Io ricordo

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Vi racconto Borsellino e Falcone visto che non ne parla più nessuno

di Marco Romani Il Venerdì di Repubblica

Dagli scherzi che cominavamo da bambini ai giorni della paura nell'età adulta: un po' fiction e un po' documentario, In «Io ricordo», prodotto da Gabriele Muccino, le vittime della mafia come rammentano i parenti. «Perché» dice il regista «questo paese ha bisogno esempi».
Giovanni Falcone da bambino fece con lo spadino la zeta di Zorro sulla tappezzeria della nonna. «Quella sera mio padre» dice Maria, sorella del magistrato ucciso nel 1992 «non gli diede il bacio della buona notte: "Devi imparare a rispettare le cose degli altri". Quell'insegnamento Giovanni se l'è portato dietro per tutta la vita». In Io ricordo, il docufilm promosso dalla Fondazione progetto legalità e diretto da Ruggero Gabbai, scorrono immagini di sangue sull'asfalto, vetri di auto in frantumi, sagome di gesso. E le parole dei parenti delle vittime della mafia. «Mio marito Libero» dice Pïna Grassi «fece le prime denunce contro il pizzo all'associazione industriali. Ma gli risposero che lui voleva farsi solo pubblicità».
Un po' documentario e un po' fiction (dove un papà, Gianfranco Jannuzzo, racconta al figlio cos'è la mafia), Io ricordo rivela anche il carattere privato degli uomini che hanno combattuto i boss. «A sedici anni» dice Manfredi Borsellino, figlio di Paolo «mia padre mi regalò un motorino. Ma dopo un mese mi costrinse a darlo a una famiglia vittima di mafia per aiutarla a guadagnarsi da vivere».
Peppino Impastato, invece, Cosa Nostra ce l'aveva in casa.
Ricorda il fratello Giovanni: «Papà gli disse: "Fai pure il comunista, vattene in Russia, ma non parlare mai di mafia". Ma lui denunciò e mise in ridicolo i potenti della zona. E per questo fu ucciso». Prodotto dalla Indiana di Gabriele e Silvio Muccino, Io ricordo è stato ideato per essere proiettato nelle sale e nelle scuole e per contrastare il «revisionismo» della memoria antimafia. Che, come è accaduto a Comiso a fine agosto, fa cambiare il nome all'aeroporto. E, al posto dell'intitolazione a Pio La Torre (ucciso su ordine di Totò Riina nel 1982), viene scelta quella a Vincenzo Magliocco, un generale morto durante l'occupazione fascista in Etiopia.
Gabriele Muccino, dopo gli arresti eccellenti la mafia non sembra più un'emergenza. Perché produrre «Io ricordo» proprio ora?
«Quando ascolti i racconti dei parenti delle vittime della mafia, quando vedi i volti, le loro lacrime e la loro dignità, non riesci a restare indifferente. Dall'incontro con la Fondazione progetto legalità presieduta da Gaetano Paci è nata l'idea di un film collettivo perché vogliamo che esca dal silenzio la smemoratezza di uno Stato che non sempre è capace di assicurare giustizia e di trasformare la memoria di questi grandi e piccoli eroi nazionali in buon esempio».
Eroi di cui si parla sempre meno, in effetti...
«Eppure, queste persone, pur sapendo che stavano mettendo a rischio la propria vita, hanno portato avanti i loro valori. Sono degli esempi che questo Stato, che spende parole vane a ogni celebrazione, proprio non merita». Vivendo a Los Angeles, le è mai capitato di dover raccontare la mafia a un americano? Che parole ha usato? «La mafia è un modo di pensare che appartiene anche a persone che non sono affiliate a Cosa Nostra. È mafia l'atteggiamento di chi vuole ottenere il proprio bene personale a spese del bene collettivo. Vivendo negli Stati Uniti e vedendo il nostro Paese da una certa distanza, mi accorgo che quello che manca di più è il senso civico e di appartenenza allo Stato, alle sue regole e alle sue leggi. È come se l'obiettivo di noi italiani fosse ingannare lo Stato per ricavarne un profitto personale».
Perché raccontare anche gli aspetti più personali delle vittime di mafia?
«Dobbiamo far capire che questi eroi erano degli uomini, fatti anche di debolezze e di paure. Attraverso la voce dei parenti cerchiamo di raccontare come la loro forza morale nascesse dall'affetto famigliare. Volevano essere migliori per i loro figli e per la loro terra. E questo vale per i magistrati, per le forze dell'ordine, ma anche per gli imprenditori che hanno lottato per mantenere sana un'azienda».
Quale storia, da un punto di vista umano, l'ha colpita maggiormente?
«Mi ha molto commosso vedere questi genitori, incrollabili e così dignitosi nel loro dolore. Quello che chiedono è giustizia e legalità. Uno Stato che non sa dargliela dovrebbe vergognarsi».
Negli Stati Uniti resiste ancora lo stereotipo dell'italiano mafioso?<br/> «Da quando sono qui, nessuno, per allusione o per scherno, mi ha mai associato alla mafia. Anzi, l'Italia è vista con molta ammirazione e invidia. Certo, la Sicilia è ancora considerata come terra di mafia, ma molto dipende da ciò che il cinema ha raccontato. A volte anche con un certo sentimentalismo, come nel Padrino, e un certo fascino, come nei Sopranos. In Io ricordo non ci sono invece né benevolenza né paternalismo, ma solo una scia di malvagità e di infamie».
Con «Io ricordo» è nato un Gabriele Muccino impegnato?
«Quando faccio un film o quando lo produco, non mi chiedo mai se sto facendo una cosa politicamente impegnata, cerco solo di farla al meglio. Vado dove mi porta il cuore».
Da Il Venerdì di Repubblica, 12 settembre 2008

di Marco Romani, 12 settembre 2008

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