Oliver Twist

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Un film di Roman Polanski. Con Ben Kingsley, Frances Cuka, Barney Clark, Lewis Chase, Jake Curran.
continua»
Titolo originale OLIVER TWIST. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 130 min. - Gran Bretagna, Repubblica ceca, Francia, Italia 2005. uscita venerdì 21 ottobre 2005. MYMONETRO Oliver Twist * * * - - valutazione media: 3,14 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Marco Cicala

Il Venerdì di Repubblica

Ci voleva un diavolo come Roman Polanski per far uscire Oliver Twist dal purgatorio: quello della cosiddetta «letteratura per ragazzi», in cui il grande romanzo di Charles Dickens è stato troppo a lungo e ingiustamente recluso. Da venerdì prossimo nelle sale italiane, il film riporta al cinema la storia del più famoso trovatello d’Inghilterra (insieme al Tom Jones di Fielding) quasi sessant’anni dopo la celebre versione di Sir David Lean con Sir Alec Guinness nel ruolo dell’ebreo Fagin, ora interpretato da un sorprendente e «shylockiano» Sir Ben Kingsley.
Sin dalle prime sequenze l’Oliver Twist di Polanski è spiazzante: sembra Il pianista. Le camerate dell’orfanotrofio (vedi foto sopra) paiono baracche concentrazionarie. I sandali squassati dei ragazzino che vaga nel fango quelli dei poveri figli del ghetto di Cracovia o Varsavia. Qualsiasi riferimento all’infanzia del regista è puramente voluto: «La Polonia in cui vagabondavo da bambino, durante l’ultima guerra, aveva molte cose in comune con la Londra di Dickens. So bene che cosa significa camminare senza calze dentro scarpe che ti feriscono i piedi. So che cosa vuoi dire ritrovarsi soli a quell’età, senza genitori né un letto» ha detto Polanski, ormai molto avaro in dichiarazioni alla stampa, dopo l’ultimo scandalo-bidone in cui s’è visto coinvolto l’estate scorsa. Un articolo della rivista Vanity Fair lo accusava di aver fatto delle avances a una modella svedese in un ristorante, poco prima di andare al funerale della moglie Sharon Tate, ammazzata nel 1969 dai seguaci di Charles «Satana» Manson. Risultato: tutta una bufala. A luglio il regista ha vinto la causa per diffamazione e intascato un risarcimento di 50 mila sterline.
L’America continua a mordere Roman sul collo. Non perde un’occasione per tornare a inchiodarlo agli sregolati anni californiani di sesso e sballi. Ma soprattutto non gli perdona la fuga dagli Studios e dagli States nel ‘78, il gran rifiuto di sfruttare il proprio mito di enfant prodige, magari sfornando sequel dei suoi capolavori hollywoodiani, Rosemarv’s Baby o il grandioso Chinatown. E, a questo punto, può cominciare davvero a dar fastidio alle majors uno che riesce a metter su coproduzioni europee di gran successo (al Pianista sono andati tre Oscar e un mucchio d’altri premi). In questo senso Oliver Twist non fa eccezione.
Con un budget da 45 milioni di euro, è il film più costoso mai realizzato da Roman Polanski. La Londra della prima metà dell’Ottocento è stata ricreata negli studi Barrandov di Praga. Un set di 40 mila metri quadrati, 84 case, una grande piazza, quindici strade. Oltre duecento gli operai edili impiegati per riprodurre la grande arteria di Kings Street o i luridi anfratti di Jacob’s Island.
È un Inghilterra di topaie, pozzanghere, mattonati unti di fuliggine, cieli ferrosi e nuvole sfilacciate che sa tanto di Mitteleuropa. Però il regista (nato nel 1933 a Parigi da padre polacco e madre ebrea d’origine russa, mai tornata dai lager) non vuole insistere più di tanto sul parallelo tra la propria infanzia perseguitata e la storia di Oliver — interpretato dal tredicenne Barney Clark: «Certo che mi identifico nel personaggio. Ma non è questo il motivo per cui ho girato il film. Non intendo promuoverlo come un’opera autobiografica». Malgrado i costi e le sontuose ricostruzioni, il suo è un Oliver Twist curiosamente minimalista, fatto di interni male illuminati, inquadrature sghembe in cui si avverte ancora qualche acido sedimento espressionista.
Nessuna deriva buonista, ma — senza nulla togliere alle emozioni — una lettura inquietante di Dickens, che d’altronde, con stile da feuilleton per il grande pubblico (Oliver Twist fu pubblicato ad episodi nel 1837, sul mensile Bentley ‘s Miscellany) parlava dell’inferno in terra: i danteschi bassifondi londinesi all’alba dell’epoca vittoriana. Quando la capitale del futuro impero assomigliava all’odierna Bangkok, coi suoi marciapiedi brulicanti di mocciosi alcolizzati e baby prostitute. Per rievocare quelle bolge, Polanski si è ispirato alle incisioni ottocentesche di Gustave Doré che —oltre ad aver illustrato la Divina Commedia — raccontò il sottosuolo di Londra come un epopea dark. Più o meno la stessa di certe pagine di Karl Marx o, poco più tardi, di Jack London, che, travestito da clochard, si trascinò lungo i vicoli dell’East End per scrivere Il popolo dell’abisso, impareggiabile libro-reportage sui moderni orrori metropolitani.
L’infanzia di Oliver Twist è anche quella del proletariato. Che si percepisce ancora ingenuamente come popolo, massa indistinta dl sfruttati e non come la classe organizzata, rivendicativa e conflittuale che balzerà al centro della scena storica dalla seconda metà dell’Ottocento. E quando, alla fine, l’intrigo si scioglie e vediamo il piccolo Oliver sparire nell’anonimato della megalopoli operosa, sordida e immensa, è quasi come se riconoscessimo in lui un nostro trisavolo che, gambe in spalla, si avvia verso un futuro pesante di incognite, di altre angherie e sopraffazioni, ma pure di conquiste e diritti. Con un occhio ai truci albori del capitalismo e uno ai moderni incubi del sottosviluppo, Oliver Twist è un film assolutamente coerente all’interno dell’opera di Polanski. Nell’odissea dell’orfano londinese, il regista sembra proseguire il suo discorso sulla mostruosa sproporzione tra il Potere e la nuda fragilità dell’individuo. Direttori di orfanotrofi o poliziotti, dall’alto delle loro tenebrose tube nere (vedi, ancora, foto sopra) i rappresentanti dell’ordine sembrano gli arcigni borghesi che in quegli stessi anni venivano punzecchiati dal caricaturista Honoré Daumier. E laggiù in basso, sotto la cattedra del professore, la scrivania del burocrate, il banco del giudice o dello sbirro, sta infimo, come un insetto o un imputato kafkiano, l’innocente.
«È un romanzo che ho letto e rilette. Non mi stanca mai, ci scopro sempre qualcosa di nuovo» spiega Polanski «e mi sembrava mi desse l’occasione per fare qualcosa di diverso rispetto ai miei film, che non sono mai stati esattamente per un pubblico di famiglie».
Questo lo è (ma la cosa non va a suo demerito). Non è invece uno di quei film che ricattano le nostre ghiandole lacrimali con un melenso ragazzino superstar. Il baby divo di turno di cui, all’uscita, senti dire inesorabilmente: «Bravo, bravissimo. E così naturale». L’Oliver Tsvist interpretato da Barney Clark (che nel frattempo è tornato a frequentare le scuole medie) è un protagonista assai poco invadente. Dalla recitazione schiva e con una spontaneità quasi dimessa. Magari ce lo ritroveremo nel prossimo Harry Potter. Ma la sua magia più bella l’ha già fatta. Certo, con lo zampino di quel demonio di nonno Roman.
Da Il Venerdì di Repubblica, 14 ottobre 2005


di Marco Cicala, 14 ottobre 2005

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