veritasxxx
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giovedì 3 luglio 2014
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provaci ancora charlie
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Una bella gatta da pelare questo “Synecdoche, New York”. Ma sapendo che il signor Kaufman era alla sua prima prova alla regia dopo avere scritto la sceneggiatura di film belli e complicati come “Essere John Malkovich” e “Se mi lasci ti cancello”, c’era da aspettarsi un delirio di onnipotenza creativa fuori controllo. Il film è complesso e con molteplici sfaccettature, e lascerà la maggior parte degli spettatori meravigliati, disorientati, commossi. Forse annoiati, dopo due ore di (apparente) nonsense.
Sì, perché nel racconto è spesso poco chiaro quali eventi siano reali e quali siano sogno o immaginazione, come se fosse l’effetto provocato dallo stato alterato della mente di Caden, il protagonista, che ha evidentemente seri problemi di salute e di depressione e che vede la morte avvicinarsi inesorabile.
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Una bella gatta da pelare questo “Synecdoche, New York”. Ma sapendo che il signor Kaufman era alla sua prima prova alla regia dopo avere scritto la sceneggiatura di film belli e complicati come “Essere John Malkovich” e “Se mi lasci ti cancello”, c’era da aspettarsi un delirio di onnipotenza creativa fuori controllo. Il film è complesso e con molteplici sfaccettature, e lascerà la maggior parte degli spettatori meravigliati, disorientati, commossi. Forse annoiati, dopo due ore di (apparente) nonsense.
Sì, perché nel racconto è spesso poco chiaro quali eventi siano reali e quali siano sogno o immaginazione, come se fosse l’effetto provocato dallo stato alterato della mente di Caden, il protagonista, che ha evidentemente seri problemi di salute e di depressione e che vede la morte avvicinarsi inesorabile. La successione temporale degli eventi è parimenti intenzionalmente confusa. La chiave per la comprensione del film è il titolo stesso: la sineddoche è una figura retorica in cui una parte fa riferimento al tutto o il tutto a una parte (ad esempio “Inghilterra” al posto di “Regno Unito” o “la legge” invece de “la polizia”). Il teatro è una sineddoche, nella quale gli eventi sul palco rappresentano il mondo intero, e viceversa, il mondo può essere visto puramente come un teatro e la vita come una commedia. Il magazzino in cui Cotard costruisce la sua copia di New York lentamente diventa una sineddoche della sua esistenza e risulta progressivamente meno chiaro, nell’avanzare della storia, se gli eventi della vita di Caden siano recitati in scena, o se le scene della commedia vengano rappresentate nella vita reale del suo autore. L’opera teatrale di –pace all’anima sua- Philip Seymour Hoffman rappresenta quindi la sua vita e nel finale arriverà a seguire le indicazioni dell’assistente di scena attraverso un auricolare, addirittura obbedendo al suo comando finale: “Muori”.
Le trovate sono tante e tali che sarebbero bastate per fare non uno ma cinque film tanto originali da fare impallidire il resto della produzione Hollywoodiana. Ma sono così complesse e intrecciate tra di loro (l’attore che interpreta Caden nella commedia e tutti gli altri sosia dei personaggi reali hanno a loro volta altre copie e altre vite parallele che si confondono tra di loro) che il mal di testa è quasi inevitabile e l’iniziale entusiasmo per una storia così fuori dalle righe dopo un’ora comincerà a surriscaldare le meningi dello spettatore medio fino a farlo sentire non all’altezza di comprendere un racconto tanto intriso di significati filosofici e di riflessioni profonde sul senso dell’esistenza.
L’impressione personale, e qui sfioriamo il paradosso, è che al nostro bravo ex-sceneggiatore sia mancata una buona sceneggiatura. Forse era troppo preso dallo stare dietro alla macchina da presa e si è dimenticato che per tenere la gente due ore davanti ad uno schermo ogni tanto ci vuole un break per il loro povero cervellino stanco della settimana di lavoro, o almeno dei sottotitoli che spieghino meglio cosa sta succedendo. O il risultato è quello di creare un effetto zapping (ogni scena apparentemente sembra avere poco legame con quella precedente e la successiva), o un film alla Lynch - e in questo Mulholland Drive torna alla mente - tanto bello quanto complesso e bisognoso di visioni ripetute per essere compreso appieno. Si sarebbe potuto sfiorare il capolavoro con dei momenti tecnicamente “morti”, ma che favorissero l’identificazione con i protagonisti, pur nella tristezza delle loro vite insignificanti. E invece, si esce dal cinema confusi e un po’ stupidi, come dopo aver letto un saggio su Nietzsche senza averci capito molto.
Provaci ancora Charlie.
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jaylee
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martedì 1 luglio 2014
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la vita vista da dietro le quinte
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Gli scrittori scrivono per se stessi? gli attori recitano per se stessi? i registi dirigono per se stessi? Esiste un’arte fine a se stessa dove l’autore è il principale fruitore e gli altri sono spettatori dell’autore stesso?
Domanda a cui Charlie Kaufman, celebrato e originale sceneggiatore (suoi Se Mi Lasci Ti Cancello – titolo italiano da denuncia penale – Confessioni di Una Mente Pericolosa e Essere John Malkovich) cerca di dare una risposta sia all’interno del film, sia come scelta narrativa. Se la cosa vi può sembrare non chiara, infatti non lo è: Synecdoche, New York, il cui titolo (fusione di Shenectady, dove si svolge l’inizio del film, e la forma retorica Sineddoche) è già ermetico, non è un film semplice.
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Gli scrittori scrivono per se stessi? gli attori recitano per se stessi? i registi dirigono per se stessi? Esiste un’arte fine a se stessa dove l’autore è il principale fruitore e gli altri sono spettatori dell’autore stesso?
Domanda a cui Charlie Kaufman, celebrato e originale sceneggiatore (suoi Se Mi Lasci Ti Cancello – titolo italiano da denuncia penale – Confessioni di Una Mente Pericolosa e Essere John Malkovich) cerca di dare una risposta sia all’interno del film, sia come scelta narrativa. Se la cosa vi può sembrare non chiara, infatti non lo è: Synecdoche, New York, il cui titolo (fusione di Shenectady, dove si svolge l’inizio del film, e la forma retorica Sineddoche) è già ermetico, non è un film semplice.
Caden Cotard, regista di provincia, viene abbandonato dalla moglie, che si trasferisce a Berlino con la figlia; vince però un importante vitalizio per meriti artistici, che gli darà la possibilità di mettere in piedi uno spettacolo che durerà tutta la vita, ricreando la sua vita in una Shenectady in miniatura (seppure enorme, ed ecco il riferimento alla Sineddoche di cui sopra) all’interno di un magazzino. All’interno vi recitano tutte le persone della propria vita (sulla base dei suoi input), alla fine sostituirà anche se stesso, per poi infine prendere lui stesso un ruolo completamente diverso.
Valeva davvero la pena recuperare al cinema un film del 2008 come questo, o si è trattato di un’operazione “commerciale” (ed il termine è assolutamente inappropriato visto questo film, vi assicuriamo) per sfruttare la performance di uno dei migliori attori degli ultimi vent’anni, Philip Seymour Hoffman, e scomparso quest’anno? Difficile essere definitivi, ma probabilmente questo secondo aspetto ha influito molto: si tratta di un film dallo sviluppo spesso incomprensibile, con un inizio più realistico e una seconda parte dove, attraverso l’espediente della malattia (degli occhi) avvenimenti, cronologia, elementi visivi (vedi la casa in fiamme di Hazel) trascendono la verosimiglianza con la realtà, quasi fosse un “realismo magico” di Marqueziana memoria. Peraltro, nota di merito per un cast femminile assolutamente stellare (Catherine Keener nella parte della moglie, Samantha Morton nell’eterna amante Hazel, e poi Jennifer Jason Leigh, Emily Watson, Hope Davis…).
In qualche modo, Synecdoche, New York esemplifica perché non tutti gli sceneggiatori diventano registi: il film si presenta come un luna park di intuizioni e filoni narrativi, dove evidentemente Kaufman ha dato sfogo a tutta la sua fantasia (e qui ci sono idee degne del miglior David Lynch), ma in un modo che alla fine risulta poco organico rispetto alla narrazione stessa. E, sebbene sia bella l’idea come possa essere irresistibile crearsi un mondo parallelo dove tutto va come lo desideri; nonostante alcuni dialoghi davvero notevoli che risuonano profondi e amarognoli (e qui è il marchio di fabbrica di Kaufman); ebbene, il prodotto finale risulta parecchio cerebrale e indigesto, laddove manca quasi una sintesi complessiva, che evidentemente è il lavoro del regista. E, nonostante non si possa non rimanere impressionati dalla quantità di idee e di potenziale (inespresso), qui non ci siamo, sorry.
Con una metafora scolastica, visto il periodo: non so se sia rivedibile (io non me la sentirei, almeno in tempi brevi), ma di certo più che rimandato. (www.versionekowalski.it)
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pepito1948
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martedì 1 luglio 2014
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l'uomo e la sua moltitudine
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La sineddoche è una figura retorica con cui un’espressione (o parola) può essere sostituita da altra senza alterarne il significato do fondo, con il semplice cambio di una o più elementi. Applicata alla figura umana, essa ci dice che l’uomo è moltitudine, è un fascio di essenze, una pluralità di facce ognuna delle quali può esprimere il tutto, lo stesso tutto. Il tutto si sdoppia, si ricompone per mostrare un altro sé dal sé di prima, in una girandola di mutanti tutti diversi ma tutti veri perché fanno parte della stessa realtà umana. Stretta parente è un’altra figura, l’ossimoro, che esprime un principio di vita basilare come la dinamica degli opposti, delle contraddizioni che caratterizzano i nostri movimenti interni.
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La sineddoche è una figura retorica con cui un’espressione (o parola) può essere sostituita da altra senza alterarne il significato do fondo, con il semplice cambio di una o più elementi. Applicata alla figura umana, essa ci dice che l’uomo è moltitudine, è un fascio di essenze, una pluralità di facce ognuna delle quali può esprimere il tutto, lo stesso tutto. Il tutto si sdoppia, si ricompone per mostrare un altro sé dal sé di prima, in una girandola di mutanti tutti diversi ma tutti veri perché fanno parte della stessa realtà umana. Stretta parente è un’altra figura, l’ossimoro, che esprime un principio di vita basilare come la dinamica degli opposti, delle contraddizioni che caratterizzano i nostri movimenti interni.
Caden è questo, è uomo molteplice pieno di contraddizioni, che vive diversamente i rapporti con le “sue” donne, è un regista di successo di una compagnia teatrale, che dirige i suoi lavori con autorevolezza ma non riesce a dirigere se stesso, vaga sperdendosi in relazioni che non lasciano il segno e in un tempo di cui sembra aver smarrito la percezione, è solo in mezzo a moglie in fuga, psicologhe evanescenti, figlie perdute e presto sfiorite come un petalo viola che si stacca da un ormai freddo tatuaggio floreale, attori ed assistenti in perenne attesa della sua prossima mossa. Caden cerca di dilatare l’attesa della morte –dondolandosi tra l’ansia del rinvio e la consapevole immanenza-, ai cui richiami risponde con manifeste somatizzazioni ipocondriache, cercando affannosamente di dare un senso agli ultimi sprazzi di vitalità e di uscire di scena con un grande colpo finale. Improvvisa quindi uno spettacolo in un enorme capannone, in cui attori e personaggi, in un intricato gioco di scatole cinesi, si scindono e si ricompongono, e lui stesso dà la sua parte ad un clone in carne ed ossa che agisce, recita e dirige come lui ed al suo posto, secondo un processo di sdoppiamenti in cui teatralità e realtà si invadono in un’aura di sospensione. Io sono io e qualcun altro è me, perchè sa interpretarmi meglio di quanto io non sappia fare, sembra dirci pirandellianamente. Caden presagisce l’epilogo quando il suo clone scompare, la performance si allunga senza conclusione, conquista un’intesa rassicurante con una donna che sembrava destinata ad essere solo di passaggio, e affida l’ultimo se stesso, ormai ridotto a comparsa, a colei che lo dirigerà, quasi come un robot, sino alla fine, non senza aver conosciuto nel tratto finale del suo cammino il destino amaro delle presenze importanti della sua irrisolta vita.
E’ un film che non consente confronti, la cui estrema complessità impedisce di seguire passo passo lo svolgersi multilineare della narrazione, se non per sequenza di sensazioni, come una linea fatta di punti separati che alla fine acquista una sua contituità significativa. E’ un film struggente come lo è la figura grossa, panciuta, goffa ma maestosa di Seymour Hoffmann, che ha chiuso la sua vita cinematografica nella rappresentazione bellissima nella sua triste tragicità di un preludio di ciò che sarà qualche anno dopo. Rivediamo l’Hoffman di Magnolia che assiste il vecchio Jason Robards –già gravemente malato- sul letto di morte, mentre sotto ossigeno ripercorre la sua travagliata vita; qui l’immagine si capovolge, e Caden ormai prossimo al traguardo respira le ultime boccate di ossigeno, assorto come davanti allo schermo senza sonoro di una sala vuota e in penombra: fine del percorso, fine della sineddoche, fine del vissuto. Formidabile.
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enzo70
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lunedì 30 giugno 2014
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viaggio profondo nel dolore della vita
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Bisogna prepararsi prima di andare al cinema, prendere fiato, vedere Synecdoche è come leggere l’Ulisse di Joyce, è un’immersione nella dimensione della vita, nelle sue contraddizioni. Nulla è semplice, la prima mezz’ora ha una certa linearità, ma poi il film prende la strada della vita, si inerpica, diventa difficile trovare il bandolo della matassa, la coerenza si trova solo nel rigore del dolore e della continua ricerca del tempo perduto, che si perde e che si perderà. La morte diventa il filo conduttore di una vita che si trascina tra mille bivi, di cui difficilmente ne capiamo la ragione. Caden, il protagonista, impersonato da un maestoso Philip Seymour Hoffman, è un autore teatrale che dopo aver vinto un prestigioso premio decide di investire tutto se stesso nella produzione di uno spettacolo teatrale dove proporre una sintesi della sua vita e di quella dei suoi coprotagonisti, le persone che ha amato, anzi tutto la figlia.
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Bisogna prepararsi prima di andare al cinema, prendere fiato, vedere Synecdoche è come leggere l’Ulisse di Joyce, è un’immersione nella dimensione della vita, nelle sue contraddizioni. Nulla è semplice, la prima mezz’ora ha una certa linearità, ma poi il film prende la strada della vita, si inerpica, diventa difficile trovare il bandolo della matassa, la coerenza si trova solo nel rigore del dolore e della continua ricerca del tempo perduto, che si perde e che si perderà. La morte diventa il filo conduttore di una vita che si trascina tra mille bivi, di cui difficilmente ne capiamo la ragione. Caden, il protagonista, impersonato da un maestoso Philip Seymour Hoffman, è un autore teatrale che dopo aver vinto un prestigioso premio decide di investire tutto se stesso nella produzione di uno spettacolo teatrale dove proporre una sintesi della sua vita e di quella dei suoi coprotagonisti, le persone che ha amato, anzi tutto la figlia. Incapace di odiare, Caden, accetta passivamente le sorti che la vita gli riserva, reagisce sempre e solo interiorizzando le cose, gli amori, le delusioni. Lo sfogo è un’opera omnia che non andrà in scena, ma non si sa, questo film è da vedere e rivedere, con gli occhi delle stagioni della vita, quelle che Caden ripercorre, impassibile. Kaufman non fa un film complesso, propone una sintesi della cultura dell’occidente, partendo dalla tragedia greca, dove la volontà dell’uomo è sottomessa alle volontà del fato. Ma anche il volo quasi pindarico sulla cultura dei sensi di colpa, andrebbe approfondita la confessione della propria omosessualità alla figlia morente, e le ricorrenti citazioni dei grandi maestri della letteratura internazionale, da Kafka a Dostoesvskij, ne testimoniano la sostanza. Sullo sfondo New York, il cuore pulsante della vita dell’uomo moderna, irreale nella rappresentazione di Kaufman, ma che comunque reclama la sua funzione ineludibile funzione di regina del cinema. Non si capisce perché questo capolavoro del 2008 sia passato nelle sale cinematografiche italiane solo dopo la morte di Hoffman; e seri dubbi sotto questo profilo nascono sulla scelte distributive. Ma alla fine rimane il miglior saluto con il quale uno dei più grandi attori di sempre poteva salutare il suo incantato pubblico.
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elettrasammarco
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venerdì 27 giugno 2014
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un po' pletorico
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Per superare la sua crisi d’identità artistica, Caden Cotard (P. Seymour Hoffmann), un noto regista teatrale, decide di mettere in scena la sua vita e i suoi fallimenti umani: l’abbandono da parte di sua moglie Adele, che si trasferisce a Berlino con la loro bambina; una relazione naufragata sul nascere con una donna, Hazel, che gli rimarrà nel cuore per sempre; una storia d’amore con la sua prima attrice, e poi le sue malattie psicosomatiche, le ipocondrie, la costante paura della morte che è in realtà visione anticipatrice dell’inesorabile. La messa in scena avverrà in tempo reale: durerà una vita, tanto quanto la vita di Caden, e sarà indistinguibile dalle prove (forse un omaggio a Grotowski, peraltro citato nel film, e alla sua predilezione per le prove rispetto allo spettacolo in sé).
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Per superare la sua crisi d’identità artistica, Caden Cotard (P. Seymour Hoffmann), un noto regista teatrale, decide di mettere in scena la sua vita e i suoi fallimenti umani: l’abbandono da parte di sua moglie Adele, che si trasferisce a Berlino con la loro bambina; una relazione naufragata sul nascere con una donna, Hazel, che gli rimarrà nel cuore per sempre; una storia d’amore con la sua prima attrice, e poi le sue malattie psicosomatiche, le ipocondrie, la costante paura della morte che è in realtà visione anticipatrice dell’inesorabile. La messa in scena avverrà in tempo reale: durerà una vita, tanto quanto la vita di Caden, e sarà indistinguibile dalle prove (forse un omaggio a Grotowski, peraltro citato nel film, e alla sua predilezione per le prove rispetto allo spettacolo in sé). I personaggi si moltiplicano e così gli attori che li rappresentano, e nello spazio teatrale che li contiene una specie di hangar abbandonato le scenografie che ripetono gli interni e gli esterni delle esperienze di Caden crescono le une sulle altre in un work in progress mai compiuto. Caden cerca se stesso negli attori che mettono in scena la sua vita, ma l’unica verità che riesce a trovare è che lui è uguale a tutti gli altri esseri umani. Che non è l’essere speciale che si è sempre creduto. È l’uno per tutti, l’uno come tutti, la parte per l’intero. Lui è solo la sineddoche dell’intera umanità.
Synecdoche, New York è un opera complessa, che non lascia indifferenti. Un senso di morte, di perdita, di inutile attesa si leva dal film come nebbia, alimentata da un simbolismo stravagante, spesso riuscito: penso alla casa perennemente in fiamme dove Hazel va a vivere accettando il rischio/destino di morte; alle deiezioni su cui si focalizzano l’ipocondria di Caden e la sua ossessione per il disfacimento; ai biglietti lasciati alla donna di servizio attraverso cui comunicano Caden e Adele, corrispettivi della assurda traduzione simultanea dal tedesco a cui ricorre Caden nell’ultimo colloquio con la figlia ormai adulta: filtri comunicativi, in entrambi i casi, che sono markers di una distanza incolmabile tra gli esseri umani (peccato che proprio nella scena dell’addio alla figlia, una delle più dolorose, una gag surrealista raggeli il pathos con una inopinata allusione ad una omosessualità di Caden che non trova altri appigli nel resto del film).
Sprazzi di dadaismo, non-sense, indizi che non portano da nessuna parte. Ma in questo primo e finora unico film di Charlie Kaufman, sceneggiatore di film culto di Jonze e Gondry, c’è anche la vita come superfetazione di esperienze senza filo rosso né direzione, il teatro grotowskianamente inteso come simbiosi tra regista e attore, il destino mortale come unico vero trait-d’union tra gli esseri umani. C’è molto in questo film, e nel cinema il molto e il troppo in genere coincidono; ma è anche vero che qui il sovrappiù non è tanto nei temi quanto nei modi di una narrazione che procede accumulando eventi con una rapidità che ricorda i veloci cambi di scena delle esperienze oniriche. Potrebbe essere una scelta di stile, se non fosse che la rapidità spesso è tale da non lasciare a chi guarda il tempo dell’immedesimazione, della sedimentazione, della partecipazione emotiva. A volte subentra una noia da eccesso di eventi e microeventi non sempre necessari, a volte pletorici, generata non dalla lentezza ma dalla velocità. E finisce che a volte si ha l’impressione di assistere non ad un film, ma al suo trailer.
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flyanto
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venerdì 27 giugno 2014
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la vita di un regista teatrale da lui stesso racco
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Film in cui si racconta di un regista teatrale di successo (Philip Seymour Hoffman) che però entra profondamente in crisi sia professionalmente che sentimentalmente, dopo l'abbandono ed il trasferimento a Berlino da parte della moglie pittrice (Catherine Keener) e della loro bambina di 5 anni. Nel corso degli anni a seguire (circa un ventennio) egli, peraltro affetto da una grave e misteriosa malattia che gli fa presagire fortemente il senso della morte, cerca di allestire in un teatro di New York un'opera teatrale che altro non è che il racconto della propria esistenza e soprattutto del proprio rapporto con, l'ormai divenuta ex, moglie. Nel frattempo egli vivrà malamente una breve storia d'amore con la propria assistente e poi contrarrà un matrimonio fallimentare con la bella attrice delle sue commedie che gli darà anche una bambina.
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Film in cui si racconta di un regista teatrale di successo (Philip Seymour Hoffman) che però entra profondamente in crisi sia professionalmente che sentimentalmente, dopo l'abbandono ed il trasferimento a Berlino da parte della moglie pittrice (Catherine Keener) e della loro bambina di 5 anni. Nel corso degli anni a seguire (circa un ventennio) egli, peraltro affetto da una grave e misteriosa malattia che gli fa presagire fortemente il senso della morte, cerca di allestire in un teatro di New York un'opera teatrale che altro non è che il racconto della propria esistenza e soprattutto del proprio rapporto con, l'ormai divenuta ex, moglie. Nel frattempo egli vivrà malamente una breve storia d'amore con la propria assistente e poi contrarrà un matrimonio fallimentare con la bella attrice delle sue commedie che gli darà anche una bambina.
Il film, opera prima cinematografica del già affermato e talentuoso sceneggiatore Charlie Kaufman, è una pellicola di per sè di non facile approccio e dunque un pò complessa sia per la maniera in cui è girata che per le tematiche espressevi. Kaufman, del resto, non risulta assolutamente mai un autore banale e come nelle sue opere sceneggiate precedenti (vedi: "Essere John Malkovich" e "Se mi lasci ti cancello", per citarne solo due) denuncia un'originalità ed una fantasia al di fuori del comune e pertanto non di impatto e di comprensione diretti. Anche in questa occasione, egli continua così ad altalenare realtà e finzione, il vissuto e l'immaginato, il presente ed il passato seguendo una suo pensiero del tutto personale. E questo suo continuo modo altalenante costituisce in pratica l'elemento che nettamente lo contraddistingue e che caratterizza appunto tutte le sue produzioni.
E' da sottolineare e da elogiare, poi, senza alcun dubbio il nutrito cast di attori che è stato da Kaufman scelto per i vari ruoli: dall'ormai deceduto Philip Seymour Hoffman, a Catherine Keeener, a Emily Watson, a Samantha Norton a Michelle Williams, a Dianne Wiest non si può non ammirare e constatare che tutti indistintamente, nessuno escluso, sono perfettamente tagliati per i propri ruoli di cui danno una profonda e quanto mai completa rappresentazione e dunque riuscita. Anzi, è proprio grazie a tutti loro che questo film si arricchisce notevolmente di pregio.
Insomma, direi, in generale altamente interessante.
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zoom e controzoom
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venerdì 27 giugno 2014
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andare dentro cercando
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Film molto difficile perchè non immediato. Capita sempre più di rado trovare film con contenuti così intimistici e complessi. Sono produzioni che rischiano di brutto perchè non fanno certo cassetta. Entrare nella piccola sala dov'era proiettato, se la scelta prima poteva far pensare ad una reclusione limitata per il solito numero di sfigati, vedere poi quanti e quale tipologia di persone era già pronta per godersi il film, è stato molto piacevole..come pensare : be' dai, ci siamo ancora e non siamo nè in pochi, nè i soliti e tantomeno gli sfigati. Pubblico vario e attento dunque, che si è lasciato trasportare per due ore all'interno di una storia che prima del plot, non si riusciva ad afferrare che cosa volesse da noi spettatori per tormentarci tanto trascinandoci nei meandri ripetitivi della vita.
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Film molto difficile perchè non immediato. Capita sempre più di rado trovare film con contenuti così intimistici e complessi. Sono produzioni che rischiano di brutto perchè non fanno certo cassetta. Entrare nella piccola sala dov'era proiettato, se la scelta prima poteva far pensare ad una reclusione limitata per il solito numero di sfigati, vedere poi quanti e quale tipologia di persone era già pronta per godersi il film, è stato molto piacevole..come pensare : be' dai, ci siamo ancora e non siamo nè in pochi, nè i soliti e tantomeno gli sfigati. Pubblico vario e attento dunque, che si è lasciato trasportare per due ore all'interno di una storia che prima del plot, non si riusciva ad afferrare che cosa volesse da noi spettatori per tormentarci tanto trascinandoci nei meandri ripetitivi della vita. Hoffman sempre bravissimo nella sua mollezza che non dà tregua alla ricerca della logica, ha fatto molto rimpiangere la sua morte. Caspita, ma se questo era anche il suo tormentato percorso di vita, come non pensare che tale fatica di vivere, non poteva che essere sostenuta da qualche cosa fuori dalle regole ? Ma forse lui era solo un bravo attore, un eccellente interprete di una difficoltà di vivere dove la lentezza delle azioni è necessaria per poterci sprofondare dentro : perchè ogni cosa ha un perchè, ogni cosa ha il suo peso ed è questo peso che crea la ricerca della ragione di vivere. Se la trama del film può essere semplificata, non lo è con il racconto dello snodarsi degli avvenimenti che si accavallano gli uni sugli altri. Il primo salto temporale, fa pensare ad un'impostazione metafisica, ma non è così: il regista ha scelto di non scegliere gli schemi usabili per procedere per flashback tecnicamente invisibili. Così il tempo passa per "balzi" enormi, salta la normalità, per restare strenuamente avviluppato alla ricerca di sè attraverso la proiezione di sè sugli altri.E così passano gli anni.
Forse non era necessario prolungarlo ancora per molto, quando a 4/5 si chiarisce del tutto il senso dei personaggi e del loro percorso; forse aveva bisogno più di un'accellerazione che di dimostrazioni che spiegavano il loro precedente procedere. Era già stato svelato tutto ed era sufficiente. Un film importante che andrebbe rivisto..con una buona dose di coraggio se si pensa di poter affrontare allo stesso modo, una volta afferrate, con le medesime modalità, per capire cosa ci stiamo a fare nella vita.
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(di vapor)
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filippo catani
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lunedì 23 giugno 2014
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il teatro della vita
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Uno sceneggiatore teatrale, a seguito del suo ultimo successo teatrale, vince un importante premio che gli mette a disposizione una forte somma di denaro. L'uomo decide allora di lanciarsi in una nuova produzione che dovrà rappresentare la sua vita. Nel frattempo lo sceneggiatore viene abbandonato dalla moglie che va a Berlino con la figlia.
Senza dubbio un film difficile ma questo non deve assolutamente scoraggiare lo spettatore. Certo Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello si seguivano decisamente meglio. Quì Kaufman mette letteralmente in scena la vita e l'impossibilità di rappresentarla in quanto essa è sempre in continua evoluzione e non può mai essere imbrigliata.
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Uno sceneggiatore teatrale, a seguito del suo ultimo successo teatrale, vince un importante premio che gli mette a disposizione una forte somma di denaro. L'uomo decide allora di lanciarsi in una nuova produzione che dovrà rappresentare la sua vita. Nel frattempo lo sceneggiatore viene abbandonato dalla moglie che va a Berlino con la figlia.
Senza dubbio un film difficile ma questo non deve assolutamente scoraggiare lo spettatore. Certo Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello si seguivano decisamente meglio. Quì Kaufman mette letteralmente in scena la vita e l'impossibilità di rappresentarla in quanto essa è sempre in continua evoluzione e non può mai essere imbrigliata. Soprattutto non si può vivere seguendo un copione. Ad un certo punto ai personaggi principali si sovrappongono attori che interpretano attori e via dicendo. Un film che riflette anche sull'amore e sugli affetti familiari e che dissemina anche momenti di sana ironia. Questa pellicola non fa che aumentare il rammarico per la tragica e prematura scomparsa di Seymour Hoffman anche quì semplicemente strepitoso nella sua interpretazione anche se tutto il resto del cast non sfigura affatto. Arrivato in Italia con sei anni di ritardo e mandato allo sbaraglio nel periodo estivo, tutto questo ci interroga per l'ennesima volta sulla distribuzione made in Italy: che si volesse provare a sfruttare l'onda emotiva della scomparsa di Hoffman? A pensar male a volte ci si azzecca. Un film comunque da vedere almeno un paio di volte per poterne apprezzare a pieno il contenuto.
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vincenzo ambriola
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venerdì 20 giugno 2014
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virtualità visionaria
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La vita di Caden, un affermato regista teatrale, è sconvolta dall'abbandono della moglie e della figlia che si trasferiscono a Berlino. Inizia così un calvario scandito da malattie vere e immaginarie, relazioni affettive accettate e vissute senza entusiasmo. Il tutto all'interno di un grandioso progetto teatrale che si protrae per un ventennio, senza mai andare in scena. I temi affrontati in questo film da Kaufman sono numerosi: la depressione, il rapporto con la morte e con il corpo, la schizofrenia e l'ossessione ripetitiva, lo stesso concetto di cinema e di teatro. Colpisce la costruzione logica della trama, con l'iniziale replica dei personaggi reali con attori che li interpretano, con il successivo scambio tra attori e personaggi, fino ad arrivare all'eliminazione della realtà a favore della finzione.
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La vita di Caden, un affermato regista teatrale, è sconvolta dall'abbandono della moglie e della figlia che si trasferiscono a Berlino. Inizia così un calvario scandito da malattie vere e immaginarie, relazioni affettive accettate e vissute senza entusiasmo. Il tutto all'interno di un grandioso progetto teatrale che si protrae per un ventennio, senza mai andare in scena. I temi affrontati in questo film da Kaufman sono numerosi: la depressione, il rapporto con la morte e con il corpo, la schizofrenia e l'ossessione ripetitiva, lo stesso concetto di cinema e di teatro. Colpisce la costruzione logica della trama, con l'iniziale replica dei personaggi reali con attori che li interpretano, con il successivo scambio tra attori e personaggi, fino ad arrivare all'eliminazione della realtà a favore della finzione. Un processo estremizzato, certamente, che riprende il tema dell'estraneazione e dell'abbandono, in una società che sempre più predilige gli avatar, le proiezioni virtuali nelle reti sociali, l'interazione remota a quella diretta. Girato nel 2008, quando questi fenomeni erano allo stato embrionale, Synecdoche anticipa la sostituzione di una parte della persona (virtuale) con il tutto (fisico e spirituale).
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mauro lanari
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sabato 27 aprile 2013
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l'ombelico d'un tutto qualunque.
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"È un'opera di una fine. Non è un'opera solo di morte. Riguarda tutto. Fine, nascita, morte, vita, famiglia... Tutto". Ossia riguarda l'ombelico d'un'esistenza basata però su valori più che insulsi: su dei disvalori. Davvero è di un qualche interesse l'immedesimarsi e magari anche l'emozionarsi per la ricerca dell'identità da parte d'un soggetto che spaccia il proprio nulla per il tutto? Cosa mai meriterebbe di essere salvato nell' e dell'universo kaufmaniano? Io continuo a non saperlo da ormai troppi suoi film/soggetti/sceneggiature. Ma con l'arzigogolio fra loop e ricorsività frattali o meno, uno si trastulla con plot e script lasciandosi fregare, così dicono, ch'è un piacere. Psicosi, fobie, ossessioni, vaneggiamenti, bramosie e preoccupazioni d'un tizio qualunque e qualunquista che, per fortuna (mia), rappresenta solo se stesso, completamente privo di spessore generale, antropico e cosmico.
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"È un'opera di una fine. Non è un'opera solo di morte. Riguarda tutto. Fine, nascita, morte, vita, famiglia... Tutto". Ossia riguarda l'ombelico d'un'esistenza basata però su valori più che insulsi: su dei disvalori. Davvero è di un qualche interesse l'immedesimarsi e magari anche l'emozionarsi per la ricerca dell'identità da parte d'un soggetto che spaccia il proprio nulla per il tutto? Cosa mai meriterebbe di essere salvato nell' e dell'universo kaufmaniano? Io continuo a non saperlo da ormai troppi suoi film/soggetti/sceneggiature. Ma con l'arzigogolio fra loop e ricorsività frattali o meno, uno si trastulla con plot e script lasciandosi fregare, così dicono, ch'è un piacere. Psicosi, fobie, ossessioni, vaneggiamenti, bramosie e preoccupazioni d'un tizio qualunque e qualunquista che, per fortuna (mia), rappresenta solo se stesso, completamente privo di spessore generale, antropico e cosmico. Come di regola in casi del genere, il grandioso formalismo della messa in atto è direttamente proporzionale alla voraginosa vacuità dei contenuti.
L'ottusa ideologia dei falsi massimi sistemi di Kaufman ha origini molto più antiche del familiarismo borghese. La duplice maledizione antiedenica colpisce prole e terra ([www.laparola.net/testo.php?riferimento=Genesi3,16-19&versioni%5B%5D=C.E.I.] Genesi 3, 16-19), il che non è affatto 'sto gran male, visto che l'una e l'altra condanna mirerebbero invece a farci evitare l'alienazione del derubricare il nostro desiderio d'espansione temporale e spaziale dall'essere egocosmico all'avere, l'avere per l'appunto quella precisa coppia di surrogati (tempo=discendenza; spazio=terra promessa). I veri guai vengono invece subito dopo, col presunto rimedio che di fatto è peggiore del presunto danno, ossia con quanto offerto ai patriarchi postdiluviani, da Noè con moglie, 3 figli e l'attracco presso un nuovo paese, ad Abramo in (www.laparola.net/testo.php?riferimento=Genesi12,7&versioni%5B%5D=C.E.I.) Genesi 12, 7, Isacco in (www.laparola.net/testo.php?riferimento=Genesi26,1-4&versioni%5B%5D=C.E.I.) Genesi 26, 1-4, Giacobbe in (www.laparola.net/testo.php?riferimento=Genesi35,10-12&versioni%5B%5D=C.E.I.) Genesi 35, 10-12, ecc.
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