Lietta Tornabuoni
L'Espresso
Quattro anni fa a Londra John Madden, 57 anni, regista inglese di Shakespeare in Love e del detestabile Mandolino del capitano Corelli, diresse in teatro il testo di David Auburn Proof (La prova), protagonista Gwyneth Paltrow, che arriva ora in versione cinematografica. E la storia di una giovane donna che si è dedicata a curare il padre, Anthony Hopkins, matematico geniale afflitto da una malattia degenerativa del cervello. Quando il padre muore, la figlia esce dal proprio oblativo esilio domestico che in certo senso l’ha protetta e difesa. Deve affrontare la vita: nel suo caso significa fronteggiare una sorella che le è divenuta estranea e che elabora per lei infiniti progetti per il futuro, e un corteggiatore studente del padre che spera di trovare appunti preziosi nei diari del defunto. Soprattutto, la ragazza ventisettenne deve cercare una risposta alla domanda più angosciosa: quanta parte di genio, e quanta di follia le riserva l’ereditarietà?
E qui siamo al punto: al cinema, dilemmi del genere appaiono fatalmente datati tra i Grandi Temi, un’ottica che si adatta male ai nostri anni furenti e atroci, che appare obsoleta come il ricamo a punto e croce. Il film può riuscire medio oppure bellissimo, ma sempre fluttua intorno a pensieri e considerazioni astratti o abusivi, fortemente inadatti al mezzo.
Insieme con il dilemma va il mistero: com’è che Anthony Hopkins ha trovato un ruolo più o meno adeguato a sé? Di solito l’attore gallese accetta i personaggi che gli offrono a buone condizioni economiche, persino quello di Pablo Picasso (“Surviving Picasso”) o quello di cowboy americano con stivali, speroni, cappello e cartuccera sul ventre prominente (“Vento di passioni”). Stavolta il ruolo è meno demente: ma la definizione di bravo attore non è mai acquisita una volta per tutte.
Da L’Espresso, 2 gennaio 2006
di Lietta Tornabuoni, 2 gennaio 2006
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