gian.ab
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mercoledì 17 marzo 2021
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noioso
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gianleo67
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domenica 24 gennaio 2021
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vendo casa...nel nevada
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Persi lavoro e marito in un colpo solo, la non più giovane Fern inizia una carriera improvvisata di lavoratrice stagionale a bordo di un furgone attrezzato lungo le vie dell'Ovest americano. La sua radicale decisione di non mettere più radici si traduce nelle difficili scelte di rinuncia agli affetti stabili e ad una vita errabonda nel limbo pittoresco dei diseredati d'America. Al suo terzo lungometraggio la polivalente regista cinese Chloé Zhao ritorna con un tema incentrato sulla poetica della marginalità e l'epica delle minoranze (due fratelli nativi orfani di padre, un ultimo mandriano male in arnese) con questo adattamento dell'omonimo libro-inchiesta di Jessica Bruder, sfiorando il nervo sensibile e scoperto delle falle del modello liberista post-subprime e puntando senza tanti preamboli al valore di una scelta radicale e minoritaria che riassume nella decrescita felice e nella riscoperta del contatto con la natura una filosofia di vita alternativa alla comfort zone della stanzialità consumistica.
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Persi lavoro e marito in un colpo solo, la non più giovane Fern inizia una carriera improvvisata di lavoratrice stagionale a bordo di un furgone attrezzato lungo le vie dell'Ovest americano. La sua radicale decisione di non mettere più radici si traduce nelle difficili scelte di rinuncia agli affetti stabili e ad una vita errabonda nel limbo pittoresco dei diseredati d'America. Al suo terzo lungometraggio la polivalente regista cinese Chloé Zhao ritorna con un tema incentrato sulla poetica della marginalità e l'epica delle minoranze (due fratelli nativi orfani di padre, un ultimo mandriano male in arnese) con questo adattamento dell'omonimo libro-inchiesta di Jessica Bruder, sfiorando il nervo sensibile e scoperto delle falle del modello liberista post-subprime e puntando senza tanti preamboli al valore di una scelta radicale e minoritaria che riassume nella decrescita felice e nella riscoperta del contatto con la natura una filosofia di vita alternativa alla comfort zone della stanzialità consumistica. Con un piglio documentaristico che fa però del racconto e della psicologia dei suo personaggi la centralità del suo discorso cinematografico, la Zhao mette in scena l'ariosa dialettica tra gli immensi spazi disabitati di un paese troppo spesso associato alle giungle d'asfalto delle sue immense megalopoli e l'inesplorata terra di nessuno abitata da gli eterni ritornanti di una frontiera americana ormai ridotta all'itinerario turistico di una stagionalità lavorativa che si arrende alla propria condizione di sussistenza; una zona grigia sospesa nello spazio e nel tempo in cui coltivare la dolorosa memoria di affetti perduti e traguardare l'orizzonte senza speranza di un ciclicità produttiva itinerante che dia il sapore e l'illusione di una libertà sempre appena a portata di mano. Nel loop in cui la stessa protagonista (una McDormand costantemente in levare) si ficca volontariamente, la consapevole volontà di espiazione di chi ha fatto scelte magari sbagliate ma che ha confidato esclusivamente sulle proprie forze; ma anche e soprattutto il prototipo umano e credibile di una resilienza civica che ha derubricato il lavoro da irrinunciabile statuto di appartenenza sociale a mero strumento di sussistenza biologica. A dispetto delle apparenze quindi, un film che predilige la poetica umanista all'impegno civile, centrando la sua attenzione sulla dolente condizione di chi vive da nomade nella terra di mezzo di una irrangiungibile felicità e relegando la critica politica alle brevi incursioni pubbliche di un canuto profeta del deserto che piange in privato la prematura perdita del figlio od alle brevi battute sulle speculazioni immobiliari fatte nel comodo giardino di una casa borghese da cui filarsela alla chetichella nell'alba di un giorno qualunque e senza lasciare alcuna traccia di sè. Leone d'oro al miglior film alla 77ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
...quanta polvere c'è dentro casa è tutto un velo...
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eugenio
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mercoledì 20 gennaio 2021
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la strada come metafora forzata di vita
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Nomadland,vincitore del Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia di questo tormentato 2020 appena trascorso, è un film di confine, nel senso letterale del termine, dal quale sembra non poterci essere via di ritorno, un’Espiazione alla Mc Ewan dolente e terribile, un esilio privo di casa, affetti familiari e futuro. Il luogo del senso diventa sottile e incerto come la capacità di vedere oltre, di osservare ancora con gli occhi di un giovane la realtà che appare spietata e crudele e dove "le cose accadono quando le persone non stanno al loro posto dal momento l’ordine delle cose è anche la loro morte”.
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Nomadland,vincitore del Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia di questo tormentato 2020 appena trascorso, è un film di confine, nel senso letterale del termine, dal quale sembra non poterci essere via di ritorno, un’Espiazione alla Mc Ewan dolente e terribile, un esilio privo di casa, affetti familiari e futuro. Il luogo del senso diventa sottile e incerto come la capacità di vedere oltre, di osservare ancora con gli occhi di un giovane la realtà che appare spietata e crudele e dove "le cose accadono quando le persone non stanno al loro posto dal momento l’ordine delle cose è anche la loro morte”.
Fern, una straordinaria Frances Mc Dormand veste proprio i panni di una nomade del Terzo Millennio, una persona semplice come tante oggi, ritrovatasi di punto in bianco senza lavoro per le sempre più frequenti chiusure aziendali dettate da una crisi sociale senza tempo che avvinghia come una morsa impedendo ogni respiro.
Addirittura, storia vera, la chiusura dell’azienda per cui lavora, nel Nevada rurale determina l’abbandono totale di una cittadina costruita attorno ad essa, dall’oggi al domani sparita dalla mappa, inglobata dagli arbusti e dal deserto, senza neanche più un codice postale.
Troppo “vecchia” per riuscire a trovare una nuova occupazione e troppo “giovane” per poter aspirare ad un minimo di pensione utile a garantirle un sussidio sufficiente, a Fern non resta altro che la via della strada su una roulotte, attrezzata con le vestigia di un’esistenza superstite, in cerca di lavori saltuari e una nuova vita sempre più precaria tra lacerti di un’umanità sconvolta dalla crisi ma ancora dotata di grande dignità.
È un viaggio, quello compiuto in Nomadland, opera della regista cinese cresciuta in America, Chloé Zhao, sulle strade del Far-West de-industrializzato, dotato di forte carica realistica e poetica che alterna al volto scavato e duro di Frances McDormand, una serie di visi “colti sulla strada”, i “veri” nomadi: Linda May, Swankie, Bob Wells, i cui volti rimangono incisi nella memoria.
Ma Nomadland non ragiona soltanto sull'istanza escatologica che conduce al declino morale e psichico di una persona quanto alle conseguenze che un'attività lavorativa e la relativa perdita generano nello spirito umano, istanza che si traduce in un viaggio in cerca di spazi aperti quelli ampi e sterminati del deserto entro cui Fern si muove continuamente spostandosi di ranch in ranch, città in città con una roulotte, feticcio col passato.
Cercando di superare la perdita del lavoro e della casetta aziendale, il ricordo del marito morto, secondo l'adagio che “chi viene ricordato da qualcuno non muore mai”, Fern ricerca un po' come un Kerouac della Beat Generation, nella strada la metafora di un cammino interiore e al tempo stesso di una maturazione esistenziale oltre i demoni della sua personale e travagliata vita oramai vacua dopo la morte dei sensi.
La regista indugia volutamente su un paesaggio, volutamente dell'anima, panorama quasi spettrale come può essere il deserto roccioso tra Nord Dakota e Mexico, ai cui bordi di quegli anfratti e rocce si insedia la comunità nomade di cui Fern farà parte alla stregua dei pionieri, sempre ricercando una sua precisa identità. Qualcosa che la porterà infine ad agire contro le regole del tempo forse ricercando quel sentimento di complicità denominato famiglia.
Ispirato all’omonimo romanzo di Jessica Bruder e accompagnato dalle note coinvolgenti e struggenti di Ludovico Einaudi, Nomadland è un film potente, un affresco di un'umanità dolente ma dignitosa, un apologo dei poveri d’oggi, il ceto una volta medio, ora trovatosi più indigente in una forbice che divaria e piega ma non spezza.
Perché Fern, come tutti i nuovi nomadi che dopo un giorno, un mese, un anno si ritrovano per strada (a cui il film è dedicato), ha la forza di rialzarsi e continuare ad andare e andare sempre in direzione ostinata e contraria.
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