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Il documentario, che suscita estremo interesse ed al contempo irritazione e fastidio, è incentrato più sulla vita privata che sulle opere di Bergman, focalizzando l’attenzione su di un anno, particolarmente prolifico della sua produzione cinematografica e teatrale, il 1957, e da quello si irradia nel passato fino all’infanzia del regista, ricordata in una sgradevole intervista del fratello, la cui messa in onda fu all’epoca impedita dallo stesso Bergman, e nel futuro, fino alla vecchiezza e alla morte nella solitudine completa dell’isola di Faro, il suo eremo.
Disturba il petulante brusio di voci di attori, montatori, scenografi, fotografi e giornalisti, che, intervistati dalla Magnusson, alimentano, per gran parte del film, il dubbio che si tratti di una raccolta di gossip a buon mercato o meglio che sia un maldestro tentativo di umanizzare il genio demolendolo dal punto di vista umano.
Bergman era continuamente tormentato dal mal di stomaco, era un erotomane, era un bugiardo, era infedele verso le mogli e gli amici, tradiva persino le amanti, trattativa male gli attori fino ad umiliarli, in gioventù aveva simpatizzato per il nazismo e così via dicendo, in una sequela di pettegolezzi ed infamie gratuite che possono forse essere di un qualche interesse per le comari al mercato, ammesso che tali comari conoscano chi è stato Bergman e cosa ha significato per il cinema mondiale e che se anche fossero vere nulla aggiungerebbero o toglierebbero alla grandezza dell’artista che ha creato capolavori assoluti.
Il docufilm della Magnusson, anche lei svedese, ma non tutti gli svedesi sono artisti geniali come Bergman, tenta di riscattarsi nelle ultime sequenze, dove, ancora con la maniacale pignoleria di trovare a tutti i costi riscontri autobiografici in ogni sua opera, c’è un accostamento suggestivo tra le immagini di Bergman, oramai anziano e solo, ed il protagonista del Posto delle fragole, interpretato dal vecchio regista Victor Sjöström, come se quel personaggio fosse stata una proiezione del regista, quando girò il film, di quello che poi sarebbe lui stesso diventato.
E’ nel complesso un’operazione inutile che risulta interessante esclusivamente per i contenuti di repertorio delle tante interviste rilasciate nel corso degli anni da Bergman, che forse un giorno si estrapoleranno da questo documentario, lasciando il resto alla futile quanto sterile curiosità degli amanti delle biografie degli uomini illustri.
Il giusto equilibrio nel riproporre la biografia di un’artista dovrebbe essere ricercato nella preponderanza della valorizzazione delle sue opere, se sono opere d’arte, con qualche riferimento alla vita privata e non viceversa. Tra cent’anni a nessuno importerà, e per la verità nemmeno adesso, se Bergman abbia avuto cinque o sei figli, cosa che nemmeno lui ricordava, ma si continueranno a vedere i suoi film e si continuerà a sognare e a rimanere incantati dalla sua poesia per immagini.
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