|
Il grande talento di Spike Lee, regista orgogliosamente afroamericano originiario di Atlanta e newyorkese di adozione, ha uno dei suoi migliori risultati in un film che, con l'intento - meritevole - di divulgare la musica jazz ai fratelli neri giovani, che la conoscono poco, mostra quanto egli ami il cinema, quanto sia intrigato dal dispiegamento di una biografia, anche se fittizia, fatta di una specie di summa di molti musicisti jazz. Avrebbe voluto intitolarlo “A love supreme”, capolavoro di John Coltrane e uno dei capolavori della musica tutta, ma la vedova del grande sassofonista non concesse i diritti giudicando il film troppo volgare. Il titolo che Lee scelse è anche un modo di dire riferito al sesso (del resto lo stesso termine jazz da quello deriva). Il protagonista antepone il jazz a tutto, anche alle donne (ne ha due), e dopo molte peripezie matura e scopre, gode finalmente delle gioie della vita domestica. Lee conosce bene il jazz, suo padre é bassista e compositore e il suo amico sassofonista Brandon Marsalis - fratello del grande Winton, leader dei jazzisti tradizionalisti – lo ha aiutato sia per la musica (eccellente, in gran parte di Bill Lee e Brandon Marsalis ma anche dei giganti Coltrane, Davis, Mingus e dell'ottimo contemporaneo Terence Blanchard) che per la storia. Ma il film non conta tanto per questa, un melodramma sentimentale non particolarmente profondo e con i personaggi non neri piuttosto stereotipati, ma per il sentimento della messa in scena e la qualità compositiva dell'immagine, per le quali Lee é particolarmente apprezzato. Fantastico Denzel Washington: se il film sta insieme lo si deve anche a lui, efficace nelle parti serie come in quelle di commedia e nel triangolo con le due protagoniste femminili; piacerà molto alle donne. Anche il cast di supporto fa un buon lavoro. Bellissima la fotografia di Ernest Dickerson per spessore, profondità e brillantezza dei colori. Nonostante molti dei più grandi jazzman fossero stati almeno per un periodo della loro vita tossicodipendenti non si parla di droga (tema che il regista affronterà nel successivo “Jungle Fever”), che Lee condannava fortemente e che fu causa per lui di un dramma familiare con l'allontanamento da suo padre, al quale questo film era anche un regalo, quando questi fu per l'ennesima volta arrestato per possesso di eroina, due anni dopo l'uscita del film. Il regista, che aveva già girato uno spot elettorale delle primarie di Jessie Jackson per la guerra alla droga nel 1988, vedeva in essa non solo l'autodistruzione dell'individuo ma anche - come Pasolini - uno dei principali agenti della criminalità. Una delle fonti di ispirazione del regista fu la biografia di Miles Davis, che Lee aveva diretto nel 1986 in un videoclip per l’album “Tutu”. “Mo' Better Blues” fu presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia senza la presenza dell'autore, ancora offeso perché al Festival di Cannes con il precedente “Fà la cosa giusta”, in anteprima mondiale e uno favorito per la Palma d'Oro, non ebbe nessun premio, chiaramente per motivi politici. Tanto di cappello alla sincerità di un autore (anche se Miles Davis non avrebbe approvato la sua vicinanza alla Nation of Islam di Louis Farrakhan, lui che stava con le laiche e progressiste Pantere Nere). Comunque, un tributo alla cultura nera di cui Spike Lee é il maggior rappresentante al cinema.
[+] lascia un commento a angelino67 »
[ - ] lascia un commento a angelino67 »
|
twitter
diventa fan
