itimoro
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mercoledì 27 settembre 2017
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un muto che parla
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Rilevo che qualche critico ha parlato dell'interpretazione di Nocella come degna di un film muto. E' un'ottima osservazione. Andrebbe però aggiunto che con il "muto" e desolato Isi, che si trova solo e in un Paese straniero dove non capisce una parola di quel che gli viene detto, si confidano tutti: la figlia abbandonata di Taras, il prete che si sta spretando, la ragazzina cinese...e si sentono compresi. E queste confidenze dell'animo si concludono con gesti profondi di pacificazione con se stessi e con il mondo: la carezza alla bara, l'abbraccio del prete. Alla fine anche Isi, finalmente parla e si confessa e ci racconta il perchè del suo essere desolato e depresso.
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Rilevo che qualche critico ha parlato dell'interpretazione di Nocella come degna di un film muto. E' un'ottima osservazione. Andrebbe però aggiunto che con il "muto" e desolato Isi, che si trova solo e in un Paese straniero dove non capisce una parola di quel che gli viene detto, si confidano tutti: la figlia abbandonata di Taras, il prete che si sta spretando, la ragazzina cinese...e si sentono compresi. E queste confidenze dell'animo si concludono con gesti profondi di pacificazione con se stessi e con il mondo: la carezza alla bara, l'abbraccio del prete. Alla fine anche Isi, finalmente parla e si confessa e ci racconta il perchè del suo essere desolato e depresso. Ma parla anche lui con qualcuno che non lo può ascoltare: il morto Taras, dentro la sua bara. A me è parso che la cifra più rilevante del film stia in queste situazioni: nel bisogno che ha l'uomo di relazione profonda in un mondo che invece è freddo, distante, affarista (il fratello sfruttatore), dove il valore delle persone è calcolato esclusivamente sulla base della loro capacità di competere (il povero Isi ha perso l'affetto della madre quando non ha più vinto alle corse, e adesso porta il pull over con il numero 2: il numero 1 ce l'ha il fratello).
Il film è condotto con delicatezza ed ironia e ci accompagna fino alla fine con un lieve sorriso.
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adelio
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sabato 18 novembre 2017
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dalle chips tecnologiche al miele primordiale
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Si torna finalmente a vedere dei film italiani di qualità. Easy può sicuramente annoverato tra i film dell’assurdo ma con un taglio fotografico di altri tempi e con piglio “neorealista” che irride proprio quel mondo sovietico che ha prodotto il realismo nel cinema. Una bella idea quella del viaggio di due emarginati, uno vivo ma morto dentro e l’altro morto in una bara da riportare a casa ma ben vivo nei ricordi di chi lo riceverà.
È una storia semplice ma intensa, molto ricca di simbolismi e di ironia verso il mondo che ha prodotto Easy ma anche verso quel mondo ex socialista che ha cresciuto il povero Taras (muratore emigrato dall’Unione Sovietica e morto misteriosamente in un cantiere italiano).
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Si torna finalmente a vedere dei film italiani di qualità. Easy può sicuramente annoverato tra i film dell’assurdo ma con un taglio fotografico di altri tempi e con piglio “neorealista” che irride proprio quel mondo sovietico che ha prodotto il realismo nel cinema. Una bella idea quella del viaggio di due emarginati, uno vivo ma morto dentro e l’altro morto in una bara da riportare a casa ma ben vivo nei ricordi di chi lo riceverà.
È una storia semplice ma intensa, molto ricca di simbolismi e di ironia verso il mondo che ha prodotto Easy ma anche verso quel mondo ex socialista che ha cresciuto il povero Taras (muratore emigrato dall’Unione Sovietica e morto misteriosamente in un cantiere italiano). Easy viene incaricato di riportare il defunto Taras a casa (ieri Unione sovietica oggi Ucraina). Il nostro sguardo di spettatori è impattato ed attraversato da paesaggi immensi, “muti”, monocromatici da esplorare e da contornare come dovrebbe fare ognuno di noi con la propria coscienza. Il film non racconta il viaggio di un feretro verso casa, racconta molto di più, ci mostra un percorso a ritroso di due persone apparentemente molto diverse (Easy e il defunto Taras) ma che in realtà hanno entrambe il bisogno di riscoprire la sostanza delle cose, il senso vero della vita, la solidarietà e la comunione umana del vivere sociale. Easy che parte con il conforto di tutti gli ausili tecnologici della società materiale occidentale (dal mezzo di locomozione, al navigatore satellitare e traduttore, al cibo) si ritrova in questo percorso immaginario a perdere tutto ciò per affidarsi alla propria capacità fisica e mentale e ad una ritrovata volontà per giungere al traguardo e compiere l’opera. Il defunto Taras percorre contemporaneamente una strada che lo riporta idealmente alle origini del proprio Paese, alla sua vera identità. Le tappe raggiunte dai viaggiatori nel loro recupero psico-morale e culturale sono scandite dal progressivo impoverimento dei mezzi di trasporto e dal contestuale miglioramento delle risorse umane, tutte le persone incontrate aiutano il povero Easy. Easy comincia ad aver fiducia in se stesso, migliora anche il cibo che ingurgita (dalle schifezze dell’autogrill in partenza al miele naturale di campagna giunto all’arrivo). Il film non annoia mai si ride di ciò che capita ad Easy ma il regista irride anche i segni del vecchio regime socialista che vengono richiamati (da deserte e squallide strutture per la ristorazione fino a flash su simboli del potere comunista quali battelli in cantiere dal vago sapore di monumentali Corazzate Potemkin). Con simbolismo tipico dei migliori film dell’Est si vede cogliere una mela rossa dall’albero, da quel momento l’uomo riacquista l’amore per se stesso e la volontà di Easy si riaccende. Si sta raggiungendo l’essenza del recupero anche il defunto Taras sembra giungere finalmente a destino, arriva nel cimitero di soldati della I° guerra mondiale (vedi scritta 1915-1918), ma in realtà quello è solo un passaggio, è un modo raffinato per informarci che stiamo uscendo dal tunnel dell’ inumano mondo socialista per entrare in una sorta di periodo prerivoluzionario in cui la Russia era tradizione, solidarietà, religione e cultura della terra. Alla fine del viaggio di recupero umano, spirituale e culturale Easy si trova “nudo nato” (come appena partorito), Taras ritrova la sua terra, i suoi valori i suoi cari. Il primo da morto dentro si ritrova “vivo” mentre il secondo da morto ritrova la “vita”, gli affetti e l’identità della propria gente. I 2 compagni di viaggio raggiungono la meta e ritrovano il significato di essere “uomo”.
Il volto di un bambino neonato è la nostra speranza ma anche un libro bianco in cui un Easy tutto nuovo e vero si spechia dicendo …”ed ora che faccio?”
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loland10
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domenica 10 settembre 2017
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riuscirà il nostro eroe...
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“Easy. Un viaggio facile facile” (2017) è il primo lungometraggio del regista riminese Andrea Magnani.
“E adesso cosa faccio?”. Ecco che la domanda di Isidoro, detto Easy, dopo aver raggiunto il suo scopo rimane sospesa e persa. Rimanere?, Tornare indietro?, Continuare la storia?, Evaporare?, Basta così? Mi daranno un altro film? E poi…
Il contorno a fumetto del corpo di Easy chiude il sogno di un viaggio che ride e irride ogni modo e ogni gesto del nostro ‘grasso’ eroe che di dieta non ne vuole sapere.
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“Easy. Un viaggio facile facile” (2017) è il primo lungometraggio del regista riminese Andrea Magnani.
“E adesso cosa faccio?”. Ecco che la domanda di Isidoro, detto Easy, dopo aver raggiunto il suo scopo rimane sospesa e persa. Rimanere?, Tornare indietro?, Continuare la storia?, Evaporare?, Basta così? Mi daranno un altro film? E poi…
Il contorno a fumetto del corpo di Easy chiude il sogno di un viaggio che ride e irride ogni modo e ogni gesto del nostro ‘grasso’ eroe che di dieta non ne vuole sapere. Mai. Ingozza di tutto pur di arrivare a destinazione e far conoscenza di mondi diversi. Culture, facce, cibi, usi e parole. Tutto escluso dall’interiorità infantile di Easy.
Nel cantiere di Filo (Libero De Rienzo) muore un operaio di origine ucraina. Il corpo deve essere riportato alla sua famiglia: viene incaricato il depresso e obeso fratello Easy, un ex promessa dell’automobilismo e un patito della Playstation. Accetta l’incarico guidando l’auto funebre della ditta. Ha in soccorso una pianta satellitare e un cellulare che traduce le lingue. Tutto facile? Mica tanto. Tra dogane impazzite, bagni chiusi, auto rubata, bara sulla strada, orientamento perduto, autostop sui generis, ospitalità strampalate, poliziotto in pantofole, carretto con cavallo e un trasporto manuale, il povero Easy vede di tutto e si ritrova senza vestiti dopo una bevuta in omaggio. E poi arriva a destinazione? Chi sa se qualcuno riconosce il passaporto vecchio di qualche lustro quando c’era il simbolo della vecchia Unione Sovietica?
Un film di una leggerezza inusitata ma nello stesso tempo di una dolcezza interiore che non t’aspetti; tutto con un passo asciutto, sornione, con poche parole e niente virtuosismi inutili di macchina. Un divertimento mai sguaiato, incantevole e, soffusamente, surreale. Gli spazi tra i vari pezzi di viaggio di Easy sono vuoti, azzerati nel montaggio: uno stradario essenziale di ambienti e visi, natura e silenzi umani. Lo score musicale di Luca Ciut attacca i titoli iniziali e di fondo come in due-tre casi all’interno del girovagare di Easy tra una dormita e un ascolto di lingue incomprensibili. Lo sguardo stralunato, candido e assorto dell’attore Nicola Nocella (premiato come miglior attore al Locarno Festival)riescono a farne un personaggio che rimane: nessuna scena pare forzata o sovrappiù. Tutto con gesti semplici e immediati mentre in una comunicazione sorda scorrono i sottotitoli in italiano per lo spettatore ‘privo’ della facoltà di capire. Eppure si ha la sensazione che non servirebbe neanche la traduzione: tutto appare diretto e si intuisce il senso o il non senso del tutto.
Ecco le sequenze di silenzio, ricordando il muto, paiono salutari, forti e di lascito di un cinema italiano che ha dimenticato di far pensare lasciando dietro un sorriso e uno sberleffo. Ecco che la bellezza e l’attore di razza mancano ma non ne abbiamo bisogno perché non mancano idee e un volto bonariamente efficace: Easy è dirompente nel fare quello che è normale per lui tra cibi iperproteici, giochi virtuali e lassismo depressivo.
Il camionista, il viso di Easy e la bara tra i polli sono uno scherno ad un scena che neanche immagini. E la nonna davanti alla vasca dove il nostro si copre per vergogna è un ‘comica’ moderna’ di un Buster con le sembianze di Oliver. Si ride e si sorride senza volgarità e le telefonate (non-sense) tra Easy e Filo sono un appiglio per continuare. Un arresto e un funerale per finire.
“Una storia (quasi)vera” parafrasando il titolo del film di David Lynch: analogie di viaggi impossibili e assurdi dove i volti e gli itinerari diventano interiore.
Regia spiritosa e avvolgente, minima e attenta.
Voto: 7+/10.
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lapo10
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lunedì 18 dicembre 2017
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non è facile essere easy
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Ancora un pilota protagonista al cinema, dopo il Loris De Martino di "Veloce come il vento". Ancora una storia di fallimento, benché raccontata con toni lievi da Andrea Magnani. La prima scena mi lascia, al contempo, divertito e basito mentre introduce scrupolosamente il protagonista di "Easy, un viaggio facile facile". Con le cuffiette che gli restituiscono i suoni della formula 1 nelle orecchie, un vecchio trofeo fra le mani, e lo sguardo che vaga, spento, chissà dove, Isi (Nicola Nocella) sembra un fantasma che vuole (ri)vivere un passato lontano di glorie sportive. La madre (Barbara Bouchet), maniaca di diete e fitness, ed un flacone di pillole pronte all'uso quando l'ansia lo assale, mantengono Isi impantanato in una terra di lunghi silenzi e placida inerzia dalla quale viene risvegliato bruscamente dal fratello (Libero De Rienzo), bello, subdolo e millantatore, che lo costringe ad affrontare un lungo e surreale viaggio per riportare la salma di un suo operaio clandestino fino al confine occidentale dell'Ucraina.
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Ancora un pilota protagonista al cinema, dopo il Loris De Martino di "Veloce come il vento". Ancora una storia di fallimento, benché raccontata con toni lievi da Andrea Magnani. La prima scena mi lascia, al contempo, divertito e basito mentre introduce scrupolosamente il protagonista di "Easy, un viaggio facile facile". Con le cuffiette che gli restituiscono i suoni della formula 1 nelle orecchie, un vecchio trofeo fra le mani, e lo sguardo che vaga, spento, chissà dove, Isi (Nicola Nocella) sembra un fantasma che vuole (ri)vivere un passato lontano di glorie sportive. La madre (Barbara Bouchet), maniaca di diete e fitness, ed un flacone di pillole pronte all'uso quando l'ansia lo assale, mantengono Isi impantanato in una terra di lunghi silenzi e placida inerzia dalla quale viene risvegliato bruscamente dal fratello (Libero De Rienzo), bello, subdolo e millantatore, che lo costringe ad affrontare un lungo e surreale viaggio per riportare la salma di un suo operaio clandestino fino al confine occidentale dell'Ucraina. Inizia così il "viaggio col morto" del candido e poco sveglio Isidoro che guida un carro funebre a gran velocità divorando untuose merendine e che, neanche a dirlo, si caccia in un mare di guai senza avere, dalla sua, la stessa fortuna di Solomon Perel o Forrest Gump. Andrea Magnani costruisce la sua opera prima su di un esile pretesto narrativo per scandagliare le emozioni nascoste del protagonista che mette a nudo le sue fragilità emotive prima di spendere tutto se stesso al compimento della propria missione e mostrare doti di caparbietà e coraggio che nemmeno immaginava di possedere. La storia procede lungo le strade polverose che portano ai Carpazi con la delicata ironia che scaturisce dalla florida corporeità di Isidoro. Una comicità che è emanazione della goffaggine di Isi, e dei suoi gesti semplici e contenuti, non certo frutto delle (poche) parole che egli riserva principalmente a Taras, guarda caso l'unica persona che non può sentirlo. Alcune sequenze esilaranti fluiscono meste come il placido fiume che Isi naviga a cavalcioni della bara o come l'incedere lento di una caterpillar che affronta un circuito automobilistico per fermarsi senza benzina ad un metro dal traguardo, come il sogno del corpulento ragazzone demolito ad un passo dalla vittoria. Magnani contrappone al taciturno protagonista un paesaggio ucraino altrettanto silenzioso. E nonostante Isi rimanga senza soldi e senza mezzi in questo ambiente ostile di cui non conosce la lingua, lì, in quella terra, dà il meglio di sé affrontando la vita dopo tantissimo tempo. L'Ucraina selvaggia e inospitale, contrapposta al ricco e caotico Nord Est industriale, da cui Isi proviene, si manifesta come culla di un'umanità che non si ciba di inutili distrazioni, della sfrenata competizione e della vana gloria dei nostri modelli culturali (la dieta, il successo, l'apparenza). Questo paese derelitto, ancorato all'epoca dei Soviet, costringe il protagonista ad affrontare le proprie paure e le proprie bugie e a soffermarsi su relazioni che, per quanto siano impossibili da coltivare, risultano molto più autentiche di quelle a lui familiari. Trovo sia un piccolo gioiellino questo lavoro di Andrea Magnani, passato al Locarno Festival la scorsa estate, uno di quelli che vale la pena vedere al cinema per ammirare gli sconfinati spazi che un 50 pollici svaluterebbe, per sentire la fredda ma pulita luce dell'Est Europa, per ascoltare una vibrante musica folk che agita corpi e animi e per fermarsi un po' sulla poltroncina, lasciare da parte il superfluo e concentrarsi su se se stessi e le proprie emozioni, quelle che Isi ci regala in 90 minuti di cinema che impone la lentezza, il silenzio e la fisicità ironica e candida del suo brevissimo protagonista.
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