stefano capasso
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mercoledì 28 aprile 2021
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i valori della famiglia
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Anni ’80, dalla California una famiglia coreana si sposta in Arkansas per tentare di fare fortuna con l’agricoltura; Jacob vuole coltivare prodotti coreani per rifornire il mercato degli immigrati. Ma la famiglia, moglie e due figli piccoli non vive bene il trasferimento, soprattutto la moglie preferisce le opportunità che una città può offrire. L’arrivo della madre dalla Corea potrebbe alleviare la sua solitudine, ma la donna, tutt’altro che la tipica nonna, trova soprattutto nel bambino più piccolo un’accoglienza ostile. Il progetto di Jacob sembra fallire e ripartire più volte mentre la crisi con la moglie diviene sempre più profonda.
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Anni ’80, dalla California una famiglia coreana si sposta in Arkansas per tentare di fare fortuna con l’agricoltura; Jacob vuole coltivare prodotti coreani per rifornire il mercato degli immigrati. Ma la famiglia, moglie e due figli piccoli non vive bene il trasferimento, soprattutto la moglie preferisce le opportunità che una città può offrire. L’arrivo della madre dalla Corea potrebbe alleviare la sua solitudine, ma la donna, tutt’altro che la tipica nonna, trova soprattutto nel bambino più piccolo un’accoglienza ostile. Il progetto di Jacob sembra fallire e ripartire più volte mentre la crisi con la moglie diviene sempre più profonda.
Lee Isaac Chung racconta una famiglia in cattività, dove ognuno è alla ricerca della propria realizzazione e fondamentalmente di una collocazione identitaria in una terra che non è ancora propria. La mancanza di collaborazione in questa ricerca porta ad un’ovvia crisi che rischia di far saltare definitivamente il già fragile equilibrio, ma è solo quando la crisi, letteralmente, esplode che i protagonisti ritroveranno ciò che è più importante per loro: l’amore famigliare. Minari è una storia insolita e delicata, intima, capace di commuovere e di far sorridere, che vede nella coppia nonna-nipote, il più grande il più piccolo del nucleo, il punto di interesse attorno al quale ruota la storia e che simbolicamente la rappresenta nel suo andamento.
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writer58
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domenica 4 giugno 2023
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film visti nel 2020: minari +4 altri
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Nel 2020 il Covid ha spazzato via, oltre che le nostre vite sociali, ridotte a meri scambi virtuali o contatti distanti mediati da mascherine e guanti, anche l’industria cinematografica, costretta a rimandare anche di due anni la produzione e la presentazione delle opere e a congelare progetti già avviati. Nella mia ricerca di film visti e non recensiti in quel periodo sono riuscito a trovare solo 5 titoli, probabilmente usciti l’anno dopo, film che sicuramente non rimarranno nella storia del cinema.
Un altro giro,del danese Vinterberg, che racconta l’esperimento di un gruppo di amici che decidono di assumere alcool in modo controllato (e a dosi progressivamente crescenti) come rimedio al grigiore esistenziale che li avviluppa, fino a che rischieranno seriamente di contrarre una dipendenza alcolica;
Rifkin’s festival, un film di Woody Allen in trasferta al Festival di San Sebastian, in cui un critico cinematografico ipocondriaco e ultra sessantenne scopre la relazione tra sua moglie e un regista presuntuoso e narcisista;
Il ritratto del Duca, di Roger Michell, un lavoro garbato e inessenziale su un pensionato che ruba un quadro di Francisco Goya per ottenere denaro da spendere in beneficienza;
L’incredibile storia dell’isola delle rose, visto su Netflix, di Sidney Sibilia, un film che narra una vicenda così inverosimile da sembrare assurda, eppure realmente accaduta: La costruzione di una piattaforma al largo delle coste emiliane e fuori dalle acque territoriali italiane chiamata “isola delle rose”.
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Nel 2020 il Covid ha spazzato via, oltre che le nostre vite sociali, ridotte a meri scambi virtuali o contatti distanti mediati da mascherine e guanti, anche l’industria cinematografica, costretta a rimandare anche di due anni la produzione e la presentazione delle opere e a congelare progetti già avviati. Nella mia ricerca di film visti e non recensiti in quel periodo sono riuscito a trovare solo 5 titoli, probabilmente usciti l’anno dopo, film che sicuramente non rimarranno nella storia del cinema.
Un altro giro,del danese Vinterberg, che racconta l’esperimento di un gruppo di amici che decidono di assumere alcool in modo controllato (e a dosi progressivamente crescenti) come rimedio al grigiore esistenziale che li avviluppa, fino a che rischieranno seriamente di contrarre una dipendenza alcolica;
Rifkin’s festival, un film di Woody Allen in trasferta al Festival di San Sebastian, in cui un critico cinematografico ipocondriaco e ultra sessantenne scopre la relazione tra sua moglie e un regista presuntuoso e narcisista;
Il ritratto del Duca, di Roger Michell, un lavoro garbato e inessenziale su un pensionato che ruba un quadro di Francisco Goya per ottenere denaro da spendere in beneficienza;
L’incredibile storia dell’isola delle rose, visto su Netflix, di Sidney Sibilia, un film che narra una vicenda così inverosimile da sembrare assurda, eppure realmente accaduta: La costruzione di una piattaforma al largo delle coste emiliane e fuori dalle acque territoriali italiane chiamata “isola delle rose”. Struttura che, nelle intenzioni del suo costruttore, l’ingegnere Giorgio Rosa doveva diventare un ministato indipendente riconosciuto dal Consiglio d’Europa e, infine;
Minari,la storia di una famiglia coreana che si trasferisce in Arkansas per coltivare la terra e provare a dare un nuovo inizio alle loro vite nel crogiolo di migrazioni e identità che percorrono il midwest americano. Il regista Lee Isaac Chung, di origini sud coreane, ma nato negli Usa, tratteggia il percorso famigliare con sensibilità e misura, senza omettere le difficoltà del rapporto tra culture diverse e gli approcci opposti della nonna, legata alla tradizione, e del nipote, incline ad accettare i valori e le mitologie del sogno americano.
Probabilmente quest’ultima la proposta migliore in un anno di grande penuria.
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ghisi
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sabato 1 maggio 2021
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tradizione, progresso e deregulation
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“Minari” è un film dolce e amaro che mostra la demistificazione del sogno americano, le aspirazioni, i sentimenti e le emozioni di una famiglia coreana emigrata negli Stati Uniti in cerca di fortuna.
Siamo negli anni ’80 e dopo dieci anni di lavoro di sessaggio - differenziazione dei pulcini tra maschi e femmine - dalla California Jacob Ly (interpretato da Steven Yeun) si trasferisce, con moglie e figli David e Anne (Alan S. Kim e Noel Cho), in Arkansas dove ha comprato un terreno agricolo comprensivo di una specie di roulotte. Il suo sogno è quello di mettere su una fattoria dove coltivare prodotti coreani. La moglie Monica non sembra essere contenta della scelta.
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“Minari” è un film dolce e amaro che mostra la demistificazione del sogno americano, le aspirazioni, i sentimenti e le emozioni di una famiglia coreana emigrata negli Stati Uniti in cerca di fortuna.
Siamo negli anni ’80 e dopo dieci anni di lavoro di sessaggio - differenziazione dei pulcini tra maschi e femmine - dalla California Jacob Ly (interpretato da Steven Yeun) si trasferisce, con moglie e figli David e Anne (Alan S. Kim e Noel Cho), in Arkansas dove ha comprato un terreno agricolo comprensivo di una specie di roulotte. Il suo sogno è quello di mettere su una fattoria dove coltivare prodotti coreani. La moglie Monica non sembra essere contenta della scelta. L’isolamento della campagna la preoccupa anche per le condizioni di salute del piccolo David al quale hanno riscontrato un soffio al cuore.
Jacob è un entusiasta e un grande lavoratore e si mette all’opera coadiuvato da un anziano e strampalato reduce con manie ossessive religiose (interpretato da Will Patton). Ma ciò non basta contro le disavventure naturali e generali, la mancanza di acqua, la carenza di clienti, l’indebitamento in banca e così via.
Sono gli anni della deregulation, del reaganismo quando i piccoli agricoltori d'America hanno sofferto, schiacciati da un sistema eccessivamente competitivo e non propenso all'assistenza.
I litigi tra la giovane coppia sono all’ordine del giorno, allora Jacob propone a Monica (interpretata da He-ri Han) di far venire la mamma dalla Corea a vivere con loro.
La nonna Soonja (interpretata da Yuh Jung Youn) si scoprirà essere ben lontana dalla immagine classica del suo ruolo: ha uno spirito imprevedibile. Rimasta vedova molto giovane non ama particolarmente le faccende di casa - «le vere nonne fanno i biscotti, non dicono parolacce e non si mettono le mutande da uomo» reclama il piccolo David - ma le piace giocare a carte.
Il film narra con grande garbo e tenerezza il rapporto particolare che si instaurerà man mano tra nonna e nipote.
Minari è un’erbetta acquatica coreana molto diffusa - una sorta di prezzemolo -che la nonna porta dalla Corea e pianterà vicino a uno stagno.
La contrapposizione tra progresso e tradizione, il ruolo della religione, le speranze, le delusioni, le difficoltà oggettive e la crisi della coppia sono le tematiche trattate in questo film.
Quando Jacob vede Monica triste nel suo isolamento, pensa che dovrebbe avere delle amiche, quindi decide di andare la domenica in chiesa più che altro per la socializzazione, ruolo importante che hanno le chiese specialmente nei territori agricoli.
Le immagini sono molto belle e rappresentano una terra ostile ad essere trattata, la campagna dell’Arkansas, e anche il film è girato vicino a Toulsa in Oklahoma.
Bravissimi tutti gli attori: Yuh Jung Youn nella parte di Soonja ha vinto l’Oscar per la migliore interpretazione di non protagonista, l’abbiamo già vista in un paio di film di Kim Ki-young (“Woman on fire” del 1971 e “Insect Woman” del 1972), Steven Yeun lo avevamo visto recitare la parte dell’amico ricco e viziato nel film “Burning” di Chang-dong Lee del 2018.
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andrea1974
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giovedì 6 maggio 2021
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i bambini ci guardano
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Un film con gli occhi di un bambino, che vede il mondo da una prospettiva tutta da riscoprire. Un bambino bambino, finalmente: un bambino che può permettersi di essere cinico con una nonna che odora di Corea, può permettersi di fare la pipì a letto e misurarsi con le reazioni degli adulti, può permettersi i capricci e gli imputamenti da bambino. Così il bambino può concedersi di non sopportare le litigate dei genitori, può permettersi l'ingingantimento, la deformazione e la trasformazione della realtà. Con gli occhi del bambino la superstizione, la rabdomanzia e la fede degli adulti diventano un mondo magico che non è vero, ma accade.
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Un film con gli occhi di un bambino, che vede il mondo da una prospettiva tutta da riscoprire. Un bambino bambino, finalmente: un bambino che può permettersi di essere cinico con una nonna che odora di Corea, può permettersi di fare la pipì a letto e misurarsi con le reazioni degli adulti, può permettersi i capricci e gli imputamenti da bambino. Così il bambino può concedersi di non sopportare le litigate dei genitori, può permettersi l'ingingantimento, la deformazione e la trasformazione della realtà. Con gli occhi del bambino la superstizione, la rabdomanzia e la fede degli adulti diventano un mondo magico che non è vero, ma accade. E se il sogno americano andrà a fuoco, sarà solamente lui, il bambino, capace di portare tutti a casa, annullando sensi di colpa, frustrazioni, cuori che lacrimano, separazioni, impuntamenti da adulti. Con gli occhi di un bambino la speranza diventa realtà, basta che il sogno non sia una rincorsa solitaria, ma sia piantato nel solco della propria identità e dei propri affetti, del minari.
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eugenio
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giovedì 13 maggio 2021
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furore coreano
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Un film classico, d’altri tempi, impostato ed elegiaco. Un film americano su una famiglia coreana, un film di campagna per la ricerca della libertà, un film quasi d’atmosfera ottocentesca per la sua dimensione rurale, per la dimensione di una purezza di spirito che si fa nobiltà d’animo senza essere troppo intellettualoide.
Tutto questo è Minari, quarto lavoro del regista americano di origine coreana Lee Isaac Chung, uno dei suoi lavori forse più biografici fatto di crescita e ricordi ovattati lungo quei favolosi anni ’80 che il cineasta lascia trasparire attraverso gli occhi del giovane protagonista David (Alan Kim). Un ragazzino malato al cuore ma sempre vivace figlio di Jacob, capofamiglia che per garantire appunto un futuro migliore a lui e alla sua famiglia, si trasferisce in un “altro mondo” differente da quella California, un territorio agreste con un “furore” alla Steinbeck alla costante ricerca di un giro d’affari, lontano dal sessaggio di polli, un lavoro estenuante e sottopagato, ma rivolto solo ed unicamente alla possibilità di poter vivere della propria terra.
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Un film classico, d’altri tempi, impostato ed elegiaco. Un film americano su una famiglia coreana, un film di campagna per la ricerca della libertà, un film quasi d’atmosfera ottocentesca per la sua dimensione rurale, per la dimensione di una purezza di spirito che si fa nobiltà d’animo senza essere troppo intellettualoide.
Tutto questo è Minari, quarto lavoro del regista americano di origine coreana Lee Isaac Chung, uno dei suoi lavori forse più biografici fatto di crescita e ricordi ovattati lungo quei favolosi anni ’80 che il cineasta lascia trasparire attraverso gli occhi del giovane protagonista David (Alan Kim). Un ragazzino malato al cuore ma sempre vivace figlio di Jacob, capofamiglia che per garantire appunto un futuro migliore a lui e alla sua famiglia, si trasferisce in un “altro mondo” differente da quella California, un territorio agreste con un “furore” alla Steinbeck alla costante ricerca di un giro d’affari, lontano dal sessaggio di polli, un lavoro estenuante e sottopagato, ma rivolto solo ed unicamente alla possibilità di poter vivere della propria terra. Intento nobile che perplime la giovane moglie Monica (Yeri Han), soprattutto all’arrivo dell’eccentrica nonna Soonja (Youn Yuh-Jung), ancorata a una tradizione passatista “che ancora puzza di Corea” (David dixit).
Chung tratteggia con gli occhi disincantati di un bambino un incontro tra due mondi, quello americano e quello del suo paese di origine, la Corea ed, insieme, delinea il ritratto di tre generazioni differenti, con contrasti esacerbati dal conservatorismo dei “vecchi” assimilati a una cultura tradizionale (che manco viene riconosciuta tale dai nipotini) con “i giovani” rivolti all’occidente senza tradire un disincanto di un sogno americano da pura utopia come quello di Jacob (nome omen appunto del patriarca Giacobbe). Con la sapienza degli interpreti, Minari, descrive momenti divertenti di un rapporto genitoriale, reso più teso dai contrasti e dalle loro fragilità, sottolineando, senza mai voler prendersi troppo sul serio, un percorso di crescita emozionale tra i due veri protagonisti: nonna e nipote.
Come la pianta pepata di minari, le due generazioni della nuova e vecchia Corea si mettono a confronto talune volte in esilaranti duetti, ma in qualche modo con una credibilità e intimità che sa tanto di neorealismo post-ottocentesco.
Per un futuro diverso e condivisibile, oltre l’immotivato “furore coreano”.
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tunaboy
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martedì 29 giugno 2021
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recensione minari
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Spesso si dice che i bambini sono la vera porta verso la verità, riuscendo a vedere la realtà per come è, immuni alle menzogne raccontate dagli adulti.
Ed è proprio attraverso gli occhi di un bambino, David, che “Minari” ci racconta la cruda realtà di un Sogno Americano ormai in sfacelo e l’accettazione delle proprie origini.
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Spesso si dice che i bambini sono la vera porta verso la verità, riuscendo a vedere la realtà per come è, immuni alle menzogne raccontate dagli adulti.
Ed è proprio attraverso gli occhi di un bambino, David, che “Minari” ci racconta la cruda realtà di un Sogno Americano ormai in sfacelo e l’accettazione delle proprie origini.
La famiglia del piccolo David si è appena trasferita in una umile fattoria nell’Arkansas rurale: qui il padre vuole mettere le fondamenta per il successo che sperava di raggiungere. Purtroppo, però, questo successo tarda ad arrivare e le condizioni di vita si complicano sempre di più, innescando diversi litigi tra i due genitori. In questo clima di tensione arriva la nonna di David, che fino a quel momento aveva vissuto in Corea: totalmente estranea alla cultura occidentale, porta nella famiglia aromi e usanze delle loro radici coreane, suscitando il rigetto del piccolo. Il processo che lo porterà ad avvicinarsi ed accettare la nonna, e metaforicamente le sue origini, sarà, infatti, lungo e tortuoso, ma riuscirà a risolversi dando origine ad una tenera relazione tra i due. Nel frattempo, le condizioni della famiglia sono sempre peggiori, fino a culminare in uno straziante e commovente finale.
“Minari” è un tenero e tragico dramma familiare, capace di controbilanciare l’estrema drammaticità del fallimento di una famiglia e di un sogno con momenti di pura e calorosa tenerezza familiare, riuscendoci anche a strappare qualche sorriso. Sembra quasi, infatti, che il film ci accolga a braccia aperte nel suo mondo, proiettando sullo schermo la vera essenza del calore familiare.
Inoltre, Lee Isaac Chung, regista del film, ci offre un’analisi inedita della società dell’America rurale attraverso il rarissimo punto di vista di un bambino: spesso, infatti, siamo abituati a vedere l’estrema ignoranza e l’incosciente razzismo del popolo americano attraverso gli occhi coscienti di un adulto; vedendolo, però, dal punto di vista di un bambino, ci rendiamo conto della sua assurda pateticità ed imbarazzante comicità.
L'aspetto che, però, trovo più interessante è la ricerca d’identità e la convivenza con le proprie origini: credo che la relazione tra il piccolo e la propria nonna racchiuda così efficacemente la problematica relazione che molti immigrati e, soprattutto, figli di immigrati hanno con le proprie radici, apparentemente così distanti, ma che, proprio come una pianta di minari, crescono nel loro giardino.
Voto: 4.5/5
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luca scialo
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sabato 15 maggio 2021
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un buon messaggio sebbene manchi la poesia del cinema coreano
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Alla sua terza prova da regista, Lee Isaac Chung ci propone la storia di una famiglia di origini coreane che nella rampante America reaganiana degli anni '80, vuole coltivare il suo american dream. A volerlo è soprattutto il padre David, nel cui cuore quella illusione americana si è trapiantata non poco. E così, si trasferisce dalla California all'Arkansas per avviare una propria fattoria, sebbene l'idea iniziale sia un semplice orticello da coltivare. Del resto, lui e la moglie Monica sono anche stanchi del lavoro che fanno: osservare il genere dei pulcini per scartare i maschi, destinati ad un forno crematorio. Tuttavia, la realtà si mostra ben diversa dal sogno e non mancano ostacoli.
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Alla sua terza prova da regista, Lee Isaac Chung ci propone la storia di una famiglia di origini coreane che nella rampante America reaganiana degli anni '80, vuole coltivare il suo american dream. A volerlo è soprattutto il padre David, nel cui cuore quella illusione americana si è trapiantata non poco. E così, si trasferisce dalla California all'Arkansas per avviare una propria fattoria, sebbene l'idea iniziale sia un semplice orticello da coltivare. Del resto, lui e la moglie Monica sono anche stanchi del lavoro che fanno: osservare il genere dei pulcini per scartare i maschi, destinati ad un forno crematorio. Tuttavia, la realtà si mostra ben diversa dal sogno e non mancano ostacoli. La famiglia comincia ad indebitarsi e inoltre dalla Corea arriva come un uragano nelle loro vite la madre di Monica. Una nonna sui generis, che, come dice il piccolo nipotino affetto da problemi cardiaci, non è la classica nonna. Dato che non sa cucinare, ama giocare a carta e guardare combattimenti in Tv. Alla pellicola manca la magia del cinema coreano e il timore è che, per imporsi a livello internazionale, venga persa del tutto in favore dei soliti standard americani moderni. Basati sull'arruffianamento del pubblico, l'happy ending e il politically correct. Se il precedente Oscar Parasite era straordinariamente particolare, qui il film via via perde di fascino. L'arrivo metaforico della nonna, a ricordare le loro radici, non viene sfruttato a pieno. La scena di lei che cammina da sola allontanandosi dal resto dei familiari, ricorda vagamente la scena finale di Rapsodia in agosto. Ossia quella della nonna che cammina sotto la pioggia con un ombrello rotto, ricordando il disastro di Hiroshima. Ma, appunto, solo vagamente.
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belliteam
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domenica 8 agosto 2021
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minari, una metafora dell''immigrazione coreana
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Minari, che da' il titolo al film, e' una piantina molto utilizzata nella cucina Coreana, che nella pellicola di Lee Isaac Chung viene trapiantata sulle rive di una radura isolata, e cresce rigogliosa..
E' una metafora ovviamente che rappresenta l'immigrazione Coreana negli Stati Uniti, qui in Arkansas, dove una famiglia Cireana si trasferisce con il sogno di creare una fattoria con prodotti Coreani; ed ecco svelate le tematiche principali: la tradizione, la famiglia, il sacrificio (i genitori lavorano tutto il giorno in una fabbrica dove si occupano di sessaggio dei polli), il riscatto.
Minari e' un film emozionante, dolce (il figlio che ha un soffio al cuore che necessita assistenza) ma anche amaro, che ci invita alla riflessione.
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Minari, che da' il titolo al film, e' una piantina molto utilizzata nella cucina Coreana, che nella pellicola di Lee Isaac Chung viene trapiantata sulle rive di una radura isolata, e cresce rigogliosa..
E' una metafora ovviamente che rappresenta l'immigrazione Coreana negli Stati Uniti, qui in Arkansas, dove una famiglia Cireana si trasferisce con il sogno di creare una fattoria con prodotti Coreani; ed ecco svelate le tematiche principali: la tradizione, la famiglia, il sacrificio (i genitori lavorano tutto il giorno in una fabbrica dove si occupano di sessaggio dei polli), il riscatto.
Minari e' un film emozionante, dolce (il figlio che ha un soffio al cuore che necessita assistenza) ma anche amaro, che ci invita alla riflessione. E' un film che non lascia indifferenti. Da vedere
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francesca meneghetti
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domenica 15 agosto 2021
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immigrati-pionieri alla ricerca della terra promessa
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Il minari è una pianta aromatica, tipica della cucina coreana. In questo film sembra un elemento di dettaglio: viene piantata sulle rive di un torrente dalla nonna coreana, che ha portato con sé i semi, e vi attecchisce rigogliosamente. Diventa però anche una metafora dell’emigrazione, che è anche uno dei temi del film, accanto a quello della conquista della terra, che è nelle tradizioni americane. Siamo negli anni '80: Jacob e Monica sono due immigrati sudcoreani, stanchi del loro lavoro (il sessaggio dei pulcini). Hanno due bambini, il più piccolo sofferente di cuore. Jacob vuole diventare contadino e coltivare e rivendere in proprio, nelle grandi città dove sono insediati circa 30.
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Il minari è una pianta aromatica, tipica della cucina coreana. In questo film sembra un elemento di dettaglio: viene piantata sulle rive di un torrente dalla nonna coreana, che ha portato con sé i semi, e vi attecchisce rigogliosamente. Diventa però anche una metafora dell’emigrazione, che è anche uno dei temi del film, accanto a quello della conquista della terra, che è nelle tradizioni americane. Siamo negli anni '80: Jacob e Monica sono due immigrati sudcoreani, stanchi del loro lavoro (il sessaggio dei pulcini). Hanno due bambini, il più piccolo sofferente di cuore. Jacob vuole diventare contadino e coltivare e rivendere in proprio, nelle grandi città dove sono insediati circa 30.000 coreani, le verdure della propria tradizione culinaria. Monica subisce la scelta, e rimpiange la California: le campagne dell’Arkansas, in cui si sono trasferiti, sono selvatiche, lontane dalla società e dai servizi, ospedale incluso. Jacob, per evitare la rottura, accetta la coabitazione con la madre di Monica, Soonja, che giunge dalla Corea. E’ un personaggio originale, interpretato in modo straordinario da Yuh Jung Youn, che si è aggiudicata perciò l'Oscar come Miglior attrice Non Protagonista): per certi versi tradizionalista, per altri anticonformista. Ricco comunque di saggezza e umanità, almeno finché la salute regge. Ugualmente è ben modellato e interpretato il personaggio del piccolo David. Il percorso di Jacob non è facile. I colpi di scena sono molteplici, anche se il ritmo un po’ lento non giova alla narrazione. Ma si respira qualcosa del neorealismo: il tema della lotta per la sopravvivenza, il rapporto, presente in Paisà, tra stranieri (lì gli Alleati, qui i coreani) e gli autoctoni (qui vicini all’area del fondamentalismo cristiano, più arretrati per certi versi della cultura della giovane coppia), l’attenzione per i dettagli della vita quotidiana, anche quelli più umili, che fanno perciò “realismo”. La fotografia addolcisce però la crudezza, smussa la prosaicità. Una profonda umanità racconta le dinamiche di questa famiglia salita su una zattera che naviga tra onde tumultuose alla ricerca della Terra Promessa.
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felicity
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lunedì 21 febbraio 2022
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racconto bucolico e minimalista
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Minari è il film da vedere per risollevarsi in questi tempi bui. La saga familiare, ispirata all'autobiografia del regista coreano-americano, è un racconto bucolico e minimalista di poetica autenticità e soave ottimismo.
Minari descrive gli sforzi di una famiglia coreana in difficoltà economiche mettendo in scena una storia che descrive i valori della cultura coreana con gli stilemi del cinema americano indipendente.
Minari è una saga familiare dai toni placidi: il regista Lee Isaac Chung prende le distanze da uno stile narrativo melodrammatico o troppo impetuoso nel mettere in scena conflitti e frustrazioni degli Yi.
Lee riesce a farci investire emotivamente sui protagonisti senza che ce ne accorgiamo, dimostrando che si può raccontare il dramma senza toni clamorosi, ovvero senza scegliere la via più facile e d’effetto del melodramma.
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Minari è il film da vedere per risollevarsi in questi tempi bui. La saga familiare, ispirata all'autobiografia del regista coreano-americano, è un racconto bucolico e minimalista di poetica autenticità e soave ottimismo.
Minari descrive gli sforzi di una famiglia coreana in difficoltà economiche mettendo in scena una storia che descrive i valori della cultura coreana con gli stilemi del cinema americano indipendente.
Minari è una saga familiare dai toni placidi: il regista Lee Isaac Chung prende le distanze da uno stile narrativo melodrammatico o troppo impetuoso nel mettere in scena conflitti e frustrazioni degli Yi.
Lee riesce a farci investire emotivamente sui protagonisti senza che ce ne accorgiamo, dimostrando che si può raccontare il dramma senza toni clamorosi, ovvero senza scegliere la via più facile e d’effetto del melodramma. Minari eccelle proprio in questa sua autenticità fatta di piccole situazioni quotidiane suggerite dal passato dell’autore.
Il cibo rappresenta il punto fondamentale di separazione tra le due culture, quella asiatica e quella americana (i prodotti alimentari di Jacob sono richiesti solo dai compaesani, mantengono il legame con gli altri immigrati ma sono anche l'ostacolo all’assimilazione con gli altri). Il vero punto di contatto è, invece la religione: gli Yi, cominciando a frequentare la chiesa locale (quasi la metà dei coreani credenti sono cristiani) si avvicinano finalmente agli altri americani al di fuori del rassicurante ed esclusiva cerchia asiatica iniziando per la prima volta l’integrazione con la comunità locale.
Steve Yuen continua il percorso professionale che lo vede rifarsi alle proprie origini dimostrando un sorprendente carisma come attore. La presenza scenica maggiore ce l’hanno, comunque, la scaltra Youn Yuh-jung nei panni della nonna e lo spettacolare Will Patton nei panni di un veterano della guerra in Corea e fervente religioso. La loro stellare interpretazione, il sapore autentico della (auto)biografia degli Yi, la regia posata tesa a ripudiare clamorosi picchi drammatici e quel finale che instilla fiducia nel futuro sia ai personaggi che agli spettatori (in un momento storico in cui se ne sente particolarmente il bisogno) fanno di Minari davvero un ottimo film.
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