Recensione campo di battaglia Sono andato al cinema con grandi aspettative, Amelio è un regista che mi piace molto e la partecipazione i all’81° Biennale del Cinema di Venezia era un ottimo biglietto da visita. Ne sono uscito profondamente deluso per diversi motivi. Iniziamo dal problema forse più grande, che riguarda la scrittura e fa perdere consistenza all’intero film. Si vorrebbe presentare il personaggio di Stefano Zorzi (Alessandro Borghi ) come una sorta di paladino della moralità, come unico portatore di umanità in una guerra che disumanizza in opposizione a Giulio Farrasi (Gabriel Montesi) zelante sostenitore della guerra e portatore di quell’ideale ancora risorgimentale per il quale fatta l’italia andavano fatti gli italiani, ovvero “uomini nuovi”, avvezzi al dovere etc. All’inizio del film si vede come quest’ultimo giudichi come vigliacchi e truffatori i soldati ricoverati, molti dei quali effettivamente si sono provocati intenzionalmente delle lesioni per tonare a casa. Zorzi invece opera delle mutilazioni sui feriti con l’obiettivo di farli tornare a casa, si comporterebbe come un “salvatore” e “buon medico” e soprattutto un individuo che agisce con testa propria, senza rimanere preda di un sistema spietato. Questo sostanzialmente è il tema principale attorno al quale si sviluppa la narrazione. Mi sfugge tuttavia dove possa risiedere l’eccellenza morale di queste azioni, la compassione, difatti tanti uomini tornavano a casa creando dei “buchi” tra le fila quanti sarebbero stati chiamati al fronte dalle nuove leve per rimpiazzarli, esattamente come avvenne nel 1917 dove furono chiamati in trincea i giovani della classe 1899 (dunque poco più che adolescenti), i quali inizialmente non avrebbero dovuto combattere al fronte (ciò avvenne in seguito alle ingenti perdite avvenute con la decima offensiva delI’ Isonzo e la battaglia dell’Ortigiara). Lo stesso accade nel 1918 con la chiamata alle armi dei ragazzi nati nel 1900. Lo si può quindi chiamare medico “dal buon cuore” come la narrazione del film lo vorrebbe far passare? Si tratta a mio parere di un medico che fa tornare a casa persone adulte le quali in ragione dei traumi provocati dal conflitto si automutilano, per condannare a morte dei ragazzi perpetuando in tal modo la spirale di morte senza porvi una fine ma semplicemente spostandola altrove. Pulendosi superficialmente la coscienza il dott. Zorzi preferisce salvare chi si trova davanti ai suoi occhi e perde di vista completamente il quadro più generale: giovani esseri umani sarebbero ugualmente morti, magari sul campo, in altri ospedali, ma non in sua presenza e forse in tal senso la frase che si sente ripetere più volte nel corso del film: ”Qui non muore nessuno” assume un significato più profondo. Nel non prendere in considerazione ciò, nell’adozione di una narrazione che nemmeno troppo velatamente encomia “l’umanità” di questo medico il film sbanda completamente, privando di consistenza il materiale del racconto. Potremmo dire con Nietzsche (in voga in q che il dottor Zorzi infine non è altro che l’esempio di uomo del ressentiment, che non riesce a guardare la realtà nella sua interezza, che la teme, che ha bisogno di sentirsi più che di essere effettivamente buono. Ci sono poi errori di regia che uno spettatore attento non può fare a meno di notare e storcere ripetutamente il naso in più occasioni. Certamente ne è un esempio la non direzione delle comparse e delle figurazioni speciali: soldati che si apprestano a fucilare un condannato che non sanno marciare e non ci provano nemmeno. Sembra che camminino per strada come se fosse un giorno qualunque. Sempre nella stessa scena una lunga carrellata ritrae il pubblico di infermi e militari che assisterà all’esecuzione, sono seduti all’esterno dell’ospedale. Dove sarebbe il problema? Ci troviamo in Friuli e sulle montagne la neve è abbondante ma tra le persone che animano la scena non c’è il minimo accenno alla sensazione di freddo, sembra che le figurazioni siano sedute aspettando semplicemente di essere inquadrate, nessuno sta vivendo la scena. Sulla stessa linea ho trovato fastidiosi gli attori che interpretano soldati provenienti da più parti d’Italia che quando parlano alternano il dialetto ad un Italiano sporcato ma pienamente comprensibile. Forse Amelio aveva l’intenzione di ritrarre le difficoltà comunicative tra soldati dello stesso paese che parlavano lingue diverse ma lo ha fatto maldestramente. Non dimentichiamo che nelle trincee c’era un vero problema di comunicazione, spesso i soldati non capivano gli ordini, i dialetti dell’epoca erano molto più forti di quelli attuali, spesso c’era ben poco di lingua italiana, e non è stato fatto un lavoro per raccontare onestamente questa realtà che spesso aveva esiti tragici. La questione è stata banalizzata e presa superficialmente. Gli attori parlano con l’accento di oggi, non parlano una lingua come poteva essere il siciliano o il lucano e l’aggiunta dei sottotitoli è pleonastica in quanto i dialoghi sono facilmente comprensibili al pubblico. Ulteriore difficoltà nel credere a ciò che si vede è rappresentata dai soldati in reparto: quando la telecamera passa tra i letti non si percepisce in alcun modo la loro sofferenza. Se non fosse per il trucco che mette in evidenza quelle tremende ferite, ustioni etc, la scenografia, i costumi macchiati di sangue, non avrei la percezione del dolore. Nella recitazione l’abito contribuisce a fare il monaco, ma se non si è minimamente monaco il pubblico se ne accorge. Stesso discorso vale in quei momenti in cui i pazienti parlano con i medici. Gli attori dicono la loro battuta, sono truccati ma in pochissimi casi ( come quello del bambino) mi è arrivata un’autentica patimento, nel resto ho ascoltato le loro parole, ma non ho provato compassione per loro. La comunicazione non passa solo per le parole, ma anche nel modo in cui vengono dette. Stridevano. E queste non sono solo mancanze degli attori, il regista deve dirigere gli attori, ho visto attori mediocri ben diretti dare vita ad ottime interpretazioni e bravi attori diretti male farne di tremende. Ho notato poi errori grossolani di regia e recitazione nei quali era coinvolta Federica Rosellini. Nel primo caso il suo personaggio guarda un campione al microscopio in una stanza molto buia perdipiù senza alcuna luce che illumini da sotto il vetrino. Si potrebbe pensare che si tratti di un errore tutto sommato non grave, se non si è medici o biologi non si possono sapere certe cose, eppure non bisogna essere specialisti per capire che in quelle condizioni non si può osservare un bel niente. La gravità non sta nell’azione in sè, ma nel significato che essa assume quando parliamo di recitazione: ci si rende conto che l’attrice non sta vivendo la scena, non crede nell’azione che compie, semplicemente e meccanicamente la compie perchè così è scritta nel copione. Il suo personaggio ha studiato medicina, sa come utilizzare un microscopio. Da un punto di vista attoriale lo trovo un errore non da poco, mi fa rendere conto che ciò a cui sto assistendo non solo è una finzione ma una messa in scena, il che è diverso. Altra problematicità risiede in un’altra scena, presente tra l’altro nel trailer in cui Anna (Rosellini) si trova tête-à-tête con il dott. Zorzi al di fuori del ricovero della trincea. Di nuovo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti ad una mise-en-scene piuttosto che ad una realtà vissuta e sentita dagli attori. Forse con questo momento di intimità si voleva raccontare un possibile legame sentimentale non ancora esplicito tra i due? O semplicemente un momento in cui due esseri umani provati dalle difficoltà del conflitto e dal trovarsi come personale sanitario in un’epidemia senza controllo che miete vittime, hanno bisogno di un contatto umano? Ma ci possono anche essere altre interpretazioni sulle quali non mi interessa soffermarmi. Credo che l’ambiguità della scena sia voluta. La questione è che nelle scene precedenti, prima che Zorzi si ammali i due girano con la mascherina per evitare di venire contagiati dai soldati. Quando Zorzi inizia a star male dando i segni dell’avvenuto contagio lei continua a stare con lui, a dormire nella stanza per poi raggiungere il massimo con quell’intimità, però contestualmente e in maniera del tutto incoerente continua a mettere la mascherina in presenza dei malati in reparto. Ma non finisce qui, in un’ulteriore scena Anna giunge al letto di un paziente e gli copre la testa con la coperta, segno che il soldato è morto e fa ciò senza aver preliminarmente sentito il polso, il respiro etc. Insomma senza avere nessun dato che possa dirle che quel paziente è morto. Compie l’azione tanto per compierla.
Pertanto anche per questi ultimi due casi descritti vale il discorso fatto precedentemente: ho avvertito la meccanicità dell’azione, la falsità, il non interrogarsi e non vivere la contingenza del personaggio . Sembra poi che sui costumi sia stato compiuto un lavoro a dir poco approssimativo. Anche in questo caso ho perso il senso della realtà nei confronti di ciò che stavo guardando. Da una parte c’è stata grande cura e attenzione nella scelta dei costumi, nell’uso di uniformi etc uguali a quelli usati all’epoca, dall’altra i camici erano bianchissimi ( più bianchi di quelli che si vedono nei moderni reparti) circostanza alquanto irrealistica nello scenario di un ospedale delle retrovie verso la fine del conflitto, pieno di pazienti con sangue da tutte le parti. Le uniformi dei soldati, se si esclude qualche schizzo di sangue e qualche strappo vistosamente artificioso risultano nuove. Non è stato fatto alcun lavoro di invecchiamento su uniformi che sarebbero dovute essere decisamente rovinate. Lo stesso vale per gli accessori come cinghie di pelle che reggono i fucili completamente nuove e senza alcun segno di usura. Tutte queste osservazioni potrebbero sembrare le note di uno spettatore troppo puntiglioso e soprattutto superflue, ma credo che il senso del vero in film di questo tipo sia fondamentale e non è stato veicolato in alcun modo, dalla regia alla recitazione passando per costumi e scenografia. In tutto ciò ovviamente la responsabilità maggiore la ha il regista, colui che dirige il set e dà precise direttive durante la fase di preparazione. Quando vedo un film, soprattutto in una sala cinematografica voglio immergermi in ciò che vedo, ci voglio credere senza remore in questo consiste il patto narrativo, giusto? In questo caso ogni volta che provavo a godermi lo spettacolo venivo respinto, ed è un vero peccato. Le opere d’arte possono provocare i sentimenti e le reazioni più svariate, possono portare allo straniamento, al disgusto ma non devono mai e poi mai respingere lo spettatore, altrimenti non sono opere d’arte.
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max pax
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giovedì 23 gennaio 2025
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semi delusione
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Analisi ineccepibile, anch''io non ho provato quel pathos che avrei voluto provare. Certe incongruenze le ho notate, anche quando i carabinieri lasciano, marciando, il luogo di esecuzione, uno in particolare fa manovre completamente diverse dagli altri. Il film in sé voleva raccontare l''essere umano,nel contesto di un conflitto prima e pandemico poi, in più sfaccettature, senza generare nel volto degli attori in generale quella presenza di espressione propria che si avrebbe dovuto trasmettere allo spettatore. In sintesi, molto plastico, meccanico e artificioso. Solo qualche sprazzo di scena ha convinto, ma assorbito poi dalle mancanze sopra.Ho vissuto una parte di quei luoghi durante la mia attività lavorativa in Friuli, luoghi inperniati di storia, quella storia che nel silenzio spezzato dal fruscio del vento negli alberi è ancora viva.
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Analisi ineccepibile, anch''io non ho provato quel pathos che avrei voluto provare. Certe incongruenze le ho notate, anche quando i carabinieri lasciano, marciando, il luogo di esecuzione, uno in particolare fa manovre completamente diverse dagli altri. Il film in sé voleva raccontare l''essere umano,nel contesto di un conflitto prima e pandemico poi, in più sfaccettature, senza generare nel volto degli attori in generale quella presenza di espressione propria che si avrebbe dovuto trasmettere allo spettatore. In sintesi, molto plastico, meccanico e artificioso. Solo qualche sprazzo di scena ha convinto, ma assorbito poi dalle mancanze sopra.Ho vissuto una parte di quei luoghi durante la mia attività lavorativa in Friuli, luoghi inperniati di storia, quella storia che nel silenzio spezzato dal fruscio del vento negli alberi è ancora viva.
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