo di spettacolarizzazione. Una regia quasi invisibile per un lungo e sofferto viaggio verso la libertà non solo fisica ma soprattutto interiore. La forza di volontà, le motivazioni personali, l'equilibrio mentale e il sapersi mettere in discussione sono i temi chiave di questa ennesima prova cinematografica di Weir dedicata alle inoocenti vittime dei gulag sovietici. La storia è certamente lineare e scorrevole, senza sorprese o artificiosità, giocata soprattutto sulla caratterizzazione e l'interazione dei personaggi. Lodevoli dunque le prove recitative del gruppo protagonista, anzitutto di Colin Farrell, l'odioso e rozzo russo con una sua feroce ma coerente morale, nonché del bravo Ed Harris (l'anonimo Mr.
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Film serio, solido, sobrio, del tutto privo di spettacolarizzazione. Una regia quasi invisibile per un lungo e sofferto viaggio verso la libertà non solo fisica ma soprattutto interiore. La forza di volontà, le motivazioni personali, l'equilibrio mentale e il sapersi mettere in discussione sono i temi chiave di questa ennesima prova cinematografica di Weir dedicata alle inoocenti vittime dei gulag sovietici. La storia è certamente lineare e scorrevole, senza sorprese o artificiosità, giocata soprattutto sulla caratterizzazione e l'interazione dei personaggi. Lodevoli dunque le prove recitative del gruppo protagonista, anzitutto di Colin Farrell, l'odioso e rozzo russo con una sua feroce ma coerente morale, nonché del bravo Ed Harris (l'anonimo Mr.Smith) che dimostra ancora una volta il suo indubbio talento. E il regista de "L'attimo sfuggente" si aggiudica un'altra prova riuscita.
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no_data
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venerdì 6 luglio 2012
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il bellissimo ritorno di un maestro
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sarò di parte, in quanto mi sono sempre piaciuti moltissimo i film di Weir (l' attimo fuggente, the truman show, picnic ad hanging rock, master e commander),ma anche questa sua ultima opera mi ha colpito moltissimo.è un film semplice e lineare ma fatto benissimo sotto tutti gli aspetti: la sceneggiatura non rende mai banale una storia,come ho già detto, semplice (cosa molto difficile da fare); la regia riesce ad emozionare ad ogni inquadratura ed a rendere realistici luoghi come i campi di lavoro; i costumi e le scenografie sono perfetti; il cast fornisce ottime prove attoriali (su tutti Ed Harris,Colin Farrel e Saroise Ronan).Pellicola emozionante, coinvolgente fin da subito,ricca di grandi messaggi e di personaggi memorabili (impossibile dimenticare quello interpretato da Colin Farrell).
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sarò di parte, in quanto mi sono sempre piaciuti moltissimo i film di Weir (l' attimo fuggente, the truman show, picnic ad hanging rock, master e commander),ma anche questa sua ultima opera mi ha colpito moltissimo.è un film semplice e lineare ma fatto benissimo sotto tutti gli aspetti: la sceneggiatura non rende mai banale una storia,come ho già detto, semplice (cosa molto difficile da fare); la regia riesce ad emozionare ad ogni inquadratura ed a rendere realistici luoghi come i campi di lavoro; i costumi e le scenografie sono perfetti; il cast fornisce ottime prove attoriali (su tutti Ed Harris,Colin Farrel e Saroise Ronan).Pellicola emozionante, coinvolgente fin da subito,ricca di grandi messaggi e di personaggi memorabili (impossibile dimenticare quello interpretato da Colin Farrell).Aspetto con rinnovato interesse nuove pellicole di questo sommo maestro.
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donni romani
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venerdì 6 luglio 2012
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fuga verso la libertà
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Per il ritorno su grande schermo dopo quasi dieci anni di assenza Peter Weir sceglie una storia di fuga, di sopravvivenza e di solidarietà dove a dominare sono gli ambienti naturali che i protagonisti si trovano ad affrontare giorno dopo giorno per 6500 chilometri. Tanti sono infatti sono i metri strappati alla morte che un gruppo di detenuti, evasi da un carcere siberiano nel 1938, in pieno regime comunista, devono percorrere per tentare di raggiungere l'India, e con essa la libertà. Dalla Siberia al Tibet, dalll'Himalaya al deserto, dalle tempeste di neve a quelle di sabbia, dal lago Baikal a Lhasa niente verrà risparmiato a questo gruppo di uomini in fuga, ognuno con una storia alle spalle, ognuno con un vissuto doloroso che fa da sfondo alla disperazione crescente che accompagna ogni tribolazione fisica.
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Per il ritorno su grande schermo dopo quasi dieci anni di assenza Peter Weir sceglie una storia di fuga, di sopravvivenza e di solidarietà dove a dominare sono gli ambienti naturali che i protagonisti si trovano ad affrontare giorno dopo giorno per 6500 chilometri. Tanti sono infatti sono i metri strappati alla morte che un gruppo di detenuti, evasi da un carcere siberiano nel 1938, in pieno regime comunista, devono percorrere per tentare di raggiungere l'India, e con essa la libertà. Dalla Siberia al Tibet, dalll'Himalaya al deserto, dalle tempeste di neve a quelle di sabbia, dal lago Baikal a Lhasa niente verrà risparmiato a questo gruppo di uomini in fuga, ognuno con una storia alle spalle, ognuno con un vissuto doloroso che fa da sfondo alla disperazione crescente che accompagna ogni tribolazione fisica. C'è il giovane polacco Janusz, condannato ingiustamente per tradimento dopo che la moglie, torturata dai sovietici, lo ha denunciato, e che vuole tornare solo per dirle di averla perdonata e liberarla così dal senso di colpa, c'è il ladro comune, un Colin Farrell al solito survoltato e cinico, che difende il comunismo anche se lo ha rinchiuso in un gulag, c'è Mister Smith, un dolente e toccante Ed Harris, viso scavato e fisico provato, che ha visto morire suo figlio e non ha più ragione di vivere, se non punirsi per aver trascinato il ragazzo dagli Stati Uniti alla Russia dove è stato torturato e ucciso, e c'è una giovane ragazza, che farà da cassa di risonanza per i dolori di questi uomini taciturni e solitari, poco avvezzi a confidare il proprio dolore. Naturalmente non tutti arriveranno in fondo, naturalmente le scene commoventi non mancano, e naturalmente il finale è di quelli epici. In più gli scenari naturali sono magnifici, fotografati splendidamente e protagonisti al pari degli uomini che li sfidano, lasciando il senso profondo dell'impotenza umana di fronte agli elementi. Ma nonostante ciò il film resta un ben girato film di genere, in cui per più di due ore si attende una svolta autoriale, un guizzo del maestro di capolavori come "Pic nic ad Hanging Rock" o "L'attimo fuggente" che non arriva mai, lasciandoci con la consapevolezza di aver assistito ad uno dei tanti, tantissimi, film di sopravvivenza, non ultimo "Grey" con Liam Neeson, con un gruppo di individui lontani fra loro che inizialmente si scontrano poi iniziano a conoscersi e rispettarsi, che scopriremo fragili a causa del loro passato e che si riscatteranno uscendo dall'avventura catartica migliori di prima. Possibile che in dieci anni Weir non abbia trovato un copione più intrigante, più originale, più seducente? Speriamo di non dover aspettare ancora a lungo per un'opera più personale e più ispirata, anche se, chiunque veda il film senza leggere la firma del regista, potrà giudicarlo un corposo film d'avventura e sentimenti.
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[+] bravo, bella recensione.
(di antonio montefalcone)
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(di kondor17)
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filippo catani
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venerdì 26 luglio 2013
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un viaggio drammatico ma emozionante
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Nel 1940 nella Polonia occupata dall'Armata Rossa si susseguono le deportazioni. Un giovane viene spedito nei gulag siberiani dietro la testimonianza estorta con la violenza alla moglie che lo accusa di essere una spia. Una volta in Siberia, l'uomo deciderà di intraprendere una missione suicida: fuggire attraverso la Siberia per raggiungere la Mongolia prima e l'India poi.
Nel suo Le origini del totalitarismo Hanna Arendt vede nella delazione il frutto peggiore e più avvelenato di una dittatura e anzi quando questa funziona e viene incoraggiata è la spia che ci indica che siamo in presenza di un regime autoritario. La Arendt parlava della peggiore di tutte e cioè di madri che denunciavano i figli al partito comunque nel film è una moglie a denunciare il marito.
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Nel 1940 nella Polonia occupata dall'Armata Rossa si susseguono le deportazioni. Un giovane viene spedito nei gulag siberiani dietro la testimonianza estorta con la violenza alla moglie che lo accusa di essere una spia. Una volta in Siberia, l'uomo deciderà di intraprendere una missione suicida: fuggire attraverso la Siberia per raggiungere la Mongolia prima e l'India poi.
Nel suo Le origini del totalitarismo Hanna Arendt vede nella delazione il frutto peggiore e più avvelenato di una dittatura e anzi quando questa funziona e viene incoraggiata è la spia che ci indica che siamo in presenza di un regime autoritario. La Arendt parlava della peggiore di tutte e cioè di madri che denunciavano i figli al partito comunque nel film è una moglie a denunciare il marito. Da questa mossa prende avvio l'ottimo Film di Weir arrivato in Italia con colpevolissimo ritardo. Lo spettatore dapprima viene calato nella terribile realtà del gulag; una realtà priva di speranza in quanto ogni tentativo di fuga era frustrato o dagli autoctoni che ricevevano un premio in denaro per ogni testa riconsegnata e poi c'era il nemico peggiore di tutti; il freddo. Una situazione apparentemente senza via d'uscita e che costringerà un manipolo di uomini ad una impresa straordinaria; un viaggio a Piedi dall'india alla Siberia. Il regista ha il grande merito di coinvolgere sempre lo spettatore che passa dalla steppa al deserto, dalla neve al sole cocente. Insomma un film tosto ed emozionante condito da un ottimo cast, una piacevole colonna sonora e un'ottima fotografia.
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giorpost
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venerdì 26 settembre 2014
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la durezza della natura e la tenacia del perdono
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Peter Weir rappresenta una ristretta categoria di cineasti sognatori e visionari che non amano la banalità. Ha diretto Robin Williams nella perla de L’ attimo fuggente e Jim Carrey nel capolavoro The Truman Show fino ad arrivare, nel 2010, a dirigere un cast di ottimo profilo in una storia avventurosa e drammatica: The way back (USA).
Ambientato in un gulag situato nel mezzo della steppa siberiana, il film racconta di un gruppo di prigionieri, catturati più o meno per giusta causa dai russi, che si ritrovano in un campo di concentramento lontano migliaia di kilometri dalla civiltà, al freddo, con cibo scarso e di poca qualità.
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Peter Weir rappresenta una ristretta categoria di cineasti sognatori e visionari che non amano la banalità. Ha diretto Robin Williams nella perla de L’ attimo fuggente e Jim Carrey nel capolavoro The Truman Show fino ad arrivare, nel 2010, a dirigere un cast di ottimo profilo in una storia avventurosa e drammatica: The way back (USA).
Ambientato in un gulag situato nel mezzo della steppa siberiana, il film racconta di un gruppo di prigionieri, catturati più o meno per giusta causa dai russi, che si ritrovano in un campo di concentramento lontano migliaia di kilometri dalla civiltà, al freddo, con cibo scarso e di poca qualità. Un buco recintato ove le guardie si contano su una mano visto che chi dovesse pensare di scappare troverebbe morte certa per fame, perché sbranati dai lupi o, nella migliore delle ipotesi, per ipotermia. E se si dovesse sopravvivere, ci sarebbero i fidi e ligi cittadini a denunciare i fuggiaschi dietro lauto compenso.
Stalin è però solo lo sfondo in quest’ opera dove chi la fa da padrona è la natura in tutto il suo maestoso splendore, attraverso il quale l’ uomo si prefigura pedina minuscola in costante ricerca di protezione dalla sua ira.
Janusz è un soldato polacco accusato di spionaggio, condannato a 20 anni a causa della testimonianza della moglie, probabilmente torturata dai generali sovietici. Interpretato dal promettente Jim Sturgess, già apprezzato in 21, il tenente riesce a raggruppare uno stuolo di uomini disposti a rischiare il tutto per tutto pur di lasciare quel posto, se non altro per ‘morire da uomini liberi’. Siamo nel 1941 in pieno sconvolgimento geopolitico mondiale e nel campo di prigionia convivono russi, polacchi, sinti, americani, inglesi. Uno di essi, l’ ingegnere statunitense Mr Smith (un intenso e pragmatico Ed Harris) dopo alcuni tentennamenti si fa convincere nell’ organizzare un piano di fuga dettagliato quanto spregiudicato. Alla fine saranno sette i componenti e tra essi spiccano un artista polacco, un prete lituano ed un delinquente russo, Valka (Colin Farrell). Il cammino inizia correndo a perdifiato tra i boschi, in una fuga all’ ultimo respiro. Superato il primo pericolo, si presenta dinnanzi agli impavidi protagonisti l’ immensa vastità siberiana, le montagne mongole, il Lago Baikal ed il deserto del Gobi, non prima di aver attraversato i binari della tratta Transiberiana. Il sentiero è quasi casuale, in quanto Janusz calcola volta per volta (in un modo molto particolare) da che parte si trova il Sud e la relativa destinazione finale, ovvero l’ India, in quegli anni ancora colonizzata dai britannici.
Di belle sequenze ce ne sono molte in questa pellicola, come il bagno nel lago, dove tutti si ripuliscono dalle fatiche e dove si fanno la barba per non essere riconosciuti come prigionieri in fuga, o come per la simpatica risoluzione del problema zanzare, raggiunta con l’ ausilio di un collare. Ma ciò che colpisce maggiormente è il legame e l’ empatia che si crea tra persone così diverse tra loro, attraverso gesti di solidarietà e comprensione reciproca, anche quando fa il suo ingresso nel gruppo la fuggiasca Irena, in fuga da Varsavia, alla quale i russi hanno sterminato l’ intera famiglia. L’ unico che appare freddo decisionista senza scrupoli e moralità è proprio Volka, col suo fido coltello pronto a trasformarsi anche in cannibale, se necessario. Farrell veste bene quei panni, ma il volto scavato e sofferente di Harris provoca emozione, trasmette efficacemente il disagio provocato da una natura ostile che non perdona gli sbagli. Il deserto, ad esempio, metafora di una vita nella quale l’ uomo spesso non sa se andare verso un’ oasi incerta oppure seguire la stella sicura, ma più lontana. La scena dell’ arrivo alla pozza d’ acqua in pieno territorio desertico (Gobi, nord della Cina) è straordinaria. La morte arriverà presto, vuoi per incidente, vuoi per disidratazione o per malattia, tanto che, a un certo punto del cammino, la speranza si affievolisce e si trasformerà in un delicato soffio d’ aria lontana mille miglia. Ma Janusz (che spesso sogna una porta di casa che sta per aprirsi) ha dalla sua una determinazione incessante: spiega a Mr Smith di continuare a crederci, perché deve riuscire a ritrovare sua moglie per poterla perdonare, in quanto da sola non riuscirà mai a trovare la pace. Sarà grazie a questa tenacia che in quattro riusciranno a trovare l’ insperata quanto incredibile salvezza, raggiunta dopo migliaia di kilometri percorsi tutti a piedi, riuscendo anche a sormontare l’ Himalaya. L’ India li accoglie a braccia aperte e senza neanche chiedere i passaporti, dopodiché ogni uno prenderà la sua strada. Seguirà un time lapse che riassumerà gli sviluppi successivi alla Seconda Guerra Mondiale, dalla spartizione europea in due blocchi, alla creazione del muro, fino ad arrivare a quel fatidico 1989 e al crollo del regime comunista sovietico. Sarà soltanto allora, dopo aver atteso quasi 50 anni, che Janusz riuscirà a riabbracciare la sua amata, la quale gli riserverà uno sguardo di immensa gratitudine.
Una storia appassionante con un finale sorprendente, girato con onestà intellettuale e senza troppe alchimie tecniche. Un film che trasmette la grandiosità della natura e di quanto possa distruggere le pretese dell’ uomo, ma anche di come può donarti la possibilità di un’ insperata via di fuga trovando anche il tempo per scoprire i reali valori dell' amicizia e di cosa siamo capaci di fare per amore, avendo dentro una tenacia più dura della natura stessa.
Voto: 8
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iuriv
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lunedì 9 novembre 2015
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uomini in fuga.
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Si dice ultimamente che le serie televisive stiano diventando il nuovo cinema. Forse è vero. Di sicuro c'è che, probabilmente, i produttori di questo The Way Back avrebbero potuto pensare di realizzarne una, visto l'ampio respiro di questa narrazione. O magari no, data l'importanza del finale circolare, atto a provocare commozione e labbra tremanti negli spettatori e che aveva bisogno di essere consumato a stretto giro.
La scelta di Peter Weir nel raccontare questa storia è stata quella di prendersi tutto il tempo per esaltare l'ambientazione. Ed è una scelta giusta, visto che la natura è un personaggio attivo nella trama (direi il villain, ma è un sostantivo molto inadeguato). I ritmi sono sempre compassati per consentire la minuziosa descrizione dei fuggitivi in progressivo decadimento, e, soprattutto, del loro rapporto con un ambiente avaro di ricompense.
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Si dice ultimamente che le serie televisive stiano diventando il nuovo cinema. Forse è vero. Di sicuro c'è che, probabilmente, i produttori di questo The Way Back avrebbero potuto pensare di realizzarne una, visto l'ampio respiro di questa narrazione. O magari no, data l'importanza del finale circolare, atto a provocare commozione e labbra tremanti negli spettatori e che aveva bisogno di essere consumato a stretto giro.
La scelta di Peter Weir nel raccontare questa storia è stata quella di prendersi tutto il tempo per esaltare l'ambientazione. Ed è una scelta giusta, visto che la natura è un personaggio attivo nella trama (direi il villain, ma è un sostantivo molto inadeguato). I ritmi sono sempre compassati per consentire la minuziosa descrizione dei fuggitivi in progressivo decadimento, e, soprattutto, del loro rapporto con un ambiente avaro di ricompense.
Però l'esigenza di contenere il tutto in due ore di pellicola ha costretto Weir a più di un compromesso. A pagare le scelte stilistiche del regista sono le dinamiche della sopravvivenza. Costretto a sintetizzare il più possibile, spesso Weir fa uso di salti temporali di intere settimane, togliendo il sapore di un'impresa che, oltre alla fatica e al dramma (resi bene sullo schermo) ha portato via anche tempo.
Ai personaggi con capita mai di avere bisogni biologici, che può sembrare una stupidaggine detta così. Eppure, in un racconto che non ha il sapore eroistico di storie analoghe (come La Grande Fuga, per esempio), la dimensione più brutalmente umana delle feci poco solide avrebbe fatto gran bene nel descrivere le difficoltà di un viaggio pressoché impossibile (anche se si tratta di una storia, dicono, vera).
I personaggi in gioco sono (almeno inizialmente) parecchi. Gioco forza il regista punta i riflettori solo su alcuni di loro, tentando di far emergere dal magma qualche pietra solida su cui scolpire. Il risultato è altalenante. Lo schema a eliminazione aiuta la narrazione a far risaltare qualche caratteristica importante o, nel caso del protagonista, un obbiettivo superiore alla mera fuga dal gulag, ma il retrogusto che lascia è quello di caratteri dalla grana grossa (il cuoco, il comico, il criminale, il misterioso e tutta questa roba qui).
Certo, Weir non è un regista da poco, quindi riesce a contrastare il tutto con spettacolari panoramiche del deserto mongolo, nelle quali appare evidente la potenza della natura rispetto a quei puntini scuri che sono gli umani mentre ci camminano in mezzo. E, del resto, le cose migliori del film vengono fuori tutte alla distanza, quando la pattuglia inizia ad assottigliarsi ed emergono alcuni tratti ulteriori, splendidamente evidenziati dalla cura che il regista mette nell'esaltare il paesaggio.
Tanti i temi trattati, più o meno in sottofondo. Le brutture dei regimi totalitari, l'importanza del gruppo nell'esaltare le qualità individuali, la determinazione nel raggiungere uno scopo, la volontà come forza trainante e qualche schiaffo ai pregiudizi qui e la. Ci sarebbe anche la lotta tra l'umanità e la disumanizzazione, argomento che in un survival funziona sempre. Ma qui no. Magari perché trattasi di eventi realmente accaduti, il regista ci va piano con le brutalità degli uomini spinti allo stremo, forse perdendosi una chanche narrativa. Del resto il tempo era quello che era.
Un film tutto sommato interessante ma dall'andamento altalenante. Nella seconda metà, e giù verso il finale, emotivamente da il meglio. Comunque due ore ben spese.
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gurthang
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venerdì 6 gennaio 2017
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scade progressivamente nel polpettone
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Film che inizia benissimo e scade progressivamente nel polpettone hollywoodiano. La situazione di partenza è emozionante e suscita in qualsiasi persona onesta un senso di ammirazione per il vigore con cui il socialismo sovietico sapeva proteggersi da traditori, sabotatori e delinquenti; la vita nel gulag è rappresentata realisticamente e la prima parte della fuga è al tempo stesso verosimile e coinvolgente.
Purtroppo il film scade poco a poco in un giro del mondo in 80 giorni tanto irrealistico quanto imbevuto dell’ottusa moralità americana, che tutto stravolge sulla base di canoni sufficientemente insulsi da risultare introiettabili al gregge.
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Film che inizia benissimo e scade progressivamente nel polpettone hollywoodiano. La situazione di partenza è emozionante e suscita in qualsiasi persona onesta un senso di ammirazione per il vigore con cui il socialismo sovietico sapeva proteggersi da traditori, sabotatori e delinquenti; la vita nel gulag è rappresentata realisticamente e la prima parte della fuga è al tempo stesso verosimile e coinvolgente.
Purtroppo il film scade poco a poco in un giro del mondo in 80 giorni tanto irrealistico quanto imbevuto dell’ottusa moralità americana, che tutto stravolge sulla base di canoni sufficientemente insulsi da risultare introiettabili al gregge.
Già nell’ambiente del gulag tutti e dico tutti i prigionieri politici sono anime candide come un lenzuolo fresco di bucato. Non c’è una spia, un sabotatore, un ufficiale zarista a cercarlo oro; evidentemente i bolscevichi si divertivano a incarcerare gl’innocenti e lasciare i veri nemici in libertà. Si sa: l’anticomunismo d’accatto è il secondo mito di regime diffuso dalle demoplutocrazie (dopo quello antifascista) e un cineasta avveduto gli presterà dovuto e puntuale ossequio.
Il pastrocchio prosegue colla compagnia di fuggiaschi che sfoggia a ogni fotogramma altissime (e altamente inverosimili) virtù morali: tutti aiutano tutti a rischio della vita; nessuno deruba nessuno; non ci sono liti né controversie per cibo e acqua; nessuno vuol derubare o danneggiare i civili incontrati lungo il cammino; quando incontrano una (ovviamente bella) ragazza fuggitiva la accolgono e la proteggono a proprio rischio senza che a nessuno sfiori la mente di pretendere in cambio prestazioni sessuali; quando qualcuno muore ha il buon gusto di cadere a terra e morire nell’arco di pochi minuti in modo che gli altri non debbano incrinare i propri elevati standard morali abbandonandolo durante l’agonia. E via scretinando. Il film si risolve in un quadretto di genere che non fa alcun tentativo di rappresentare realisticamente le problematiche psicologiche che sorgono in situazioni veramente estreme.
Nemmeno poteva mancare – scherziamo? – l’insopportabile happy end all’americana.
Nel contesto del polpettone anche la motivazione per proseguire il viaggio fino in India dopo essere arrivati in Mongolia e poi in Cina è assolutamente carente: qualsiasi persona ragionevole avrebbe puntato verso l’interno della Cina (all’epoca nazionalista e anticomunista) e lì si sarebbe rivolto alla prima rappresentanza commerciale o diplomatica occidentale.
Con i film americani raramente si sbaglia a buttarli nel cestino della spazzatura.
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ginopipillo
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venerdì 22 aprile 2016
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si volta pagina sulla storia.
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Finalmente esce in parte la verità, dopo 70 anni di film e documentari ossessivi sulla shoa e la "resistenza" e di silenzio sui crimini del comunismo.
I gulag non sono stati niente di meno grave dei lager nazisti, con la differenza che gli internati in Siberia non hanno mai avuto il potere economico degli ebrei, oltre al fatto che Stalin aveva vinto la guerra.
Una correzione importantissima è però che il GULag (l'organizzazione dell'arcipelago dei campi) l'ha inventato Lenin ed è andato avanti per molto tempo dopo la morte di Stalin (1953).
Quindi dare la colpa al criminale Stalin è troppo semplice; è il COMUNISMO la vera ideologia ed organizzazione a delinquere.
Lo dimostra il fatto che mentre la tv di stato ci annega nei presunti documentari su Hitler "per non dimenticare" e "perché non succeda mai più", nella Cina del 2016 ci sono i Laogai; cercate su Google questa parola e ne vedrete delle belle sulla crudeltà dell'ideologia comunista.
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Finalmente esce in parte la verità, dopo 70 anni di film e documentari ossessivi sulla shoa e la "resistenza" e di silenzio sui crimini del comunismo.
I gulag non sono stati niente di meno grave dei lager nazisti, con la differenza che gli internati in Siberia non hanno mai avuto il potere economico degli ebrei, oltre al fatto che Stalin aveva vinto la guerra.
Una correzione importantissima è però che il GULag (l'organizzazione dell'arcipelago dei campi) l'ha inventato Lenin ed è andato avanti per molto tempo dopo la morte di Stalin (1953).
Quindi dare la colpa al criminale Stalin è troppo semplice; è il COMUNISMO la vera ideologia ed organizzazione a delinquere.
Lo dimostra il fatto che mentre la tv di stato ci annega nei presunti documentari su Hitler "per non dimenticare" e "perché non succeda mai più", nella Cina del 2016 ci sono i Laogai; cercate su Google questa parola e ne vedrete delle belle sulla crudeltà dell'ideologia comunista. E leggete i meravigliosi saggi di Alexander Soljenitzyn e Varlam Salamov.
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