Empire of Light

   
   
   

Nostalgia dell'Empire

di Fabio Ferzetti L'Espresso

Molti film hanno fatto di un cinema, inteso come sala, il perno del racconto. Pochi hanno tralasciato lo schermo, il gioco di ombre e riflessi acceso dallo spettacolo, per concentrarsi sul personale del cinema stesso. È quanto fa il sempre eclettico Sam Mendes (da "American Beauty" a "1917" da "Era mio padre" a "Skyfall"). Anche se la prima parola di "Empire of Light" è "popcorn", solo in extremis vedremo cosa si proietta in quel maestoso palazzo del cinema torreggiante sulle coste inglesi nei primi anni Ottanta. Per il cinema-cinema infatti è iniziata una lunga decadenza. E anche se gli impiegati dell'Empire non sembrano farci caso, tutto, a cominciare dalla fotografia meravigliosa di Roger Deakins, parla di grandezza e nostalgia, ovvero di perdita e rimpianto. Il lungo tramonto delle sale metterà lentamente fine a uno dei più perfetti dispositivi elaborati dalla modernità per avvicinare classi, generazioni, mondi. Un universo reale e fantastico insieme, in cui perdersi e ritrovarsi. Come càpita anche ai protagonisti di Mendes, la matura Hilary (Olivia Colman), direttrice di sala con qualche turba psicologica sulle spalle, e il giovane Stephen (Micheal Ward), studente nero di modi gentili e sfolgorante bellezza, neoassunto in quel piccolo gruppo di anime perse che lavora all'Empire formando una specie di famiglia vicaria. Non è difficile indovinare che Hilary e Stephen, benché così distanti, sono destinati ad avvicinarsi. Con molte complicazioni vista la fragilità di Hilary, la sua relazione segreta col direttore dell'Empire (un infido Colin Firth). E i ricorrenti problemi di Stephen con gli skinheads dell'era Thatcher. Il tutto mirabilmente intrecciato ai luoghi stessi di quel palazzo-labirinto, a partire dal grande salone con pianoforte e vista sul mare, ora frequentato solo dai piccioni. Anche se "Empire of Light" sembra adagiarsi su questa bella intuizione visiva senza mai dare vera vita, malgrado l'eccellenza del cast, a protagonisti e comprimari. Che anziché diventare personaggi di carne e sangue restano sempre un po' al servizio di Grandi Temi come il Razzismo, l'Intolleranza, il Disagio psichico e sociale. Il tutto percorso da un flusso di echi visivi e sonori anni Ottanta culminante nei grandi cartelloni e nelle (rare) scene estratte da titoli epocali come "I Blues Brothers", "Oltre il giardino", "Evita". Spettacolo sicuramente affascinante - e grande occasione mancata. Zavorrata da un commento musicale (canzoni a parte) imperdonabile.
Da L'Espresso, 5 marzo 2023


di Fabio Ferzetti, 5 marzo 2023

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