rossella romano
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giovedì 26 novembre 2020
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(s)ama
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Cielo. Quello che traduce il nome di Sama e quello che ogni giorno assume un colore e un odore diversi, che annuncia disfatta o allegria per un momento, un istante, gioioso.
Non ho mai visto Aleppo ma se volessi ricordarla e memorizzarla attraverso le immagini di questa lettera, fermerei nella mente il suo aspetto 'sabbioso', il suo essere perennemente impolverata come una stanza che pulisci ma, che, subito dopo è come prima se non più sporca. Questo perchè i bombardamenti non si mettono in fila, non aspettano il loro turno e, così, mentre permane nelle orecchie l'eco dell'ultima bomba, arriva la polvere di quella dopo e di quella ancora dopo.
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Cielo. Quello che traduce il nome di Sama e quello che ogni giorno assume un colore e un odore diversi, che annuncia disfatta o allegria per un momento, un istante, gioioso.
Non ho mai visto Aleppo ma se volessi ricordarla e memorizzarla attraverso le immagini di questa lettera, fermerei nella mente il suo aspetto 'sabbioso', il suo essere perennemente impolverata come una stanza che pulisci ma, che, subito dopo è come prima se non più sporca. Questo perchè i bombardamenti non si mettono in fila, non aspettano il loro turno e, così, mentre permane nelle orecchie l'eco dell'ultima bomba, arriva la polvere di quella dopo e di quella ancora dopo.
Non sono queste le cose di cui si dovrebbe stare attenti, o di cui aver paura, dalle quali i genitori ti mettono in guardia come nel caso di Waad al-Kateab, non sono questi i rumori con cui abituarsi a vivere. Ma forse proprio quando non si vorrebbe (e dovrebbe), si è costretti a prendere consapevolezza della realtà, di quanto dolore ci sia intorno e di quanto sia meglio abituarsi il prima possibile per mettere quella corazza sul cuore e sugli occhi che permette di cogliere, in tutte quelle macerie umane e sociali, uno spiraglio di speranza. E la speranza di tutti è proprio Sama, quel cielo diverso. Quel cielo che fa capire cosa vuol dire stare veramente attenti adesso che bisogna esserlo non solo più per sè stessi.
La speranza è il filo conduttore di questo lascito, e anche gli spostamenti e i movimenti non la dimenticano mai: Sama, infatti, viene portata ovunque, abituata a qualsiasi cosa, trascinata sullo sfondo di scenari orribili quasi come portafortuna e come quel cassetto da aprire ogni tanto per ricordare le cose belle e quello che ci aspetta nel futuro.
I bambini come lei nascono e crescono con una musica di sottofondo surreale: i rumori delle granate di ferro fanno da sfondo ad ogni attività e diventano, surrealmente, la normalità. E così si ride in uno scantinato per proteggersi dai bombardamenti, si gioca abbassando una mascherina che protegge il viso e si continua a filmare per non dimenticare e per non far dimenticare.
Questo sceglie di fare la regista e protagonista: sceglie quali ricordi lasciarle e sceglie per la figlia ancora prima di capire come lottare lei stessa, inserendola in un mondo in cui, forse, se si fosse potuto scegliere, nessuno sarebbe voluto essere detentore di quei ricordi mentali e sonori, di quelle bombe come il ticchettio di un orologio.
Così si telefona ai parenti lontani con il sottofondo musicale non di un film ma di una quotidiana paura a cui non si fa quasi più caso, piuttosto è diventato un fastidio dovuto alle interferenze e ai rumori che impediscono di far arrivare chiari i pensieri dall'altra parte. Si raccontano conquiste, si trasmette una finta serenità, si confidano paure ma anche certezze che mentre escono con voci fioche rassicuarano gli altri, ma tranquillizzano anche noi.
In tutto questo combattere non per una guerra in cui si impugnano le armi, ma per la vita che ancora deve svilupparsi, ci si rende conto che si è rinunciato a tutto: chi aveva progettato di studiare architettura, chi medicina, chi economia, si ritrova unito nello stesso percorso che è quello che porterà a salvare più ideali che persone. Un percorso apparentemente non scelto, in cui ci si è ritrovati ma che risulterà la vera scelta fatta fin dall'inizio che non trova rimpianti o rimorsi, nessun guardarsi indietro ma solo propensione verso il futuro, visto attraverso gli occhi di chi ancora non ha scelto ma che detiene e offre la vera speranza.
E mentre si corre in avanti, rimane sempre qualcuno indietro che, forse, viene sacrificato per ricordarci dove stiamo andando e perchè: "perdere le persone amate, ha reso ancora più importante continuare a lottare". Non che serva il sacrificio di qualcuno per ricordarlo, ma, mentre si arresta la corsa di alcuni, si dà un senso a quello che succede e chi rimane aggiunge un carico di responsabilià nel lottare, per tutti quelli che non possono più farlo.
In questa corsa sfocata, il 'cielo' sembra prevedere e accomapganare la quotidianità dei protagonisti e plasmarsi a loro piacimento: dona colori sereni quando si uniscono i percorsi di vita di Waad e di Hamza e regala notti tranquille quando i canti e i battiti coraggiosi di chi lotta coraggiosamente coprono i rumori dei bombardamenti, quasi a significare che la vita e la voglia di vivere con la lotta che si porta dietro vincerà sempre su qualsiasi granata. Questo è quello che guida e dà forza ai due protagonisti, ma, per estensione a tutti gli abitanti sofferenti di Aleppo e, per partecipazione, a tutti noi: un percorso insieme che ha come obiettivo la libertà e quindi la gioia come premio finale.
Le immagini della città si alternano con la cadenza dei continui bombardamenti, sembra quasi un danza orribile che dà il ritmo alla costruzione e alla distruzione senza troppe interruzioni: si costruisce e si demolisce, si tira su e si tira giù. Sembra di trovarsi all'interno di un cantiere dove si parte da zero ogni volta, con un progetto che puntualmente viene disatteso e interrotto da quel frastuono che è come un allarme che ti ricorda che, di nuovo, non puoi proseguire i lavori.
In questa immagine di distruzione i bambini sono i protagonisti, perchè rappresnetano il futuro ma allo stesso tempo l'impossibilità di sceglierlo. Bambini che piangono altri bambini con le lacrime che non trovano spazio in quei visi in cui tutto si mischia come in un impasto: lacrime, fango e sangue. Loro non c'entrano, sono il danno collaterale di una società che vive tutte le consuete emozioni della vita in una atmosfera di gioia, paura e fragilità. I bambini non dovrebbero portare altri bambini in ospedale, eppure lo fanno perchè sono rimasti solo loro. Ma anche perchè ormai sono bambini adulti, che, come quegli adulti, scelgono con le lacrime di non andarsene da tutto quello che odiano ma che li fa sentire responsabili, portatori di fiducia, di speranza che quando tutto potrà essere ricostruito loro saranno li, pronti.
In questo senso i genitori danno l'esempio: "i genitori ottimisti crescono bambini ottimisti". Questo ottimismo viene tradotto nella volontà di rimanere per non dare l'idea di essere egoisti, di volere una vita serena scappando dagli orrori lasciati dietro. Il grido che si sente è che si può e si deve essere felici ma che questo è possibile solo attraverso la resilienza e la lotta. E, in una socità come la nostra, dove la lotta è abbandonata, dove chi lotta è compatito, questo è il messaggio che bisogna portarsi dietro gelosamente e che bisogna tramandare in maniera generosa: la vera felicità si raggiumge solo se si ha lottato per essa, quando si sentono i segni sulla pelle di una soddisfazione raggiunta e sudata, è una guerra, diversa, ma pur sempre guerra.
Questo bisogna insegnare ai bambini, futuri adulti e questo è quello che imparano, pur non volendo, i bambini di Aleppo. Ci si chiede se, potendoli incontrare, a separarci nel comprenderci, sia solo il contesto, la lingua, la realtà diversa. Perchè dovremmo parlare con loro nei termini che usano più comunemente: fanno il bagno in piscine di fango, parlano di bombe a grappolo come se fosse l'ultimo gioco uscito quando noi, quasi, ci copriamo gli occhi per non guardare dove andrà a far danno. Noi viviamo in una società in cui dobbiamo solo scegliere quale delivery attendere a casa, recensire con quanta velocità ci è stato consegnato tutto e, nel caso, continuare a scegliere quello. Ad Aleppo si studia con la pancia che reclama e ci si ricorda che "non si risolvono equazioni con lo stomaco vuoto".
Di fronte a tutto questo Waad ti porta nell'unica strada in cui si incanale anche lei, quella che ti fa domandare: ha senso venire al mondo a queste condizioni? Ti lascia l'incognita della risposta ma nemmeno per troppo: nella scena in cui fanno nascere con parto cesareo un bambino che sembra morto ti assale un pò di ansia ma anche serenità nel pensare che si sta evitando tutto quel rumore costante di bombe che persiste anche mentre nasce. Ma, mentre ti fai cullare da questo pensiero, il momento subito dopo, quando senti quel fragoroso pianto, ti rendi conto che il tuo cuore voleva questo: una nuova nascita e una madre che rimane in vita per godersela. Allora torna il vero senso che dobbiamo dare alla vita e non quel sentimento negativo dovuto a quello che ci circonda: il miracolo della vita avviene a prescindere da noi, a prescindere dalle brutture che questo mondo gli riserverà, e menomale. Così assume senso lo slogan sulla maglietta di Hamza.."BORN TO WIN"! Non siamo fatti per sopportare le perdite, anche se le accettiamo.
Questo forte senso di nascita è più forte dei bombardamenti, della distruzione degli ospedali che sono simbolo di quelle vite. Perchè quella della nascita, è una forza che spinge più della guerra, più dell'odio, più di tutto e per questo avviene ovunque, non sceglie dove ma sceglie di facrela. E, quando ce la fa, dà vita anche a tutti quelli che di vivere non ce la fanno più, ma che ricordano quano sia importante combattere perchè non possiamo decidere di non lottare più, quando nasciamo non è più una decisoine contemplata non lottare. Questa è la lotta che decidono di fare Waad e Hamza fin dall'inizio, per loro, per Sama e per tutta la collettività ma che iniettano acnhe in ognuno di noi.
E' vero, il colore del film è il rosso, il rosso del sangue. Forse dovrebbe essere il bianco il colore predominante, il colore del latte delle madri che, a volte, hanno ancora il latte ma non più figli a cui darlo. Come dice dalla sua telecamera Waad, "a volte si piange sangue", quello degli altri che ci si ritrova addosso per averli pianti e quello personale per le ferite contratte senza nemmeno sentirne più il dolore.
Sama cresce e ride (perchè ride sempre come dovrebbe essere) in questa realtà dove si usano i resti delle bombe per riscaldarsi e dove le scene di normalità e serenità aprono sempre il sipario a qualcosa di negativo e tragico: i continui "saluti di addio alle persone con cui si è fatto questo viaggio di scelte che sono peggio della morte", perchè "non è il luogo che conta, sono le sue persone", commenta il marito, mentre gli scende una lacrima in rappresentanza di tutte quelle trattenute.
La scelta di andare via non è mai facile ma non lo è sopratutto se la si fa perchè non si ha scelta. Bisognerebbe sempre poter scegliere. E così si sceglie solo la strada che porterà ad una altra lotta per la felicità, con una pianta che, come Sama, crescerà lontana da Aleppo e con una nuova motivazione che da vita alle vite: un'altra Sama!
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rossella romano
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martedì 24 novembre 2020
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Cielo. Quello che traduce il nome di Sama e quello che ogni giorno assume un colore e un odore diversi, che annuncia disfatta o allegria per un momento, un istante, gioioso.
Non ho mai visto Aleppo ma se volessi ricordarla e memorizzarla attraverso le immagini di questa lettera, fermerei nella mente il suo aspetto 'sabbioso', il suo essere perennemente impolverata come una stanza che pulisci ma, che, subito dopo è come prima se non più sporca. Questo perchè i bombardamenti non si mettono in fila, non aspettano il loro turno e, così, mentre permane nelle orecchie l'eco dell'ultima bomba, arriva la polvere di quella dopo e di quella ancora dopo.
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Cielo. Quello che traduce il nome di Sama e quello che ogni giorno assume un colore e un odore diversi, che annuncia disfatta o allegria per un momento, un istante, gioioso.
Non ho mai visto Aleppo ma se volessi ricordarla e memorizzarla attraverso le immagini di questa lettera, fermerei nella mente il suo aspetto 'sabbioso', il suo essere perennemente impolverata come una stanza che pulisci ma, che, subito dopo è come prima se non più sporca. Questo perchè i bombardamenti non si mettono in fila, non aspettano il loro turno e, così, mentre permane nelle orecchie l'eco dell'ultima bomba, arriva la polvere di quella dopo e di quella ancora dopo.
Non sono queste le cose di cui si dovrebbe stare attenti, o di cui aver paura, dalle quali i genitori ti mettono in guardia come nel caso di Waad al-Kateab, non sono questi i rumori con cui abituarsi a vivere. Ma forse proprio quando non si vorrebbe (e dovrebbe), si è costretti a prendere consapevolezza della realtà, di quanto dolore ci sia intorno e di quanto sia meglio abituarsi il prima possibile per mettere quella corazza sul cuore e sugli occhi che permette di cogliere, in tutte quelle macerie umane e sociali, uno spiraglio di speranza. E la speranza di tutti è proprio Sama, quel cielo diverso. Quel cielo che fa capire cosa vuol dire stare veramente attenti adesso che bisogna esserlo non solo più per sè stessi.
La speranza è il filo conduttore di questo lascito, e anche gli spostamenti e i movimenti non la dimenticano mai: Sama, infatti, viene portata ovunque, abituata a qualsiasi cosa, trascinata sullo sfondo di scenari orribili quasi come portafortuna e come quel cassetto da aprire ogni tanto per ricordare le cose belle e quello che ci aspetta nel futuro.
I bambini come lei nascono e crescono con una musica di sottofondo surreale: i rumori delle granate di ferro fanno da sfondo ad ogni attività e diventano, surrealmente, la normalità. E così si ride in uno scantinato per proteggersi dai bombardamenti, si gioca abbassando una mascherina che protegge il viso e si continua a filmare per non dimenticare e per non far dimenticare.
Questo sceglie di fare la regista e protagonista: sceglie quali ricordi lasciarle e sceglie per la figlia ancora prima di capire come lottare lei stessa, inserendola in un mondo in cui, forse, se si fosse potuto scegliere, nessuno sarebbe voluto essere detentore di quei ricordi mentali e sonori, di quelle bombe come il ticchettio di un orologio.
Così si telefona ai parenti lontani con il sottofondo musicale non di un film ma di una quotidiana paura a cui non si fa quasi più caso, piuttosto è diventato un fastidio dovuto alle interferenze e ai rumori che impediscono di far arrivare chiari i pensieri dall'altra parte. Si raccontano conquiste, si trasmette una finta serenità, si confidano paure ma anche certezze che mentre escono con voci fioche rassicuarano gli altri, ma tranquillizzano anche noi.
In tutto questo combattere non per una guerra in cui si impugnano le armi, ma per la vita che ancora deve svilupparsi, ci si rende conto che si è rinunciato a tutto: chi aveva progettato di studiare architettura, chi medicina, chi economia, si ritrova unito nello stesso percorso che è quello che porterà a salvare più ideali che persone. Un percorso apparentemente non scelto, in cui ci si è ritrovati ma che risulterà la vera scelta fatta fin dall'inizio che non trova rimpianti o rimorsi, nessun guardarsi indietro ma solo propensione verso il futuro, visto attraverso gli occhi di chi ancora non ha scelto ma che detiene e offre la vera speranza.
E mentre si corre in avanti, rimane sempre qualcuno indietro che, forse, viene sacrificato per ricordarci dove stiamo andando e perchè: "perdere le persone amate, ha reso ancora più importante continuare a lottare". Non che serva il sacrificio di qualcuno per ricordarlo, ma, mentre si arresta la corsa di alcuni, si dà un senso a quello che succede e chi rimane aggiunge un carico di responsabilià nel lottare, per tutti quelli che non possono più farlo.
In questa corsa sfocata, il 'cielo' sembra prevedere e accomapganare la quotidianità dei protagonisti e plasmarsi a loro piacimento: dona colori sereni quando si uniscono i percorsi di vita di Waad e di Hamza e regala notti tranquille quando i canti e i battiti coraggiosi di chi lotta coraggiosamente coprono i rumori dei bombardamenti, quasi a significare che la vita e la voglia di vivere con la lotta che si porta dietro vincerà sempre su qualsiasi granata. Questo è quello che guida e dà forza ai due protagonisti, ma, per estensione a tutti gli abitanti sofferenti di Aleppo e, per partecipazione, a tutti noi: un percorso insieme che ha come obiettivo la libertà e quindi la gioia come premio finale.
Le immagini della città si alternano con la cadenza dei continui bombardamenti, sembra quasi un danza orribile che dà il ritmo alla costruzione e alla distruzione senza troppe interruzioni: si costruisce e si demolisce, si tira su e si tira giù. Sembra di trovarsi all'interno di un cantiere dove si parte da zero ogni volta, con un progetto che puntualmente viene disatteso e interrotto da quel frastuono che è come un allarme che ti ricorda che, di nuovo, non puoi proseguire i lavori.
In questa immagine di distruzione i bambini sono i protagonisti, perchè rappresnetano il futuro ma allo stesso tempo l'impossibilità di sceglierlo. Bambini che piangono altri bambini con le lacrime che non trovano spazio in quei visi in cui tutto si mischia come in un impasto: lacrime, fango e sangue. Loro non c'entrano, sono il danno collaterale di una società che vive tutte le consuete emozioni della vita in una atmosfera di gioia, paura e fragilità. I bambini non dovrebbero portare altri bambini in ospedale, eppure lo fanno perchè sono rimasti solo loro. Ma anche perchè ormai sono bambini adulti, che, come quegli adulti, scelgono con le lacrime di non andarsene da tutto quello che odiano ma che li fa sentire responsabili, portatori di fiducia, di speranza che quando tutto potrà essere ricostruito loro saranno li, pronti.
In questo senso i genitori danno l'esempio: "i genitori ottimisti crescono bambini ottimisti". Questo ottimismo viene tradotto nella volontà di rimanere per non dare l'idea di essere egoisti, di volere una vita serena scappando dagli orrori lasciati dietro. Il grido che si sente è che si può e si deve essere felici ma che questo è possibile solo attraverso la resilienza e la lotta. E, in una socità come la nostra, dove la lotta è abbandonata, dove chi lotta è compatito, questo è il messaggio che bisogna portarsi dietro gelosamente e che bisogna tramandare in maniera generosa: la vera felicità si raggiumge solo se si ha lottato per essa, quando si sentono i segni sulla pelle di una soddisfazione raggiunta e sudata, è una guerra, diversa, ma pur sempre guerra.
Questo bisogna insegnare ai bambini, futuri adulti e questo è quello che imparano, pur non volendo, i bambini di Aleppo. Ci si chiede se, potendoli incontrare, a separarci nel comprenderci, sia solo il contesto, la lingua, la realtà diversa. Perchè dovremmo parlare con loro nei termini che usano più comunemente: fanno il bagno in piscine di fango, parlano di bombe a grappolo come se fosse l'ultimo gioco uscito quando noi, quasi, ci copriamo gli occhi per non guardare dove andrà a far danno. Noi viviamo in una società in cui dobbiamo solo scegliere quale delivery attendere a casa, recensire con quanta velocità ci è stato consegnato tutto e, nel caso, continuare a scegliere quello. Ad Aleppo si studia con la pancia che reclama e ci si ricorda che "non si risolvono equazioni con lo stomaco vuoto".
Di fronte a tutto questo Waad ti porta nell'unica strada in cui si incanale anche lei, quella che ti fa domandare: ha senso venire al mondo a queste condizioni? Ti lascia l'incognita della risposta ma nemmeno per troppo: nella scena in cui fanno nascere con parto cesareo un bambino che sembra morto ti assale un pò di ansia ma anche serenità nel pensare che si sta evitando tutto quel rumore costante di bombe che persiste anche mentre nasce. Ma, mentre ti fai cullare da questo pensiero, il momento subito dopo, quando senti quel fragoroso pianto, ti rendi conto che il tuo cuore voleva questo: una nuova nascita e una madre che rimane in vita per godersela. Allora torna il vero senso che dobbiamo dare alla vita e non quel sentimento negativo dovuto a quello che ci circonda: il miracolo della vita avviene a prescindere da noi, a prescindere dalle brutture che questo mondo gli riserverà, e menomale. Così assume senso lo slogan sulla maglietta di Hamza.."BORN TO WIN"! Non siamo fatti per sopportare le perdite, anche se le accettiamo.
Questo forte senso di nascita è più forte dei bombardamenti, della distruzione degli ospedali che sono simbolo di quelle vite. Perchè quella della nascita, è una forza che spinge più della guerra, più dell'odio, più di tutto e per questo avviene ovunque, non sceglie dove ma sceglie di facrela. E, quando ce la fa, dà vita anche a tutti quelli che di vivere non ce la fanno più, ma che ricordano quano sia importante combattere perchè non possiamo decidere di non lottare più, quando nasciamo non è più una decisoine contemplata non lottare. Questa è la lotta che decidono di fare Waad e Hamza fin dall'inizio, per loro, per Sama e per tutta la collettività ma che iniettano acnhe in ognuno di noi.
E' vero, il colore del film è il rosso, il rosso del sangue. Forse dovrebbe essere il bianco il colore predominante, il colore del latte delle madri che, a volte, hanno ancora il latte ma non più figli a cui darlo. Come dice dalla sua telecamera Waad, "a volte si piange sangue", quello degli altri che ci si ritrova addosso per averli pianti e quello personale per le ferite contratte senza nemmeno sentirne più il dolore.
Sama cresce e ride (perchè ride sempre come dovrebbe essere) in questa realtà dove si usano i resti delle bombe per riscaldarsi e dove le scene di normalità e serenità aprono sempre il sipario a qualcosa di negativo e tragico: i continui "saluti di addio alle persone con cui si è fatto questo viaggio di scelte che sono peggio della morte", perchè "non è il luogo che conta, sono le sue persone", commenta il marito, mentre gli scende una lacrima in rappresentanza di tutte quelle trattenute.
La scelta di andare via non è mai facile ma non lo è sopratutto se la si fa perchè non si ha scelta. Bisognerebbe sempre poter scegliere. E così si sceglie solo la strada che porterà ad una altra lotta per la felicità, con una pianta che, come Sama, crescerà lontana da Aleppo e con una nuova motivazione che da vita alle vite: un'altra Sama!
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fabiofeli
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sabato 29 febbraio 2020
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il desiderio di vita deve prevalere su quello di m
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Waad Al-Khateab dal 2011 registra le immagini della figlia neonata, Sama, alla quale dedica questo documentario per spiegarle la scelta che lei ed il padre, il medico Hamza, hanno fatto rimanendo ad Aleppo durante la guerra civile siriana. Ad Aleppo, proclamata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1986, fiorisce la “primavera siriana”, la rivolta animata dagli studenti universitari contro il dittatore Bassar Al-Assad. Quando lo scontro diventa guerra, i ribelli si arroccano nella zona orientale della città. Le truppe governative ed i suoi alleati dalla parte occidentale bombardano gli ospedali della zona occupata dai ribelli.
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Waad Al-Khateab dal 2011 registra le immagini della figlia neonata, Sama, alla quale dedica questo documentario per spiegarle la scelta che lei ed il padre, il medico Hamza, hanno fatto rimanendo ad Aleppo durante la guerra civile siriana. Ad Aleppo, proclamata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1986, fiorisce la “primavera siriana”, la rivolta animata dagli studenti universitari contro il dittatore Bassar Al-Assad. Quando lo scontro diventa guerra, i ribelli si arroccano nella zona orientale della città. Le truppe governative ed i suoi alleati dalla parte occidentale bombardano gli ospedali della zona occupata dai ribelli. Hamza è l’unico medico nella zona orientale e per curare i feriti si inventa un ospedale in un edificio qualunque con ubicazione sconosciuta alle forze del dittatore Al-Assad, con un pronto soccorso che diventa sempre più affollato, data la inagibilità degli altri ospedali. Quando lo scontro si fa più aspro, le forze ribelli cominciano a cedere e le immagini diventano più drammatiche, fino alla resa …
Il documentario di Waad Al-Khateab, con la voce narrante nell’edizione doppiata italiana di Jasmine Trinca, all’inizio è confuso per la scarsa perizia di chi usa la cinepresa; le immagini sono poco centrate e si immaginano più che vedere veramente azioni di guerra ed i loro effetti. Ma con il progredire del tempo cresce l’esperienza di chi filma; le immagini diventano sempre più chiare e lo spettatore comincia a sobbalzare durante i bombardamenti ed a vederne, purtroppo, i devastanti effetti sugli esseri umani, feriti e ricoverati nel pronto soccorso dell’ospedale segreto. La scena che più scuote e commuove lo spettatore è il salvataggio del bambino di una gestante uccisa. Sono già passati più di 4 anni dal settembre 2015, quando furono pubblicate le immagini di Aylan, il bambino curdo morto sulla spiaggia turca, preso in braccio da un poliziotto in lacrime. Forse ci siamo anche dimenticati che un panettiere di un’isola greca, mentre la Grecia di Tsipras era sotto schiaffo per motivi economici nella Comunità europea, ha fatto il pane per centinaia di profughi Siriani approdati di notte sui barconi. E stiamo chiudendo gli occhi sull’orrore dei gas usati contro i ribelli e sul disimpegno degli USA di Trump dalla guerra siriana con l’effetto di strangolare i Kurdi che combattono i terroristi dell’Isis. Aleppo, città di quasi 5000 anni di storia, con la bellissima Cittadella, le splendide Madrase (scuole di Corano), le Moschee, le Sinagoghe, le Chiese armene, maronite, melchite, greco-ortodosse e cattoliche-sire, gli Hammam (monumentali bagni pubblici per purificarsi prima delle 5 preghiere quotidiane), i Caravanserragli, i Bimaristan (ospizi dedicati alla cura dei malati, compresi i malati mentali) ora è ridotta ad un cumulo di macerie e assomiglia al colore del suo soprannome, la bigia, anche se l’abbiamo appena vista con le mura bianchissime che crollano sotto i missili e le “bombe-barile”. Questo documentario ha il grande merito di far ricordare e di vedere – come dice Marianna Cappi nella sua bella recensione su MYmovies – che il desiderio di vita deve prevalere sempre su quello di morte.
Valutazione ****
FabioFeli
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stefano capasso
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mercoledì 19 febbraio 2020
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una terribile resa dei conti
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Nel 2012, durante la cosiddetta “Primavera Araba”, anche in Siria moti popolari spingono per la liberazione dall’oppressione del potere di Assad che opera da lungo tempo. Ad Aleppo, Waad, una giovane studentessa appassionata di videomaking, partecipa alle proteste e filma tutto quello a cui prende parte. Negli anni successivi, fino al 2016, i fatti precipitano sino a conseguenze inimmaginabili, la vita di Waad cambia, ma il suo impegno di documentare la realtà che vive rimane intatto.
Il film di Waad, costruito sul footage raccolto da una semplice videocamera e a volta da telefoni, è un documento terribile sulla vicenda siriana. La realtà raccontata da dentro, l’oppressione dell’assedio che emerge dalle riprese e l’infinità scia di sangue che, letteralmente, lo schermo restituisce, fanno di questo film uno straordinario manifesto di una guerra civile, dove l’escalation violenta è inaspettata e tocca chi non dovrebbe essere mai coinvolto.
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Nel 2012, durante la cosiddetta “Primavera Araba”, anche in Siria moti popolari spingono per la liberazione dall’oppressione del potere di Assad che opera da lungo tempo. Ad Aleppo, Waad, una giovane studentessa appassionata di videomaking, partecipa alle proteste e filma tutto quello a cui prende parte. Negli anni successivi, fino al 2016, i fatti precipitano sino a conseguenze inimmaginabili, la vita di Waad cambia, ma il suo impegno di documentare la realtà che vive rimane intatto.
Il film di Waad, costruito sul footage raccolto da una semplice videocamera e a volta da telefoni, è un documento terribile sulla vicenda siriana. La realtà raccontata da dentro, l’oppressione dell’assedio che emerge dalle riprese e l’infinità scia di sangue che, letteralmente, lo schermo restituisce, fanno di questo film uno straordinario manifesto di una guerra civile, dove l’escalation violenta è inaspettata e tocca chi non dovrebbe essere mai coinvolto. Sono i bambini ad essere in primo piano nel film; la loro vitalità, i loro giochi e le loro morti sono un pugno nello stomaco dello spettatore. La vicenda vede un gruppo di persone che iniziano, giovani, una battaglia per una causa di liberta, che si ritrovano qualche anno dopo, con responsabilità diverse, con dei figli, a dover gestire qualcosa che è divenuto ormai spaventosamente più grande di loro. In una guerra dove tanti interessi “terzi” hanno spostato e amplificato le dimensioni del conflitto, il pensiero di tutte quelle morti innocenti, e della vita futuri dei sopravvissuti porta a chiedersi sommessamente se valesse la pena iniziare questa lotta di libertà. Questo è anche quello che sembra emergere dal racconto di Waad, costantemente teso a dare una qualche spiegazione alla piccola Samà, alla quale tenta di spiegare perché la sua vita e quella dei suoi coetanei sarà caratterizzata da un inizio tremendo, dai tanti bambini che le sono morti accanto, dall’esilio, dal pensiero che tutto questo non ha portato nemmeno uno dei risultati che avevano ispirato quegli slanci. Un film durissimo dall’esito tutt’altro che scontato.
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francesca meneghetti
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domenica 16 febbraio 2020
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quanto è triste l'infanzia in guerra!
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Chiodo batte chiodo, si dice. Per alleviare altri dolori, mi sono fatta coraggio e ho visto “Alla mia piccola Sama” (dopo aver giurato, appena visto il trailer, che mai mi sarei sottoposta alla visione).
Il detto popolare, in effetti, funziona perché porta ad uscire da quell’egocentrismo dei sentimenti in cui tante volte ci crogioliamo, come se fossimo gli unici a soffrire, e ci parla di altri dolori umani, particolarmente strazianti quando si accompagnano alla devastazione del corpo o quando colpiscono i più innocenti di tutti: i bambini.
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Chiodo batte chiodo, si dice. Per alleviare altri dolori, mi sono fatta coraggio e ho visto “Alla mia piccola Sama” (dopo aver giurato, appena visto il trailer, che mai mi sarei sottoposta alla visione).
Il detto popolare, in effetti, funziona perché porta ad uscire da quell’egocentrismo dei sentimenti in cui tante volte ci crogioliamo, come se fossimo gli unici a soffrire, e ci parla di altri dolori umani, particolarmente strazianti quando si accompagnano alla devastazione del corpo o quando colpiscono i più innocenti di tutti: i bambini. O forse ci parla anche del dolore universale, proprio della condizione umana.
In effetti il documentario, realizzato mediante un montaggio non lineare di circa 500 ore di riprese, pur insistendo sulle responsabilità di Assad e dei russi rispetto ai bombardamenti della città di Aleppo, racconta soprattutto il vissuto dell’autrice: una giovane donna caparbia e coraggiosa che si è trovata in mezzo alle bombe e alle granate a vent’anni, quando studiava economia all’università. Fin da subito è diventata reporter per Channel 4 News (UK). Poi si è sposata con un giovane ed eroico medico che decide di allestire un ospedale per curare i feriti e mette al mondo una bambina, Sama, che significa cielo: quel cielo che non può contemplare perché i posti più sicuri sono underground, come l’ospedale. Le vicende personali della piccola famiglia e dei loro amici forniscono una prospettiva sulla guerra molto più intima: non importa tanto capire le ragioni storiche del conflitto, ma evidenziare che cosa è una guerra. Cioè essenzialmente una guerra civile. E’ così da ottant’anni almeno, dalla seconda guerra mondiale: quando a morire sono i civili più che i militari, non per casualità, ma per un disegno terroristico preordinato.
Al tempo stesso, si insiste sul tema della resistenza, sugli sforzi disperati di tenere in vita (da piangere la scena del neonato esanime che viene rianimato dopo lunghissimi istanti di angoscia), sull’attaccamento disperato a una patria che poi, per realismo e necessità, si dovrà abbandonare. Ora Waas Al-Kateab, questo lo psedonimo della regista-reporter, vive in Inghilterra con il marito e due figli.
Il documentario si regge solo chiudendo gli occhi di fronte alle riprese più crude e sanguinose e ci restituisce così una realtà drammatica in presa diretta, senza effetti speciali o fotografie spettacolari. Essendo tornata da una settimana da un viaggio a Sarajevo, dove ho visitato diversi musei sull’assedio durato tre anni e mezzo (tra cui il War Childhood, delicatissimo nel trattare il tema dell’infanzia violata sia fisicamente sia emotivamente), non posso evitare un commento: il lunghissimo applauso tributato al film a Cannes non solleva l’Europa dalle sue responsabilità e soprattutto dalle sue pilatesche omissioni, che ci furono anche per la capitale bosniaca.
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