cinefoglio
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domenica 1 marzo 2020
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istantanea di corpus christi
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Presentato a Venezia-19, Jan Komasa si ispira ad eventi realmente accaduti, la vibe del momento, confezionando un film religioso e per finzione al margine della società polacca, riuscendo ad approdare al gran finale degli oscar nella ribattezzata categoria film internazionali - il fardello che porta sulle spalle ha un peso notevole con la nomineedell’anno scorso di Cold War, 2018 di Pawel Pawlikowski e l’oscar, dello stesso, cinque anni prima con Ida, 2013.
Genere crudo e della chiamata religiosa, la centralità della vicenda è monopolizzata dal giovane Daniel, uscito per buona condotta dal riformatorio, approdato in una piccola comunità cittadina.
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Presentato a Venezia-19, Jan Komasa si ispira ad eventi realmente accaduti, la vibe del momento, confezionando un film religioso e per finzione al margine della società polacca, riuscendo ad approdare al gran finale degli oscar nella ribattezzata categoria film internazionali - il fardello che porta sulle spalle ha un peso notevole con la nomineedell’anno scorso di Cold War, 2018 di Pawel Pawlikowski e l’oscar, dello stesso, cinque anni prima con Ida, 2013.
Genere crudo e della chiamata religiosa, la centralità della vicenda è monopolizzata dal giovane Daniel, uscito per buona condotta dal riformatorio, approdato in una piccola comunità cittadina.
Il plot è costruito su una base di fuga-ritorno dal luogo di prigionia, con un finale crepapelle di liberazione, ed una parte centrale del film incatenata in una serie di fortuiti eventi che portano Daniel a fare le veci del parroco locale. Il giovane e mancato seminarista deve sapersi adattare grazie alle sole doti innate da predicatore e un set di esperienze acquisite durante il riformatorio: da chierichetto delle messe penitenziarie agli esercizi per il controllo-rilascio della rabbia repressa.
Il tema-motivo persistente è quello del “prete di campagna” dal passato (presente) delittuoso e ferocemente instabile in continua ricerca di assoluzione – qui letterale e coincidente con l’abito talare.
Komasa affronta e ci mostra al meglio il confronto generazionale del vecchio e del nuovo, del dogmatico ineffabile e del sospettoso progressismo. Sottile, qui, la critica all’uso-abuso della cultura tradizionale, in questo caso cattolica, da parte del potere “temporale” – mirando alla figura del sindaco nel sermone della falegnameria.
Boze Cialo parla di quella parte di società non-metropolitana, dipinge le figure di un ambiente provinciale, non ultime quelle di una gioventù sospesa tra reiterazioni di elementi tradizionali e dogmatici e la conseguente sfiducia nel futuro che ha come unica fonte d’evasione lo sballo.
Daniel, nel suo ruolo pastorale provvisorio, è interprete di questi sentimenti: figura di tramite tra un passato decadente ed immobile ed un futuro genuino, totalmente artificiale ovviamente, ma reale per coloro che ne entrano in contatto – emblematica la figura di Pinczer, amico di prigione che, nonostante lo abbia smascherato e venduto, non trattiene le lacrime di fronte alla realizzazione del suo fallimento come padre intravedendo una fioca speranza di salvezza negli occhi del giovane aspirante “padre”.
La nudità spirituale, di un abito illegittimo per l’istituzione e per la legge civile, ma vero per le persone toccate nell’intimo dalle parole di Daniel.
Il finale concede speranza, naturale conseguenza del sacrificio sia nella sua accezione di sacralizzare quella che, a conti fatti è per Daniel un’aspirazione personale genuina ma, date regole sociali prestabilite, irraggiungibile, sia quella più mortificante della morte della propria identità, delle cieche presunzioni e della vita stessa.
Indubbiamente, qualità dell’immagine e messa in scena sono di buona fattura e coinvolgimento, la colonna sonora, seppur non estrema nelle sonorità (per quanto l’iperbole della trama possa lasciar intendere) sostiene l’acting in modo deciso. Toccanti, invece, i transfocus in profondità di campo, il tutto marcato da un gusto visivo ricercato, dei bouquet “a nebbiolina” che ricalcano la luce ieratica filtrata dalle vetrate della chiesa, quella luce che colpisce i fedeli in attenta reverenza dell’ostia già diventata, miracolosamente, corpo di Cristo.
Simile al recente First Reform, 2017, per temi, caratterizzazioni e personalità, anche se meno sperimentale del film di Schrader, contribuisce allo stesso tempo in modo esaustivo al genere prete tormentato, parrocchialità di confine e gioventù al margine.
Il film non è perfetto e ha i suoi punti deboli, altrimenti avrebbe vinto su Parasite. Allora la parte più riuscita è l’eclissante interpretazione di Bartosz Bielenia, dalle servili reverenze nel carcere alla spensierata allegria della festa paesana, dagli occhi spiritati dalla droga a ritmo di techno a quei silenzi tremanti, flebili, alla ricerca delle parole giuste per raggiungere i cuori dei fedeli con l’omelia. Film da non perdere per gusto, tema, se d’interesse, e stile di cinema europeo made in Poland.
29/02/2020
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cesare premi
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domenica 22 novembre 2020
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sesso, alcol, droga e fede
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Avete presente quei film senza colonna sonora, che terminano bruscamente senza un finale preciso, coi titoli di testa e di coda che sfilano silenziosamente sullo schermo nero? Ebbene, si tratta dei cosiddetti film d’essai, un genere di filmografia non commerciale, non di puro intrattenimento, che può sembrare noiosa, un po’ da gente snob con pretese intellettuali. Però sono quei film che quando esci dalla sala, nei giorni successivi, ti lasciano qualcosa, ti inducono a ripercorrerne mentalmente le scene, ti fanno scoprire, quasi a posteriori, che si è trattato di un film importante. Ho avuto modo in questi giorni di vedere in anteprima (legalmente) Corpus Christi, film polacco del regista Jan Komasa, presentato alla Mostra di Venezia e non ancora uscito nelle sale.
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Avete presente quei film senza colonna sonora, che terminano bruscamente senza un finale preciso, coi titoli di testa e di coda che sfilano silenziosamente sullo schermo nero? Ebbene, si tratta dei cosiddetti film d’essai, un genere di filmografia non commerciale, non di puro intrattenimento, che può sembrare noiosa, un po’ da gente snob con pretese intellettuali. Però sono quei film che quando esci dalla sala, nei giorni successivi, ti lasciano qualcosa, ti inducono a ripercorrerne mentalmente le scene, ti fanno scoprire, quasi a posteriori, che si è trattato di un film importante. Ho avuto modo in questi giorni di vedere in anteprima (legalmente) Corpus Christi, film polacco del regista Jan Komasa, presentato alla Mostra di Venezia e non ancora uscito nelle sale. La vicenda è ambientata nella contemporaneità in un villaggio della cattolicissima Polonia. Il protagonista è Daniel, un personaggio dalla vita contraddittoria, divisa tra sesso alcol droga e una fede profondamente sentita. Vorrebbe frequentare il seminario e farsi prete, ma i suoi precedenti penali gli sbarrano questa via. Le prime scene sono infatti ambientate nel riformatorio in cui Daniel è detenuto e dove assiste il sacerdote nelle funzioni liturgiche. Fatto uscire in semilibertà per andare a lavorare in una segheria, arriva invece nel villaggio rurale poco lontano dove, per una serie di circostanze e fraintendimenti più o meno voluti, diventa sostituto del parroco, impedito da una malattia. Padre Tomasz (così si fa chiamare Daniel ispirandosi all’identità del prete del riformatorio) confessa, tiene messa, impartisce sacre unzioni. È un impostore, ma il suo stile non ortodosso conquista a poco a poco la comunità dei fedeli, peraltro divisa al suo interno da odi e rancori poco cristiani e profondamente segnata da una tragedia che un anno prima ha sconvolto il villaggio mietendo sei giovani vittime innocenti...
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sirio
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sabato 15 maggio 2021
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volendo parlare del sacro...
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Fare un film di soggetto religioso è difficilissimo, si rischia o di cadere nell'oleografico, nel santino da quattro soldi o nella polemica sterile ed inutile.
In questo caso lo sceneggiatore, come si dice a Firenze, "si è messo di buzzo buono" e ha proodotto una sceneggiatura ben piantata, anche se presenta notevoli incongruenze.
E' un film che mi ha appassionato molto, pertanto mi permetto di fare alcune critiche. Premetto che sono uno studente di Scienze Religiose...
DA QUI RISCHIO DI SPOILERING
Proprio perché è un film che appassiona, ben costruito sulle tonalità del grigio e della nebbia, in un mondo dove anche i volti sono velati dal grigio, dove anche i paramenti più luccicanti sono ingrigiti, mi permetto di fare alcuni appunti sulla sceneggiatura.
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Fare un film di soggetto religioso è difficilissimo, si rischia o di cadere nell'oleografico, nel santino da quattro soldi o nella polemica sterile ed inutile.
In questo caso lo sceneggiatore, come si dice a Firenze, "si è messo di buzzo buono" e ha proodotto una sceneggiatura ben piantata, anche se presenta notevoli incongruenze.
E' un film che mi ha appassionato molto, pertanto mi permetto di fare alcune critiche. Premetto che sono uno studente di Scienze Religiose...
DA QUI RISCHIO DI SPOILERING
Proprio perché è un film che appassiona, ben costruito sulle tonalità del grigio e della nebbia, in un mondo dove anche i volti sono velati dal grigio, dove anche i paramenti più luccicanti sono ingrigiti, mi permetto di fare alcuni appunti sulla sceneggiatura.
Innanzitutto quanti anni ha Daniel? Se è in un riformatorio e non in carcere vuol dire che è minorenne: ossia dobbiamo pensare che abbia 16-17 anni. Non è ben chiaro per quali reati sia stato incarcerato, ma si immagina per reati non banali.
Ammettiamo che Daniel abbia 17 anni: si comprende la sua passione - non direi vocazione - acuita dalla reclusione, verso la fede come mezzo di liberazione, come dimostra anche la recita notturna, in solitaria, del rosario e l'intensità con cui canta il Salmo 23. Per questo Daniel vuole, una volta uscito, entrare in seminario: la fede non come mezzo per uscire, ma come strumento per dare un senso alla propria vita, all'inutilità del suo passato.
E qui si innesta la figura del prete del riformatorio: perché il seminario non accetta ex-detenuti? Sinceramente non mi hanno chiesto il casellario giudiziario quando ho chiesto di fare il catechista. Oppure in Polonia per fare il prete si deve essere di buona famiglia? Se tanto mi dà tanto, non è una bella figura, un prete "di trincea", ma un burocrate, un funzionario: infatti quando viene a prenderlo in parrocchia lo costringe a rinnegare l'esperienza, come dire "tu sei destinato a rimanere ai margini della società" e non ad un processo di redenzione e liberazione.
Daniel si presenta in chiesa come "un prete". A parte che dai tratti somatici si vede perfettamente che è un ragazzino (calcolando un ottimo percorso di studi, dovrebbe aver iniziato il cammino a 12 anni... un po' presto per affrontare studi universitari!!!), la ragazza in chiesa lo accoglie subito dicendogli "tu sei in abiti civili". E qui Daniel commette un errore trremendo, a causa del suo scarso background culturale: è un errore per il quale rischia la scomunica "ferendae sententiae" (ossia il suo vescovo lo avrebbe scomunicato con una sentenza, suscitando lo scandalo).
Dove trova i vestiti? Questo non è molto chiaro. Molto bella la scena in cui vuole scappare prima di essere presentato al parroco. Dal suo errore iniziale si trova coinvolto suo malgrado in una situazione più grande di lui.
Da qui la sceneggiatura dimostra qualche pecca: si rivela un predicatore eccezionale, carismatico, come solo chi ha toccato il fondo può mostrare, e questo è plausibile. Ma per il resto dimostra una dimestichezza con la liturgia degna di un prete ultra-navigato, sia per l'amministrazione dei sacramenti che per altri momenti (vedi la processione del Corpus Domini). Dove impara tutte queste pratiche? Garantisco che ogni volta che faccio servizio in chiesa ho una paura tremenda di sbagliare qualcosa... mi sembra strano che solo per aver assistito alla Messa in carcere possa aver acquisito una dimestichezza tale da non insospettire il popolo.
Omelie bellissime, carisma immenso...bellissima ma rimasta lì la scena dell'incontro con il suo ex-compagno di detenzione: quando quest'ultimo si mette a piangere si è persa un bellissima occasione di redenzione.
Quale ruolo ha la ragazza? Se la ragazza lo crede un prete allora perché lo bacia e va a letto con lui, facendogli violare il voto di castità? Se invece ha capito che è un millantatore, ne diventa connivente? Di certo quando viene il poliziotto lei "lo copre", ma rimane appeso lì.
La finale è tremenda. Secondo altri commentatori è "speranza". secondo me è tristissima. Non solo il prete che lo riporta nella situazione originaria, ma anche lo abbandona. In sostanza cosa rimarrà a Daniel? Prolungare la sua detenzione, immerso in una spirale di violenza fine a se stessa e rimanere per sempre ai margini della società, tra una serata di sesso occasionale e mercificato ed un party a base di cocaina e vodka...
Alla fine non ho capito bene quale ruolo abbia il sacro nel film: è la storia di un "prete mancato" a causa delle convenzioni sociali o che altro?
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cardclau
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venerdì 14 maggio 2021
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la linea sottile tra il divino e lai follia
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Parlando con una persona a cui tengo molto, di Gesù Cristo, non rammento più in quale contesto, mi disse: “Gesù o era Dio o era un pazzo …”. Ecco questa linea così tenue tra il divino e la follia è ben raccontata dal polacco Jan Tomasa. Possiamo chiederci perché la Polonia sforna delle storie incredibili e molto complesse, spesso inquietanti ed avvincenti nel contempo, che hanno poco a vedere con “le storie vere” degli occidentali.
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Parlando con una persona a cui tengo molto, di Gesù Cristo, non rammento più in quale contesto, mi disse: “Gesù o era Dio o era un pazzo …”. Ecco questa linea così tenue tra il divino e la follia è ben raccontata dal polacco Jan Tomasa. Possiamo chiederci perché la Polonia sforna delle storie incredibili e molto complesse, spesso inquietanti ed avvincenti nel contempo, che hanno poco a vedere con “le storie vere” degli occidentali. Forse perché quando l’ambiente è povero, costringe a spremersi le meningi ed ad ingegnarsi, a diventare dei veri artigiani. In più i film polacchi hanno qualcosa di cupo, di oscuro, che non può che rimandare ai lutti non consumati e rimasti sospesi, seguiti alle estese devastazioni della seconda guerra mondiale. Uno dei perni su cui gira la nostra storia è appunto il tentativo di Daniel, Bartosz Bielenia, sacerdote inventato, ma ispiratissimo, senza la patente pretale, dell’elaborazione collettiva di un lutto multiplo seguito ad un incidente di macchina catastrofico, che ha lasciato sul terreno sette corpi senza vita, sei dei quali giovanissimi. Lo sforzo è quello di non limitarsi a proiettare all’esterno la rabbia cieca, immensa, ma anche di cominciare a percepire il dolore dentro di sé.
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