Senso

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Un film di Luchino Visconti. Con Massimo Girotti, Rina Morelli, Farley Granger, Alida Valli, Christian Marquand.
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Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 115 min. - Italia 1954. MYMONETRO Senso * * * * - valutazione media: 4,17 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Emozioni e passamaneria nel cinema di Visconti Valutazione 5 stelle su cinque

di AlfioSquillaci


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martedì 4 ottobre 2016

Intravisti oggi in tivù (Raimovie, 12:15) alcuni passaggi di “Senso” di Luchino Visconti, uno dei film del regista aristocratico milanese da me più amati e stravisti. Visione di alto rango melodrammatico della storia intesa come plot (un amore di una dama italiana per un ufficiale austriaco, questo il coraggioso intreccio di una delle novelle più belle di Camillo Boito, del 1883,  da cui è tratta la pellicola) e sontuosa trattazione, dal punto di vista stilistico, visivo-cinematografico della Storia con le sue scene perfettamente ricostruite a dare l’air du temps di un’epoca estinta e che solo la lanterna magica del cinema-cinema poteva riportare in vita. Oggi che migliaia di scene romanzesche e cinematografiche ci sono sfilate davanti (si potrebbe dire che abbiamo visto più immagini mediate che immediate, abbiamo più “visto” che “vissuto”) questo straordinario miracolo compiuto dal cinema ci lascia freddi e impassibili come pesci sul banco della pescheria, perché sazi in fondo. Siamo come degli aristocratici che ne hanno viste “di ogni”, giunti oramai a un livello di sibaritismo amorfo in cui le emozioni rimbalzano sulla corazza della nostra sensibilità indurita dalla sazietà.
Ma quando ancora la pelle della nostra sensibilità era tenera e ricettiva, quando si era piccoli e bastava la proiezione in cinemascope delle prime scene di un film in technicolor ci sentivamo  come il “primo uomo” (nozione/immagine di Camus) alla vista del mondo al suo sorgere, ancora edenico e incantato.

Il perfido Arbasino (lui sì un sibarita delle zone alte dello spirito, ma sempre insaziabile) con molta cattiveria critica in “Ritratti italiani” tacciava Visconti e Giulio Einaudi di essere «gli ultimi autentici valvassini italiani. Gli ultimi capaci di conservare con tutto l’aplomb necessario un istituto feudale ormai sputtanato e scomparso»,  un valvassino, Visconti, che subordinava la Poesia alla Passamaneria per via dell’abbondare di tendaggi, di interni sontuosamente arredati, di crinoline e di vesti struscianti. Questo il passo che merita di essere ripreso per intero tanto è bello anche se non lo condividi e fai no con la testa, epperò diomio come lo scrive bene:

===Visconti tutto solo voltava le spalle al presente e creava spettacoli di straordinaria bellezza formale scegliendo  opalines («comuniste»?) e studiando accordi di colore sempre più squisiti per épater a colpi di «sophistication» parigina d’anteguerra un pubblico in gran parte ignaro degli ultimi decenni della storia del teatro europeo. Nello stesso tempo gli accadeva perciò di dare origine alla scuola cinematografica più perfetta e funesta degli anni recenti: quella che invece re-inventare criticamente un’epoca o suggerire un’atmosfera con un’invenzione «fatta di niente »  (alla Bérard) o con un solo oggetto significativamente scelto (alla Brecht dopotutto), si accanisce nel pedante rifacimento archeologico-sartoriale di intere località, nella ricerca di cassepanche o di caffettiere «d’epoca» ai marchés aux pouces, nella subordinazione sistematica della Poesia alla Passamaneria.===

Invero il miglior Visconti si trova proprio nelle pellicole come “Senso” in cui la trattazione alto-borghese o aristocratica, supremamente stylish dello specifico filmico  gli consentiva un voltaggio espressivo alto-mimetico più consentaneo all’aristocratico fin de race che egli era. “Senso”, “Il Gattopardo”, “La caduta degli dei”, “Morte a Venezia”, “Ludwig”, “Gruppo di famiglia in un interno”, “L’innocente”, ovvero la trattazione narrativo-filmica dell’upper class, era il suo vero mondo etico-estetico. Nel  caso in ispecie, a quale economia di mezzi narrativi doveva, secondo Arbasino,  ricorrere Visconti nella ricostruzione cinematografica di Milano sotto gli austriaci? Un solo oggetto significativamente scelto alla Brecht? Cioè una sciabola qua, un kepì da soldato invasore lì, disposti  allusivamente e significativamente? Visconti invece si avvale di tutto il corredo visivo fornito dalle testimonianze storiche, vuole ricostruire sensuosamente un tempo e un’atmsfera, tale che se Alida Valli e Farley Granger si devono baciare lo faranno à la maniere del “Bacio” di Hayez, plasticamente e pittoricamente.  Dov’è l’errore?

Di contro, il Visconti nazionale e popolare che si salva è solo quello di “Ossessione” (per via della materia erotica: un Massimo Girotti e una Clara Calamai strepitosi)  più che per il ritratto di un ambiente sociale che pure ha la sua malia con la Bassa miracolosamente restituita nei suoi umori terragni, mentre “La terra trema” e “Rocco e i suoi fratelli” furono un pedaggio pagato all’intellighenzia di sinistra, allora egemone, e senza il quale Visconti sarebbe rimasto allo scoperto, come, nei decenni seguenti, un De Gregori senza l’appoggio tacito del Politburo comunista e del popolo di sinistra.

Le punzecchiature delle “opalines comuniste” di Arbasino trovano una facile spiegazione che necessita di una chiosa aggiuntiva. Ad “Ossessione” aveva collaborato come sceneggiatore l’intellettuale comunista allora più organico sulla piazza come Mario Alicata, ma per “La terra trema” –  una versione  cinematografica dei “Malavoglia” di Verga – il pedaggio pagato al realismo socialista fu eccessivo e grottesco. Visconti nell’ultima scena lancia il giovane ‘Ntoni, come una specie di sindacalista dei poveri pescatori, a capo della ribellione, della rivolta. Quanto di più estraneo allo spirito e alla lettera di Verga,   al suo fatalismo greco-siculo, sotto il cui carico egli piegava i suoi “umili”, chiudendoli in un  universo mentale ove essi accettano sempre  la propria condizione “ex ananchaia tyche” (Euripide, “Medea”) ossia “per fatale necessità”, termini usati  letteralmente da Verga nell’ultima novella di “Novelle rusticane”, “Di là del mare”. Descrivendo il paesaggio, ossia le quinte dove si svolgeva la sua “tragedia greca” campestre, lo definisce testualmente: “Sfinge misteriosa, che rappresentava i fantasmi passeggieri, con un carattere di necessità fatale“.   (Tema quello della necessità fatale  peraltro molto vivo presso il popolino siciliano stesso quando afferma davanti al male, alla malattia, alla morte il fatidico e tautologico “iera ristinu“, “era destino”, “era destinato”, abbassando il capo e stringendosi nelle spalle, annegando nel fatalismo più cupo  e tautologico tutto il ruotare del cielo e della terra, e il vivere e morire quaggiù).

18 settembre 2016

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