Jake, condannato per l’omicidio della moglie, sta scontando i restanti anni della sua lunga detenzione in una prigione dello stato di New York. Convocato dal direttore del carcere, Jake sarà testimone di un’allettante proposta: suo figlio, Jesus, astro nascente del basket, a due mesi dal diploma e ad una settimana dalla scelta del college, deve essere persuaso nello scegliere la Big State University, istituto caro e vicino al Governatore dello stato, che in cambio ridurrebbe non di poco la durata della pena.
Spike Lee con questo film cita in giudizio la morale della nostra società, e a sentenziare il verdetto saremo noi, la società stessa. Le pressioni che il protagonista deve sopportare per la scelta finale, l’interessamento dei molti, non sono neppure in minima parte una forma di filantropia, anzi, sono egoismo allo stato puro, il buon Jesus stesso vi dirà cosa ne pensa. Tutte le difficoltà emergono da sé, i conflitti, i contrasti, non hanno nulla di criptato o ostico per il comprendonio generale, anzi, masticano una lingua alla portata di tutti, e badate bene, non ho detto molti, ma tutti, cosicché ognuno di noi possa trarre la medesima conclusione.
Lo sport, il basket per essere esatti, altro non è se non un mezzo per raccontarci una storia ben diversa, per diffondere un messaggio ben diverso. Questo non è un film sul basket, non è un semplice film che parla del riscatto di un nero cresciuto in una famigli disagiata, no. Questo è un film drammatico all’ennesima potenza, non ci scappa la lacrima, certo, ma di sicuro un sorriso è l’ultima cosa che pensereste di fare. Diciamo che il basket è come se fosse un campo, dove si sfidano la finzione cinematografica e la critica morale.
Denzel Washington nei panni di Jake non esalta, piatta e lineare la sua performance, colpa forse di un personaggio che si deprotagonizza da sé a favore dell’intero spettacolo. Bene invece per l’allora giovane Milla Jovovich, il talento lo si scorge seppur appaia per breve tempo. Ray Allen si commenta da solo: Mr. Candymanrecita da dio, consci del fatto che lui in realtà non sia nato per fare l’attore, anzi…
Spike Lee in questo film si contraddice. Una volta a Milano disse: “Ho sempre ambito, nel caso in cui avessi avuto successo, a tentare di fare un ritratto più veritiero, al negativo e al positivo, degli afroamericani. Non credo che sia necessariamente veritiero, né d'altro canto ha grossa tensione drammatica, un mondo in cui la gente è buona o cattiva al 100%”; ma in He Got Game la tensione drammatica ha un fortissimo peso e, parlando di percentuali, qui si è buoni e cattivi al 50%, cosa sorprendentemente insolita e piacevole. Jake è un finto cattivo o, per meglio dire, un cattivo dal cuore buono: la sua personalità è tra le più ambigue, violento a fin di bene e pacato nel tramare. Jesus, suo figlio, nelle mani di Spike è un ordigno letale, svuotato dai semplici valori della competizione sportiva e dell’infanzia felice per essere sovraccaricato di responsabilità, pressioni, tensioni e forti critiche alla pubblica morale. Il nome di Jesus sarà emblematico nel film, e di certo non sarò io a dirvi in che accezione esso è posto, ma una cosa è certa: non è facile per così come vorrebbe essere pensato, ovviamente.
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