Foxy Festival

Leggiadra e divertita (e divertente) commedia sulle stravaganze della sessualità umana, Foxy Festival nasconde bene le sue ambizioni profonde. Le vicissitudini, sapientemente alternate, dei sei insospettabili (ognuno dei quali campione, in privato, di una passione sui generis: si va dall'austero insegnante appassionato della lingerie femminile all'ambulante che s'è costruito il suo nido d'amore con una -angosciosamente verisimile- bambola in lattice, passando per un'idilliaca -con accenti che talora paiono quasi fare il verso al Jeunet di Le Fabuleux destin d'Amélie Poulain- coppia sadomaso; per finire col poliziotto bestiale e fallocratico e con una delle tante ragazzine impegnate a rimpinguare la propria paghetta attraverso la vendita, più o meno diretta, più o meno consapevole, di sé) assorbono, infatti, a tal modo l'attenzione dello spettatore da relegare ad un piano di mera accidentalità gli stimoli alla riflessione critica, e di conseguenza alla verace comprensione umana, di cui pure abbonda la materia de qua. In altre parole, se l'intento di Hae-Young Lee fosse stato puramente (e cinicamente) quello di adoperare una tematica tanto scottante e pruriginosa, come quella delle cosiddette aberrazioni sessuali, per vellicare le parti basse del pubblico a strapparne il risus ineptus, l'obiettivo si potrebbe dire, senz'altro, felicemente raggiunto. Ma questo, a mio avviso, non era il (solo) fine di Foxy Festival. Traspare, infatti, qua e là, nel correre delle sequenze, uno squardo più coinvolto, una partecipazione emotiva più sentita nei confronti delle storie narrate, cha fa intendere come la volontà del regista fosse in realtà anche un'altra, e più nobile; e specialmente con riguardo alle due figure verosimilmente percepibili come le più "normali", le più vicine al pubblico: la ragazzina e il poliziotto. In particolare quest'ultimo, colla sua ansia da prestazione, malcelata dietro un apparente autocompiacimento, e colla sua ossessione, parimenti insicura, per le dimensioni della sua virilità, può essere letto come una sorta di monito a non credere che il canone della normalità, così per come esso risulta tradizionalmente imposto (e non per niente il personaggio è un poliziotto, ossia il tutore dell'ordine costituito!), sia poi sempre e comunque il migliore. E difatti, a parte l'immancabile catarsi conclusiva, a ben vedere quello la cui vita relazionale (e sessuale) appare come la più insoddisfacente (con una moglie che lo disprezza e che preferisce l'autoerotismo al suo kamasutra agonistico-acrobatico), è proprio lui, l'uomo "comune", il quivis e populo ortodossamente eterosessuale: e il detto biblico della pietra si dimostra sempre attuale. In conclusione, se vogliamo trovare una pecca nel film di Hae-Young Lee, che peraltro ha dalla sua, oltre alle molteplici e spassose trovate comiche e ad un'ottima fotografia, il non consueto pregio di muoversi su di un terreno assai lubrico con indubbia eleganza, senza mai scadere nel truculento e/o nel pornografico, è di essere semplicemente una (troppo) ben riuscita commedia.