Shall We Dance?

Paolo D'Agostini

Perché non dirlo se un film ha la grazia e il garbo del passatempo che non pretende di più ma non è stupido, non è volgare, investe i sentimenti umani comuni e quindi non vuole strabiliare con alcun effetto speciale ma non cede al ricatto del piagnisteo o della sdolcinatezza, ed è realizzato con perizia?
Diciamolo, dunque, di Shall We Dance?. Dove Richard Gere non è più il principe azzurro di Pretty Woman ma un bravo professionista e un buon marito e padre di famiglia. Che nel trascorrere sereno e lineare della propria vita cede, una sera al ritorno dall'ufficio, alla tentazione di fare una cosa che mai avrebbe immaginato di fare. Si iscrive a una scuola di ballo. Non lo dice a nessuno perché se ne vergogna un po', e questo crea l'equivoco per cui sua moglie Susan Sarandon gli sguinzaglia dietro due detective privati. Non c'è alcun tradimento, anche se la maestra di ballo è Jennifer Lopez, c'è anzi il desiderio di rendere una vita già felice ancor più felice ma senza il coraggio di condividere questa piccola follia.
La gran parte della piacevolezza del film è nel microcosmo di normale e allo stesso tempo straordinaria follia che popola la scuola di ballo. Soprattutto un pirotecnico Stanley Tucci, collega del protagonista, che alla vita non chiede altro se non spogliarsi dei grigi abiti dell'executive per lanciarsi in pista, parrucca corvina e fasciante costume pieno di strass, in un indiavolato cha cha cha. Esiste il cinema fatto per ricordare i problemi, ed esiste anche quello che li fa dimenticare.
Da La Repubblica, 29 ottobre 2004


di Paolo D'Agostini, 29 ottobre 2004