Irene Bignardi
La Repubblica
Bonnie e Clyde e la droga. Così più o meno sembrano e si sentono gli eroi sciagurati di Drugstore Cowboy, il film di Gus Van Sant che arriva sugli schermi italiani dopo una lunga anticamera e dopo aver creato negli Stati Uniti un piccolo ma autorevole club di ammiratori. Gus Van Sant èun regista specializzato sin dal suo primo film(Mala no-che, una storia d’amore tra emarginati) in storie difficili.
Per Drugstore Cowboy si è ispirato a una storia vera e al libro inedito di James Vogel, un detenuto nel carcere di Walla Walla che ha raccontato la sua esperienza di droga e di delinquenza. L’epoca è quella dei primi anni settanta, prima del crack, dell’Aids, della estrema violenza che ha regolarmente finito per accompagnarsi alla droga. Siamo in tempi di ideologia e di mitologia della droga, più che di brutale realtà quotidiana. E non a caso, tra gli attori del film, Gus Van Sant ha immesso un frammento vivente di questa cultura, invitando William Burroughs a interpretare con molta ironia il ruolo di un sacerdote che ha scelto la vita del tossico, e che rappresenta l’ultima tentazione del protagonista nel suo tentativo di tirarsene fuori. I moderni Bonnie e Clyde della droga sono Matt Dillon e Kelly Lynch, giovani, belli e dannati, che, assieme a due amici psicolabili persino più di loro, percorrono nel 1971 le strade e le cittadine dell’Oregon razziando le infermerie degli ospedali e le farmacie delle pillole che rappresentano il loro nutrimento, il loro paradiso e il loro inferno.
Gus Van Sant non ci infligge o quasi dettagli di buchi o di orrore quotidiano. Gli sta maggiormente a cuore la registrazione quasi fenomenologica di un furore autodistruttivo che, almeno nei suoi personaggi, nasce da una visibile incapacità a crescere e, insieme, dal desiderio di sembrare adulti ed eroici. Mentre in realtà Matt e compagni sono disordinati e monomaniacali, litigiosi e deboli, banali e superstiziosi (guai lasciare un cappello sul letto...). La struttura che hanno scelto per la banda riproduce la famigliola nucleare e reinventa l’autorità paterna. Non hanno un filo di ironia e sono in compenso involontariamente comici. Ma trasmettono credibilmente la ragione per cui stanno bruciando la loro vita dietro alla droga. Si chiama piacere, e solo il fatto che il film sia ambientato vent’anni fa, quando la droga non era ancora una malattia sociale endemica e i suoi effetti dunque erano meno devastanti, lo fa sembrare tanto seducente agli occhi della gang.
Nel suo asciutto cinema tutto cose, che non si prova mai a esprimere un giudizio, ma solo a descrivere, Van Sant riesce a ottenere un’ottima prestazione anche da un attore come Matt Dillon, sinora noto più per la bellezza che per la bravura. E il cammeo di Burroughs ha la forza di uno sberleffo che arriva dritto dritto dalla realtà. L’autore di Il pasto nudo non è stato un gran sacerdote del rito della droga?
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996