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martedì 20 settembre 2022
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ottima recensione per un bellissimo film che ci conduce dentro noi stessi
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Ottima recensione. Direi anche che è un'accettazione dell'altro che si realizza metaforicamente attraverso la figura femminile che viene a rappresentare il ritorno nel grembo originario. Non a caso le tre storie hanno come filo conduttore anche l'immersione nell'acqua che purifica.
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valterchiappa
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sabato 14 ottobre 2017
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l'odio e l'amore
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L’odio e l’amore. Come possano coesistere e combattersi, sfidandosi in tenacia; come l’uno limiti l’altro e come questo sfugga alle stringenti catene del primo. Questo il tema portante; ma, come tutti i grandi film, “Sole alto” é anche altro: il racconto di un’epoca apparentemente breve nella durata assoluta, vent’anni, ma densa di sconvolgimenti; di una storia, quella della guerra nei Balcani, che l’Occidente non ha voluto vedere e che oggi sembra non voler ricordare; una storia che il regista Dalibor Matanic ha vissuto sulla sua pelle e che sembra voler diventare lo sfondo necessario di ogni possibile racconto.
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L’odio e l’amore. Come possano coesistere e combattersi, sfidandosi in tenacia; come l’uno limiti l’altro e come questo sfugga alle stringenti catene del primo. Questo il tema portante; ma, come tutti i grandi film, “Sole alto” é anche altro: il racconto di un’epoca apparentemente breve nella durata assoluta, vent’anni, ma densa di sconvolgimenti; di una storia, quella della guerra nei Balcani, che l’Occidente non ha voluto vedere e che oggi sembra non voler ricordare; una storia che il regista Dalibor Matanic ha vissuto sulla sua pelle e che sembra voler diventare lo sfondo necessario di ogni possibile racconto. 1991, 2001, 2011: l’inizio di tre decenni, di tre pagine completamente diverse: la nascita dell’odio che condusse a una guerra sanguinosa ed inspiegabile, la devastazione che ne è conseguita, il nuovo paese che rinasce sulle macerie del primo. Tre fondali per tre storie che in realtà sono una sola.
1991. La Jugoslavia è ancora un paese rurale. Due ragazzi, Jelena e Ivan, sono fidanzati e sognano di andare a vivere in città. Ma la serenità viene bruscamente interrotta dallo sferragliare dei carri armati; al suono della musica si sostituisce il crepitio delle armi. Lei è serba, lui croato. L’odio irrompe a dividere gli amanti gioiosi, la morte assurda, incomprensibile, è uno sparo nel silenzio. La felicità è rotta per sempre.
2001. La Jugoslavia è un deserto di case diroccate. Una madre e una figlia non vogliono restare in città e decidono di tornare nel fantasma del paese natale. Vogliono ristrutturare la loro vecchia casa, vogliono ritornare a vivere. Le aiuta Ante, un giovane carpentiere silenzioso e infaticabile. Ma loro sono serbe e lui è croato. E Natasa, la figlia, chiusa in un rancore senza redenzione, non ne accetta la presenza. Ma i due si osservano e il richiamo dell’eros si farà sentire irresistibile. Il rapporto carnale fra i due sarà breve, silenzioso, violento, come la guerra appena conclusa. È ancora presto per le parole, è ancora presto per l’amore.
2011. La Jugoslavia non esiste più: A cancellare definitivamente il passato arriva il richiamo delle sirene dei modelli occidentali. Due ragazzi ritornano al paese natio, dove si svolgerà un rave. C’è voglia di divertirsi, ma di un divertimento che è evasione, fuga che si concretizza nello stordimento della musica e delle droghe. Luka, uno dei due ragazzi, non ha chiuso i conti con il passato: c’è una donna lì, Marija, che lui ha abbandonato per andare a studiare in città; c’è una donna lì, la madre di suo figlio. Luka torna per farsi perdonare. Ma lei è serba e lui è croato. Il dialogo è difficile, quasi impossibile: l’odio, ora sedimentato, è tenace come una roccia. Ma Luka ha deciso: è lì che deve tornare, è lì la sua casa e, incrollabile, attenderà sulla porta.
“Sole alto”, premiato al Cannes Film Festival 2015 nella sezione “Un certain regard”, è un film pressoché perfetto. A partire dalla regia che cesella ogni inquadratura, che dosa ogni movimento di macchina.
Ma soprattutto si avvale di una struttura narrativa meravigliosa. Tre periodi, tre coppie diverse, ma sempre gli stessi attori, i bravissimi Tihana Lazovic e Goran Markovic. Perché gli uomini sono sempre gli stessi. Odio ed amore albergano in loro, pronti a cedere o a prendere il sopravvento; la colpa della storia è quella di alimentare il primo e farlo prevalere.
Leitmotiv ricorrenti, intrisi di potente simbolismo: il lago, Eden incancellabile, pronto ad accogliere nelle sue acque per un bagno purificatore; il sole, perennemente alto, la fonte di luce che non può essere oscurata. È la Natura, intesa come la Terra Madre, ad offrire ciò che è costantemente, immutevolmente buono; il rifugio sicuro dove i personaggi, rifiutata la città, fanno ritorno; è la zolla fertile dove piantare i semi delle nuove piante, i semi della rinascita.
Infine, da depositare nella memoria, momenti di narrazione poetici e potentissimi, come la sfida pacifica del giovane musicista che oppone il suono della sua tromba al rumore aspro dei mitragliatori.
O la struggente scena finale. Non c’è trionfo dell’amore in “Sole alto”: è predestinato a convivere con l’odio, a dover lottare contro di esso per far breccia nella sua dura corazza. Ma se, trovata la via di casa, tenace saprà perseverare nell’attesa, al mattino, quando il sole torna alto nel cielo, inevitabilmente per lui una porta si aprirà.
Voto: 8.5
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valterchiappa
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sabato 14 ottobre 2017
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l’odio e l’amore
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L’odio e l’amore. Come possano coesistere e combattersi, sfidandosi in tenacia; come l’uno limiti l’altro e come questo sfugga alle stringenti catene del primo. Questo il tema portante; ma, come tutti i grandi film, “Sole alto” é anche altro: il racconto di un’epoca apparentemente breve nella durata assoluta, vent’anni, ma densa di sconvolgimenti; di una storia, quella della guerra nei Balcani, che l’Occidente non ha voluto vedere e che oggi sembra non voler ricordare; una storia che il regista Dalibor Matanic ha vissuto sulla sua pelle e che sembra voler diventare lo sfondo necessario di ogni possibile racconto.
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L’odio e l’amore. Come possano coesistere e combattersi, sfidandosi in tenacia; come l’uno limiti l’altro e come questo sfugga alle stringenti catene del primo. Questo il tema portante; ma, come tutti i grandi film, “Sole alto” é anche altro: il racconto di un’epoca apparentemente breve nella durata assoluta, vent’anni, ma densa di sconvolgimenti; di una storia, quella della guerra nei Balcani, che l’Occidente non ha voluto vedere e che oggi sembra non voler ricordare; una storia che il regista Dalibor Matanic ha vissuto sulla sua pelle e che sembra voler diventare lo sfondo necessario di ogni possibile racconto. 1991, 2001, 2011: l’inizio di tre decenni, di tre pagine completamente diverse: la nascita dell’odio che condusse a una guerra sanguinosa ed inspiegabile, la devastazione che ne è conseguita, il nuovo paese che rinasce sulle macerie del primo. Tre fondali per tre storie che in realtà sono una sola.
1991. La Jugoslavia è ancora un paese rurale. Due ragazzi, Jelena e Ivan, sono fidanzati e sognano di andare a vivere in città. Ma la serenità viene bruscamente interrotta dallo sferragliare dei carri armati; al suono della musica si sostituisce il crepitio delle armi. Lei è serba, lui croato. L’odio irrompe a dividere gli amanti gioiosi, la morte assurda, incomprensibile, è uno sparo nel silenzio. La felicità è rotta per sempre.
2001. La Jugoslavia è un deserto di case diroccate. Una madre e una figlia non vogliono restare in città e decidono di tornare nel fantasma del paese natale. Vogliono ristrutturare la loro vecchia casa, vogliono ritornare a vivere. Le aiuta Ante, un giovane carpentiere silenzioso e infaticabile. Ma loro sono serbe e lui è croato. E Natasa, la figlia, chiusa in un rancore senza redenzione, non ne accetta la presenza. Ma i due si osservano e il richiamo dell’eros si farà sentire irresistibile. Il rapporto carnale fra i due sarà breve, silenzioso, violento, come la guerra appena conclusa. È ancora presto per le parole, è ancora presto per l’amore.
2011. La Jugoslavia non esiste più: A cancellare definitivamente il passato arriva il richiamo delle sirene dei modelli occidentali. Due ragazzi ritornano al paese natio, dove si svolgerà un rave. C’è voglia di divertirsi, ma di un divertimento che è evasione, fuga che si concretizza nello stordimento della musica e delle droghe. Luka, uno dei due ragazzi, non ha chiuso i conti con il passato: c’è una donna lì, Marija, che lui ha abbandonato per andare a studiare in città; c’è una donna lì, la madre di suo figlio. Luka torna per farsi perdonare. Ma lei è serba e lui è croato. Il dialogo è difficile, quasi impossibile: l’odio, ora sedimentato, è tenace come una roccia. Ma Luka ha deciso: è lì che deve tornare, è lì la sua casa e, incrollabile, attenderà sulla porta.
“Sole alto”, premiato al Cannes Film Festival 2015 nella sezione “Un certain regard”, è un film pressoché perfetto. A partire dalla regia che cesella ogni inquadratura, che dosa ogni movimento di macchina.
Ma soprattutto si avvale di una struttura narrativa meravigliosa. Tre periodi, tre coppie diverse, ma sempre gli stessi attori, i bravissimi Tihana Lazovic e Goran Markovic. Perché gli uomini sono sempre gli stessi. Odio ed amore albergano in loro, pronti a cedere o a prendere il sopravvento; la colpa della storia è quella di alimentare il primo e farlo prevalere.
Leitmotiv ricorrenti, intrisi di potente simbolismo: il lago, Eden incancellabile, pronto ad accogliere nelle sue acque per un bagno purificatore; il sole, perennemente alto, la fonte di luce che non può essere oscurata. È la Natura, intesa come la Terra Madre, ad offrire ciò che è costantemente, immutevolmente buono; il rifugio sicuro dove i personaggi, rifiutata la città, fanno ritorno; è la zolla fertile dove piantare i semi delle nuove piante, i semi della rinascita.
Infine, da depositare nella memoria, momenti di narrazione poetici e potentissimi, come la sfida pacifica del giovane musicista che oppone il suono della sua tromba al rumore aspro dei mitragliatori.
O la struggente scena finale. Non c’è trionfo dell’amore in “Sole alto”: è predestinato a convivere con l’odio, a dover lottare contro di esso per far breccia nella sua dura corazza. Ma se, trovata la via di casa, tenace saprà perseverare nell’attesa, al mattino, quando il sole torna alto nel cielo, inevitabilmente per lui una porta si aprirà.
Voto: 8.5
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dian�
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martedì 25 aprile 2017
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amore e odio all'ombra della guerra
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Due sono le particolarità di questo film: si tratta di un titolo che non ha avuto ampia diffusione nelle sale italiane nonostante abbia vinto numerosi premi, alcuni anche importanti, come il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2015 nella sezione “Un certain regard”. La seconda particolarità sta nella scelta da parte del regista degli stessi attori, Tihana Lazovic e Goran Markovic,per interpretare tre diverse coppie in tre luoghi differenti, che in realtà sono sempre gli stessi: la campagna, il villaggio e il lago. Così come identici sono i sentimenti di rabbia, dolore e paura che ognuna delle tre storie lascia dietro di sé.
Ed è forse proprio la paura il sentimento che prevale guardando questo film, paura di non riuscire ad immaginare uno scenario diverso rispetto a quello che disegna il regista attorno alle conseguenze di una guerra, di non riuscire a pensare a quelle scene come a qualcosa che appartiene soltanto al passato.
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Due sono le particolarità di questo film: si tratta di un titolo che non ha avuto ampia diffusione nelle sale italiane nonostante abbia vinto numerosi premi, alcuni anche importanti, come il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2015 nella sezione “Un certain regard”. La seconda particolarità sta nella scelta da parte del regista degli stessi attori, Tihana Lazovic e Goran Markovic,per interpretare tre diverse coppie in tre luoghi differenti, che in realtà sono sempre gli stessi: la campagna, il villaggio e il lago. Così come identici sono i sentimenti di rabbia, dolore e paura che ognuna delle tre storie lascia dietro di sé.
Ed è forse proprio la paura il sentimento che prevale guardando questo film, paura di non riuscire ad immaginare uno scenario diverso rispetto a quello che disegna il regista attorno alle conseguenze di una guerra, di non riuscire a pensare a quelle scene come a qualcosa che appartiene soltanto al passato. Paura di non riuscire a credere che un giorno l’odio tra le diverse etnie verrà finalmente sepolto.
Il regista croato Dalibor Matanic assegna il compito di testimoniare questa paura ad una coppia di bravissimi attori, che si muove nell’arco di 3 decenni vicini alla guerra dei Balcani, 1991, 2001 e 2011. Una coppia che si muove perché fermi davanti ad un conflitto di sangue non si riesce a stare, sia che il conflitto rappresenti una minaccia di cui si sente già nell’aria l’odore, sia che si tratti invece di un ricordo, vicino o lontano.
No, fermi non si riesce a stare, e allora ci si muove per fuggire, ci si incontra e ci si scontra, ci si muove per provare invano a capire. Ma prima o poi, ci si muove anche per tornare, per tornare nei propri luoghi d’origine, per tornare a volersi bene.
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no_data
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lunedì 14 novembre 2016
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un film bellissimo
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Tre bellissimi episodi che si svolgono a partire della fine della guerra. Magistralmente interpretati dai due attori ci aiuta a prendere coscienza della tragedia che hanno vissuto famiglie intere in Yougoslavia: comunità intere lascerate dai conflitti interni. Un dramma indimenticabile che si è svolto alle nostre porte. Un grazie al regista che ci ha offerto questa testimonianza preziosa attraverso tre storie d'amore.
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lbavassano
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martedì 25 ottobre 2016
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splendido film, che pochi hanno potuto vedere
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Notevole è la capacità narrativa del film di Dalibor Matanic, la capacità di raccontare, tramite un uso estremo dell'ellissi, storie che nonostante ciò non perdono nulla della propria piena coerenza, mentre viene esaltata la loro intensità. Notevole è la capacità di raccontare grazie alla forza delle immagini, del taglio mai banale delle inquadrature, dell'indugio mai esornativo sui dettagli. Importante è la volontà di ricordare una tragedia, la guerra nella ex Jugoslavia, troppo prossima ai nostri confini, troppo recente, troppo frettolosamente dimenticata. Ci racconta di fughe, tentate e riuscite, e di ritorni, "Sole alto", con linguaggi diversi ma cinematograficamente coerenti, e quel cane randagio, abbandonato e ritrovato, che di tale coerenza rappresenta il simbolo più forte, attende anche noi.
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Notevole è la capacità narrativa del film di Dalibor Matanic, la capacità di raccontare, tramite un uso estremo dell'ellissi, storie che nonostante ciò non perdono nulla della propria piena coerenza, mentre viene esaltata la loro intensità. Notevole è la capacità di raccontare grazie alla forza delle immagini, del taglio mai banale delle inquadrature, dell'indugio mai esornativo sui dettagli. Importante è la volontà di ricordare una tragedia, la guerra nella ex Jugoslavia, troppo prossima ai nostri confini, troppo recente, troppo frettolosamente dimenticata. Ci racconta di fughe, tentate e riuscite, e di ritorni, "Sole alto", con linguaggi diversi ma cinematograficamente coerenti, e quel cane randagio, abbandonato e ritrovato, che di tale coerenza rappresenta il simbolo più forte, attende anche noi. Perché tutto ciò è accaduto, perché tutto ciò potrebbe tornare ad accadere. E' un film bello e importante quello di Dalibor Matanic, testimonianza di un'idea alta del fare cinema. Temo troppo pochi abbiano avuto la possibilità di vederlo.
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marcello1979
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mercoledì 10 agosto 2016
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non so..
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Direi che la mia predisposizione per il cinema "lento" è in parte soddisfatta..
Luci ed ombre sul legame delle tre vicende ma tutto sommato in linea con ciò che mi aspettavo..
La regià è superlativa come la fotografia...
Dubbi sulla trama.
Vorrei rivederlo in versione velocizzata... forse non è il tipo di film che può incollare le persone
allo schienale dell'ANTEO....
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marco michielis
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martedì 19 luglio 2016
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l'amore e l'odio etnico
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L’ultimo film distribuito nelle sale italiane dalla friulana "Tucker film" è stato “Sole alto” del regista croato Dalibor Matanic, premiato l’anno scorso a Cannes dalla Giuria della Sezione Un Certain Regard. Diviso in tre differenti storie, interpretate sempre dagli stessi attori protagonisti, ossia Goran Markovic e la rivelazione Tihana Lazovic, elogiata alla Berlinale anche dal nostro Nanni Moretti, “Sole alto” tratta del tema dell’amore tra una ragazza serba e un ragazzo croato in diversi momenti recenti della storia della Jugoslavia e della ex Jugoslavia, sempre caratterizzati, tuttavia, dall’odio e dalla diffidenza tra le due etnie.
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L’ultimo film distribuito nelle sale italiane dalla friulana "Tucker film" è stato “Sole alto” del regista croato Dalibor Matanic, premiato l’anno scorso a Cannes dalla Giuria della Sezione Un Certain Regard. Diviso in tre differenti storie, interpretate sempre dagli stessi attori protagonisti, ossia Goran Markovic e la rivelazione Tihana Lazovic, elogiata alla Berlinale anche dal nostro Nanni Moretti, “Sole alto” tratta del tema dell’amore tra una ragazza serba e un ragazzo croato in diversi momenti recenti della storia della Jugoslavia e della ex Jugoslavia, sempre caratterizzati, tuttavia, dall’odio e dalla diffidenza tra le due etnie.
A legare tra di loro le tre vicende non vi sono soltanto gli interpreti e i contenuti principali, ma anche alcuni elementi formali e stilistici grazie ai quali Matanic tenta, riuscendoci solo qualche volta, in realtà, di conferire una struttura verticale e ben salda alla totalità del film. Ma, se anche lo spettatore più distratto si accorgerà del costante richiamo al bagno e all’immersione in acqua adottato come una sorta di rituale di purificazione, bisogna anche riconoscere che, sia dal punto di vista qualitativo che da quello della complessità dell’intreccio, le tre storie non sono sullo stesso livello. Personalmente, al primo episodio (trascurabile) e all’ultimo (molto banale e forzato), ho di gran lunga preferito la forza espressiva del secondo, nel quale si racconta di una madre e di sua figlia, entrambe serbe, che tornano a vivere nel 2001 nella loro precedente abitazione, abbandonata e devastata durante il conflitto. Sarà un ragazzo croato, Ante, prima guardato con estrema diffidenza, poi amato in un breve e intenso attimo di passione dalla giovane serba, Natasa, ad aiutarle nella ricostruzione della casa. Ricostruzione fisica che diverrà anche tentativo di ricostruzione morale e di riconciliazione post-conflitto e intergenerazionale quando Ante, a lavori conclusi, prenderà l’inaspettata e, a suo modo, clamorosa decisione di non essere pagato, lasciando Natasa nel rimorso per la brutalità e la spietatezza del suo comportamento nei confronti del ragazzo e nel buio e nell’oscurità della sua coscienza, rappresentati con efficacia dal vicoletto ombroso tra due lati dell’edificio dove la giovane spesso si rifugia.
A regalare speranza in quello che, pur guardando al “sole alto” che si erge al di sopra dell’insensatezza del conflitto serbo-croato, si configura, in ogni caso, come una rappresentazione piuttosto sconsolata delle difficoltà e spesso dell’impossibilità dell’amore in contesti di odio etnico, quasi come un moderno “Romeo e Giulietta”, vi è la porta aperta posta a conclusione dell’ultima delle tre storie, e quindi del film, che, inserita all’interno del contesto e della vicenda specifica del terzo episodio, diventa possibilità di riscatto per le nuove generazioni di serbi e di croati e spiraglio attraverso il quale intravedere un futuro migliore e di pacifica convivenza e accordo tra i due popoli sia nella vita di ogni giorno sia nel più intricato campo della memoria storica. Di questo “Sole alto”, lavoro, nel complesso, buono ma non indimenticabile, resta soprattutto, però, l’interpretazione di una Lazovic elogiata internazionalmente e destinata, si spera, a una brillante carriera, aiutata dalla forza e, a tratti, veemenza della sua espressività e, bisogna dire, anche dalla sua bellezza carnale e prosperosa che a me ha ricordato, seppur vagamente, quella della Harriet Andersson del capolavoro bergmaniano “Monica e il desiderio”.
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aledor
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martedì 19 luglio 2016
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un climax (troppo) discendente
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C'è parecchio a lasciare insoddisfatti in questo film a tre episodi sul postbellico balcanico, basato sulle vicende di altrettante giovani coppie (lui serbo-lei croata, negli anni 1991, 2001 e 2011). Tre storie, stessa coppia di giovani attori (Tihana Lazovic, Goran Markovic): un amore contrastato al principio della guerra, un incontro conflittuale al tempo della ricostruzione, una coppia ritrovata e con un bimbo ai tempi d'oggi, o quasi.
Se pure le storie di giovani innamorati durante una guerra (corpo plastico della classica narrazione in cui l'Amore vince sull'Odio) restano un piacevole archetipo, qui il film di Matanic appare poco più che un prodotto consapevolmente destinato agli apprezzamenti di un pubblico radical-chic, che si contenta di partecipare entusiasticamente al contenuto senza domandarsi nulla sul contenitore, fiducioso della certificazione etica rilasciata dal regista (forte in questo caso della natura stessa degli eventi narrati).
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C'è parecchio a lasciare insoddisfatti in questo film a tre episodi sul postbellico balcanico, basato sulle vicende di altrettante giovani coppie (lui serbo-lei croata, negli anni 1991, 2001 e 2011). Tre storie, stessa coppia di giovani attori (Tihana Lazovic, Goran Markovic): un amore contrastato al principio della guerra, un incontro conflittuale al tempo della ricostruzione, una coppia ritrovata e con un bimbo ai tempi d'oggi, o quasi.
Se pure le storie di giovani innamorati durante una guerra (corpo plastico della classica narrazione in cui l'Amore vince sull'Odio) restano un piacevole archetipo, qui il film di Matanic appare poco più che un prodotto consapevolmente destinato agli apprezzamenti di un pubblico radical-chic, che si contenta di partecipare entusiasticamente al contenuto senza domandarsi nulla sul contenitore, fiducioso della certificazione etica rilasciata dal regista (forte in questo caso della natura stessa degli eventi narrati). Se ne colgono i sintomi nella fiducia incondizionata con cui egli affida alla protagonista femminile il timone emotivo delle tre storie, mettendone il faccione eternamente imbronciato a guardia di un puntuto provincialismo che il pubblico straniero, piaccia o no, non è obbligato a comprendere o ad accettare tout-court. Il risultato è che si capisce bene che l'amore prima o poi vincerà, ma si ha l'impressione che ci metterà parecchio e ci lascerà sicuramente di cattivo umore. Sole Alto, che tecnicamente zoppica in irritante regressione dal primo al terzo episodio, manca della maestria necessaria per aspirare a valori universali, e chiede troppo ad un cast uno e trino la cui recitazione evidenzia ad ogni episodio caratteristiche già viste dei personaggi e, si direbbe, dei loro attori. Forse un sano senso della misura (e uno speranzoso mezzo sorriso in più) avrebbero dato un girato intelligente e sorprendente, elegantemente artigianale, perfino divertente (di spunti ce ne sarebbero stati parecchi, specialmente nel secondo episodio) mentre in definitiva ci si trova ad assistere ad un prodotto ancora grezzo e pericolosamente vicino ad un laboratorio di recitazione all'aperto, con immancabili tramonti e volti pensosi a fare da noioso riempitivo.
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kaipy
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mercoledì 1 giugno 2016
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senza retorica e sentimentalismi
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Un film senza orpelli, scarno, duro e poetico insieme.
C'è un primitivismo in noi che non appartiene alla guerra ma all'amore.
Sole alto è questa innata forza del vivere, a cui si contrappone la profondità dell'acqua. L'uomo vi s'immerge, solo, e poi risale in superficie. Alla luce, al calore, alla vita.
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