riccardo tavani
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mercoledì 15 giugno 2011
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il camionero argentino e la piccola dea guaranì
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Rubén è un camionero veterano, duro e silenzioso come gli enormi tronchi di legno che deve trasportare con il suo vecchio bisonte della strada da Asunción del Paraguay a Buenos Aires. Questa volta, però, non solo tronchi deve caricare, ma anche una donna che il suo committente gli ha raccomandato. La donna, dai tratti meticci e il cui nome è Giacinta, si presenta all’appuntamento anche lei con un suo piccolo carico particolare, oltre i due borsoni da viaggio. È una bambina, Anahí, dagli spiccati caratteri degli indios guaranì di soli cinque mesi. Il cliente per cui lavora, forse conoscendo la corteccia ruvida di Rubén, aveva omesso il dettaglio e questo infastidisce non poco il rude camionero argentino.
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Rubén è un camionero veterano, duro e silenzioso come gli enormi tronchi di legno che deve trasportare con il suo vecchio bisonte della strada da Asunción del Paraguay a Buenos Aires. Questa volta, però, non solo tronchi deve caricare, ma anche una donna che il suo committente gli ha raccomandato. La donna, dai tratti meticci e il cui nome è Giacinta, si presenta all’appuntamento anche lei con un suo piccolo carico particolare, oltre i due borsoni da viaggio. È una bambina, Anahí, dagli spiccati caratteri degli indios guaranì di soli cinque mesi. Il cliente per cui lavora, forse conoscendo la corteccia ruvida di Rubén, aveva omesso il dettaglio e questo infastidisce non poco il rude camionero argentino. Non può più prosciugare una dietro l’altra le sue sigarette mentre è al volante, a ogni frignare della niña deve fermare il bisonte per scaldarle il biberon o cambiarle il pannolino. Al confine tra i due paesi, la polizia argentina controlla i documenti della donna e chiede se ha il permesso del padre della bambina per l’espatrio. Giacinta risponde: “No hay padre”, non c’è nessun padre. Viene diffidata a rientrare alla scadenza inesorabile del suo permesso, ovvero tre mesi. Il viaggio procede così, tra il silenzio dei due, le smorfie deliziose e sorprendenti della nena. La sola voce che si sente è quella un po’ ansimante del vetusto ma ancora sicuro motore. Poi c’è la lingua muta ma eloquente del mutevole paesaggio argentino che scorre dietro i vetri. L’unica cosa che i due si scambiano è qualche sorso di mate, la tradizionale bevanda argentina, succhiandolo entrambi con la stessa bombilla, cannuccia, e dallo stesso porongo, il tipico contenitore. Le poche domande smozzicate che i due si scambiano fanno però emergere il lato della solitudine amara, rassegnata, senza speranza in cui vive Rubén. Mentre Giacinta ha una condizione materiale difficile, incerta, ma con un’apertura fiduciosa verso il futuro, Rubén è come un vecchio albero dal passato ricco di linfe, rami, foglie e germogli ma che si sta inesorabilmente rinsecchendo. Il contatto ravvicinato, tutta quelle ore di viaggio nella cabina del camion con Giacinta e la piccola dea india Anahì gli mettono di fronte, forse per la prima volta in maniera inequivocabile, questa sua condizione di disperazione taciuta ma non per questo meno sofferta. Il suo mutamento nei confronti della donna e della bambina è impercettibile, sempre trattenuto sotto la scorza scabra del suo carattere, ma sensibile con l’aumentare dei chilometri percorsi e l’avvicinarsi di Buenos Aires. Pablo Giorgelli riesce a realizzare una pellicola di rara intensità emozionale con pochi, essenziali tratti cinematografici e più silenzi che parole. Eppure, a sentire lui, ha impiegato anni a scrivere e riscrivere questo copione, o piuttosto, ad asciugarlo e prosciugarlo fino a una soglia delicata oltre la quale il film si sarebbe dissolto. L’acacia, oltre a essere l’albero della mimosa, è anche il simbolo di una purezza vigorosa, e quella bianca di amore platonico. Una pianta che sa come non appassire e rinascere continuamente nel corso delle stagioni. In tanto scarno discorso cinematografico non devono sfuggire i densi significati iconografici. Rubén, nella parte finale della pellicola, indossa una camicia a quadri degli stessi colori della bandiera argentina, bianca e celeste. Forse, dopo tanta disperazione, questo film indica in maniera semplice ma profonda a un intero paese come aprirsi e rifiorire.
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maurocioffi
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lunedì 7 ottobre 2013
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silenzio che lascia spazio al cinema
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La trama è semplicissima: un camionista argentino di mezz'età, apparentemente duro e indifferente, dà un passaggio ad una madre paraguaiana in cerca di lavoro e alla sua bambina di cinque mesi, in un viaggio dal Paraguay a Buenos Aires per trasportare un carico di legna di acacia. Al termine del percorso, il cuore del camionista si sarà intenerito per la donna Paraguayana, molto probabilmente ricambiato.
Con una trama così, e un film che praticamente si svolge dentro un abitacolo, sarebbe potuta venire fuori un'opera quasi teatrale, incentrata sui dialoghi. Ma è esattamente il contrario. Con un ritmo pacato, a cui lo spettatore deve "fare l'abitudine", il regista sceglie di porre al centro della narrazione le immagini.
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La trama è semplicissima: un camionista argentino di mezz'età, apparentemente duro e indifferente, dà un passaggio ad una madre paraguaiana in cerca di lavoro e alla sua bambina di cinque mesi, in un viaggio dal Paraguay a Buenos Aires per trasportare un carico di legna di acacia. Al termine del percorso, il cuore del camionista si sarà intenerito per la donna Paraguayana, molto probabilmente ricambiato.
Con una trama così, e un film che praticamente si svolge dentro un abitacolo, sarebbe potuta venire fuori un'opera quasi teatrale, incentrata sui dialoghi. Ma è esattamente il contrario. Con un ritmo pacato, a cui lo spettatore deve "fare l'abitudine", il regista sceglie di porre al centro della narrazione le immagini. Le battute sono intervallate da lunghi silenzi, e ogni inquadratura è l'occasione per cogliere qualcosa dei personaggi, per raccontare la loro storia e come fra di essi lentamente germoglino dei sentimenti.
A mio parere veramente un buon film, delicato e ricercato nel tipo di narrazione, che riesce a fare quello che solo il cinema (e la fotografia) possono fare: raccontare con le immagini.
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donni romani
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martedì 1 maggio 2012
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silenzi ricchi di emozione
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Camera d'Oro al Festival di Cannes per questo piccolo delicato intenso ed emozionante film scritto e diretto da Pablo Giorgielli. La storia è quella di Ruben, un camionista che trasporta legna fra il Paraguay e l'Argentina e che durante uno di questi viaggi, per fare un favore al suo datore di lavoro, deve dare un passaggio a Jacinta, una ragazza che vuole raggiungere Buenos Aires. L'incontro fra i due non nasce sotto i migliori auspici perchè Jacinta si presenta all'appuntamento con la sua bimba di cinque mesi di cui Ruben non era a conoscenza, e così il viaggio inizia fra malumori e gesti bruschi.
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Camera d'Oro al Festival di Cannes per questo piccolo delicato intenso ed emozionante film scritto e diretto da Pablo Giorgielli. La storia è quella di Ruben, un camionista che trasporta legna fra il Paraguay e l'Argentina e che durante uno di questi viaggi, per fare un favore al suo datore di lavoro, deve dare un passaggio a Jacinta, una ragazza che vuole raggiungere Buenos Aires. L'incontro fra i due non nasce sotto i migliori auspici perchè Jacinta si presenta all'appuntamento con la sua bimba di cinque mesi di cui Ruben non era a conoscenza, e così il viaggio inizia fra malumori e gesti bruschi. I chilometri che i due percorrono in quasi assoluto silenzio, rotto inizialmente solo da qualche domanda imbarazzata, sembrano dilatare la distanza fra due solitudini, fra due fragilità, fra due universi, ma man mano che gli sguardi si incrociano e man mano che la piccola Anahi, fra una smorfia e un sorriso, riesce a scogliere la tensione, ci sarà spazio per un timido confronto, fatto di frammenti di confidenze, di piccole gentilezze, di reciproche attenzioni. Un film in cui apparentemente accade pochissimo, ma che in realtà fa percorrere ai due protagonisti chilometri, non solo fisici, ma anche emozionali, per avvicinarli l'uno all'altro, per far sì che l'introverso e solitario Ruben trovi il coraggio di proporre a Jacinta un successivo incontro. Delicato, intenso, capace con pochissimi dialoghi e gesti misurati e mai eclatanti di raccontarci, senza mai svelarcele, le vite di Ruben e Jacinta - Las Acacias ha il raro dono di evocare invece di palesare lasciando che siano i corpi impacciati ad esprimere le emozioni cui la voce non riesce a dar forma. In questo senso la scena in cui Ruben scende a fumare una sigaretta è esemplare, incapace di proporsi e quasi geloso delle attenzioni di un altro camionista verso la ragazza è un capolavoro di sottrazione, e laddove altri registi lo avrebbero fatto camminare nervosamente avanti e indietro o tirare un calcio ad un sasso Giorgelli lo inchioda al terreno, con movimenti minimi, incerti, trattenuti così come sono trattenuti i suoi sentimenti. La solitudine è un nucleo duro e compatto, difficile da infrangere sembra suggerire Giorgelli, e la fisicità di Germán de Silva lo asseconda con una recitazione asciutta e una mimica quasi impercettibile (i primi sorrisi che rivolge ad Anahi sono tutti da interpretare tanto sono trattenuti) ma la tenerezza con cui si apre al futuro è struggente e potente. Resta nel cuore questo piccolo grande gioiello, un puzzle di emozioni che formano un affresco poetico e venato di timida speranza.
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ebru erel
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giovedì 3 ottobre 2013
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"occhi neri occhi neri, assoluti e sinceri"
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Il cinema, come la vita, è fatto di uomini. E questo film ne è la dimostrazione. La prova che non serve nient'altro, niente di più di quattro occhi che parlano fra di loro, anche se le bocche tacciono. In realtà, nel film, gli occhi sono sei. E due sono piccoli e neri. Sono quelli di una bimba, Anahí: simbolo purissimo dell'inconsapevolezza di tanta bellezza e importanza. Con lei, Jacinta, sua madre, e Rubén, camionista di mezza età che, grazie a una conoscenza comune, le porta con sé. Un viaggio lungo dal Paraguay all'Argentina, un tempo che li vedrà, piano piano, aprirsi alla grandezza dell'interesse per l'altro, con la voglia, anche se timida e silenziosa, di potersi, forse, incrociare.
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Il cinema, come la vita, è fatto di uomini. E questo film ne è la dimostrazione. La prova che non serve nient'altro, niente di più di quattro occhi che parlano fra di loro, anche se le bocche tacciono. In realtà, nel film, gli occhi sono sei. E due sono piccoli e neri. Sono quelli di una bimba, Anahí: simbolo purissimo dell'inconsapevolezza di tanta bellezza e importanza. Con lei, Jacinta, sua madre, e Rubén, camionista di mezza età che, grazie a una conoscenza comune, le porta con sé. Un viaggio lungo dal Paraguay all'Argentina, un tempo che li vedrà, piano piano, aprirsi alla grandezza dell'interesse per l'altro, con la voglia, anche se timida e silenziosa, di potersi, forse, incrociare. Persone comuni, che ricordano chiunque, e che quando arrivano a destinazione, come se tu stesso li avessi accompagnati, sembrano svanire nelle loro case, non più in un film, ma in una vita vera.
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