La collina del disonore

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Un film di Sidney Lumet. Con Sean Connery, Alfred Lynch, Michael Redgrave, Harry Andrews, Ian Bannen.
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Titolo originale The Hill. Drammatico, b/n durata 122 min. - Gran Bretagna 1965.
   
   
   

Quando la pena non rieduca Valutazione 4 stelle su cinque

di R.A.F.


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domenica 6 ottobre 2019

Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, il film è una potente denuncia antimilitarista, anche se più che contro la guerra, si schiera contro i metodi del potere, e soprattutto contro i suoi abusi.
La scena si svolge tutta in un campo di prigionia britannico dove i detenuti sono tormentati fisicamente e psicologicamente da carcerieri militari, che li disprezzano per le colpe di cui si sono macchiati: dal semplice furto, alla rissa, fino alla codardia, considerata ovviamente la più grave. Osservando da vicino guardie e prigionieri, ci si rende ben presto conto che la vigliaccheria più grande appartiene ai secondini, sadici fanatici convinti di poter raddrizzare i prigionieri con la forza, per farne dei veri soldati.
Il film scorre lento e inesorabile come le giornate dei prigionieri, scandite dagli insulti e dalle angherie dei secondini, e soggiogate dello spettro della collina, finché la morte di uno di loro, sfiancato dalla fatica, sembra rimettere tutto in discussione. Ma l’illusione dura poco.
In realtà nel film di Lumet c’è molto di più: un approfondito studio psicologico dei personaggi, in tutte le loro sfumature, ne fa un’impietosa carrellata delle debolezze umane. Persino gli aguzzini si differenziano tra loro, pur nel cieco rispetto della disciplina che li contraddistingue, perché “senza disciplina non esisterebbe un esercito”: Wilson, il sergente maggiore, è duro perché convinto che sia necessario, il sergente Williams, suo sottoposto, sceglie la prepotenza come forma di rivalsa personale, mentre Harris ancora conserva una parvenza di umanità. E c’è anche chi, come l’ufficiale medico, “non decide niente, fa quello che gli dicono”.
Non manca neppure un vago tentativo di assoluzione di tanta assurda crudeltà, proprio nelle parole del soldato Roberts, vittima designata di quella stessa violenza: “Qui le guardie sono prigioniere come noi”. Prigioniere del caldo asfissiante che toglie il respiro e annebbia la mente, ma ancor più prigioniere di quella ferrea disciplina che li costringe a far tacere le proprie coscienze. Sempre per bocca dei suoi personaggi Lumet pone tutta una serie di domande destinate a non trovare risposta, se non nella coscienza dello spettatore: ci si deve ribellare a un superiore quando i suoi ordini sono palesemente sbagliati o ingiusti? E che fine farebbe l’esercito se non si potesse più contare sulla cieca obbedienza dei sottoposti?
Il film appare oggi un po’ datato per la recitazione, fortemente espressiva ma un po’ teatrale, la fotografia drammaticamente esaltata dal bianco e nero e l’assenza di una qualunque colonna sonora, che amplifica la crudeltà dei dialoghi e delle immagini. Rimane tuttavia attuale nelle tematiche, riprese in tempi più recenti, con linguaggio sicuramente più moderno, da film come Codice d’onore o Il castello: la collina faticosamente scalata e ridiscesa all’infinito, senza altro scopo se non tormentare e umiliare i prigionieri, si trasforma nell’estenuante quanto inutile costruzione del muro di pesantissimi mattoni che angoscia e perseguita i carcerati del Castello, mentre l’eterno dilemma tra la cieca obbedienza agli ordini dei superiori e la fedeltà alla propria coscienza si ritrova in Codice d’onore. Ma mentre le pellicole più recenti hanno cercato di riscattare le vittime con un finale che riequilibra almeno in parte la bilancia della giustizia, la conclusione del film di Lumet non lascia spazio ad alcun riscatto ed è l’unico possibile epilogo di tanta insensata follia.

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