Irene Bignardi
La Repubblica
Gli adulti (e i cinefili) non piangono, dice una regola non scritta: per cui adulti (e cinefili) si asciugano furtivamente le lacrime all’uscita da certi film, come se le emozioni che il cinema scatena non fossero ammissibili. Per tacere dei critici, che tendono a vedere l’abbandono alle emozioni come un pericoloso attentato alla loro obiettività.
Uno dei vantaggi di essere un critico-donna, però, è il diritto alle lacrime. E penso che Philadelphia sia un film che, senza esercitare un ricatto emotivo e senza eccedere sul pedale della pietà, muove inevitabilmente alla commozione, e per delle ottime ragioni - che sono ragioni al negativo. Perché non è un film furbo, o non soprattutto. Perché non è un film consolatorio - in quanto è difficile riuscire a consolarsi di fronte a una tragedia che tocca tutti, anche gli indenni. E per almeno tre ragioni al positivo. Un attore strepitoso, che riesce a fare della sua faccia comune e senza caratteristiche un volto simbolo della dignità della sofferenza. Una sceneggiatura molto intelligente -di Ron Nyswaner - che incarnando il punto di vista del film nel personaggio dell’avvocato di colore Denzel Washington, e facendone il portavoce di tutti i pregiudizi contro gli omosessuali, prende per mano lo spettatore e glieli smonta uno per uno sotto il naso. E infine la regia: raffinata senza esibizionismi, classica senza che manchi di invenzioni. Inoltre, a ben guardare, il film non è neanche soltanto o soprattutto un film sull’Aids, su questo dramma immane che non lascia indenne nessun nucleo, famiglia, gruppo sociale. E un film sulla giustizia e sul diritto alla giustizia. Sul diritto di essere visti e condannati -il licenziamento in tronco del giovane avvocato non è forse una sottospecie di condanna, nella competitiva e feroce società yuppie? - per quello che si è fatto, non per quello che si è.
D’altra parte, se non è un film sulla giustizia un film che vede affrontarsi da una parte e dall’altra di un’aula di tribunale, secondo il modello classico del courtroom movie, un avvocato (Tom Hanks), che assistito da un altro avvocato (Denzel Washington) attacca un grande studio di avvocati (rappresentati principalmente dall’antipaticissimo Jason Robards), assistiti da una non meno odiosa avvocatessa (Mary Steenburger, soave e insopportabile: il suo eloquio è ritmato da una tal serie di “fatto” da sembrare una berlusconide...).
La malattia, il decadimento, la morte, ci sono, certo:
ma inseriti in una voglia di giustizia e di riscatto della dignità personale che lascia poco posto al patetismo per affermare invece l’esigenza del diritto.
E, certo, ci sono scene “furbe”: la più celebre delle quali è quella in cui Tom Hanks, ormai molto malridotto, ascolta un’incisione di Maria Callas che canta La mamma morta dall’ Andrea Chénier, lasciando per sempre nella memoria dell’avvocato Washington il ricordo di una sensibilità e di una sofferenza di cui non potrà più liberarsi.
Philadelphia è stato presentato a suo tempo ed etichettato poi come il primo film hollywoodiano che abbia spezzato il tabù del silenzio sull’Aids. E vero. Fino a due anni fa in America solo un film marginale come Che mi dici di Willy aveva affrontato l’argomento. Quanto a And the Band Played on, che fa la storia della ricerca sull’Aids, era un film istituzionale senza molto cuore. Philadelphia colpisce nel segno perché è semplice, forte, classico, senza indulgenze (o quasi): un pamphlet in forma di grande romanzo, che ha sicuramente qualche dose di buonismo di troppo - sono tutti così civili, così politicamente corretti dalla parte di Tom Hanks, dal “fidanzato” Antonio Banderas alla sua famiglia; e tutti così infidi, così duri sotto le belle grisaglie e gli eleganti tailleur della gente bene dalla parte dei suoi persecutori.
Ma la voce della Callas che risuona nel finale e perseguita Denzel Washington con il ricordo dell’amico scomparso, ci dice che c’è un virus più pericoloso di quello dell’Aids: il virus della tolleranza, che si può scoprire e coltivare anche in ritardo. In questo senso il film di Jonathan Demme lavora in profondità.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996