alexander 1986
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venerdì 18 settembre 2015
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i nostri amici jihadisti
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Ambientato presso la celeberrima località maliana, ma situabile in molte altre in giro per il mondo ai giorni nostri. Film che racconta la vita di una piccola comunità sottoposta al controllo di militanti islamisti. Lo fa a vari livelli: dalla puerile distruzione di simulacri animisti alle tragiche esecuzioni capitali. Il regista mauritano Sissako mette in scena un'opera drammatica solo nella veste superficiale. Il vero contenuto di fondo è la rappresentazione satirica della stupidità del fondamentalismo: ragazzi poco più che dementi ordinano alle donne di indossare i guanti con 50° all'ombra e ai loro coetanei di non giocare a calcio, pretendendo di risultare loro persino simpatici.
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Ambientato presso la celeberrima località maliana, ma situabile in molte altre in giro per il mondo ai giorni nostri. Film che racconta la vita di una piccola comunità sottoposta al controllo di militanti islamisti. Lo fa a vari livelli: dalla puerile distruzione di simulacri animisti alle tragiche esecuzioni capitali. Il regista mauritano Sissako mette in scena un'opera drammatica solo nella veste superficiale. Il vero contenuto di fondo è la rappresentazione satirica della stupidità del fondamentalismo: ragazzi poco più che dementi ordinano alle donne di indossare i guanti con 50° all'ombra e ai loro coetanei di non giocare a calcio, pretendendo di risultare loro persino simpatici.
A queste comiche assurdità, il regista contrappone per un residuo di par condicio politically correct una visione alternativa dell'Islam, costituita cioé da imam che non si scandalizzano più di tanto nel vedere una donna con il viso scoperto o un giovane che suona la chitarra. 'Timbuktu' rappresenta così l'impossibile dialettica fra due mini-mondi a confronto con la crescente occidentalizzazione. Notevolissima la rappresentazione dei jihadisti: niente orchi da favole, bensì uomini mediocri come tutti gli altri. Candidato agli Oscar 2015. Un bel film d'autore dall'Africa reale.
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seymourhoffmann
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venerdì 7 luglio 2017
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una potenza narrativa inaudita
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film bellissimo di una potenza narrrativa inaudita...La scena piu' toccante? il momento in cui ambedue i protagonisti , marito e moglie, muoiono sotto i colpi di mitra del miliziano jihadista nell' ultimo tentativo di abbracciarsi ... un' altra scena molto potente? è quella della partita pallone giocata senza il pallone da quei ragazzi con la passione per la vita e per lo sport... ma che hanno il terrore di essere scoperti dai jihadisti per aver commesso il "grave peccato" dell' amore per il calcio ... un film profetico che annuncia l a morte dell' Islam per mano dei Jihadisti.
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film bellissimo di una potenza narrrativa inaudita...La scena piu' toccante? il momento in cui ambedue i protagonisti , marito e moglie, muoiono sotto i colpi di mitra del miliziano jihadista nell' ultimo tentativo di abbracciarsi ... un' altra scena molto potente? è quella della partita pallone giocata senza il pallone da quei ragazzi con la passione per la vita e per lo sport... ma che hanno il terrore di essere scoperti dai jihadisti per aver commesso il "grave peccato" dell' amore per il calcio ... un film profetico che annuncia l a morte dell' Islam per mano dei Jihadisti... come infatti sta gia' accadendo nell' Occidente , a partire dall' attentato al Bataclan di Parigi in poi ...
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giorpost
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mercoledì 12 luglio 2017
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i 2 volti dell'islam in una rara lezione di cinema
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A pochi kilometri da Timbuctù, la famiglia di Kidane vive in una gigantesca tenda beduina le giornate in pace e senza troppe pretese, ma con sufficienti risorse per andare avanti dignitosamente. Nel vicino villaggio, però, fa la sua inattesa comparsa un gruppo di jihadisti dagli intenti poco rassicuranti: instaurare la Sharia, impedire alle donne di tenere il volto scoperto ed agli uomini di adoperarsi in attività ricreative, ritenute blasfeme. Ad aiutare Kidane e famiglia c'è un giovanissimo (ed orfano) pastore il quale, nell'atto di portare al pascolo le vacche, ne perde una; la povera GPS, quella che guida il resto del branco, viene precipitosamente uccisa per mano di un pescatore burbero e dal grilletto facile.
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A pochi kilometri da Timbuctù, la famiglia di Kidane vive in una gigantesca tenda beduina le giornate in pace e senza troppe pretese, ma con sufficienti risorse per andare avanti dignitosamente. Nel vicino villaggio, però, fa la sua inattesa comparsa un gruppo di jihadisti dagli intenti poco rassicuranti: instaurare la Sharia, impedire alle donne di tenere il volto scoperto ed agli uomini di adoperarsi in attività ricreative, ritenute blasfeme. Ad aiutare Kidane e famiglia c'è un giovanissimo (ed orfano) pastore il quale, nell'atto di portare al pascolo le vacche, ne perde una; la povera GPS, quella che guida il resto del branco, viene precipitosamente uccisa per mano di un pescatore burbero e dal grilletto facile. Kidane, che non accetta di aver perso un pezzo importante di quel bestiame che garantisce le uniche entrate di famiglia, proverà a farsi giustizia da solo, innescando un effetto domino che lo porterà a doversela vedere con gli ideali integralisti di quella autoproclamata polizia che, tra le tante cose, ha assunto anche il compito di giudicare e condannare la gente di questa pacifica Terra...
E' la prima volta che “incontro” il regista Sissako: cresciuto tra Mauritania e Mali, e formatosi artisticamente in Russia e Francia, con il suo Timbuktu (2014) affronta un tema molto delicato, vista l'epoca che stiamo vivendo, e la cosa non è da tutti; l'opera, infatti, riesce nel proibitivo compito di mostrarci i due volti della religione predominante del Continente, l'Islam. Se da un lato troviamo musulmani moderati, pacifici, dediti al lavoro, alla preghiera e a pomeriggi di relax stesi a terra a riflettere sulla vita, dall'altro ci troviamo a cospetto di quella parte distorta ed irrazionale (oserei dire depravata) di un culto preso a pretesto per dare sfogo alle più aberranti deviazioni umane. Quante volte abbiamo sentito parlare di Boko Haram, dei rapimenti di donne giovani, di matrimoni forzati, di schiave del sesso e di divieti assurdi? E quante altre abbiamo dovuto ascoltare, impotenti, notizie di attentati dello Stato Islamico in queste martoriate terre? Ebbene, la banda di fondamentalisti che si impossessa indebitamente del villaggio del Mali dove questa storia è ambientata, esiste nella realtà. Come nella realtà esistono quelle fascinose tende costruite con materiali di scarto da comunità che hanno come scopo unico la sopravvivenza, senza intralciare l'altrui cammino.
Sissako ci rappresenta l'Africa nell'accezione più vera possibile, quella di un Continente profondamente agli antipodi rispetto alla civiltà alla quale siamo abituati, eppure incredibilmente affascinante nella sua prorompente bellezza naturale. Questa non è una pellicola di attori, ma un'opera puramente registica, fatta di sequenze artisticamente assai elevate, come quella dell'uccisione del pescatore dopo la quale pare di scorgere, da lontano, Gesù che cammina sulle acque di quel lago-oasi che dona vita alle popolazioni del luogo. Se proprio devo muovere una critica al regista mauritano-maliano è la lungaggine di alcuni dialoghi (in 3 diverse lingue) che ci fanno, tuttavia, comprendere i diversi punti di vista dei fedeli. Culturalmente parlando, Timbuktu ci palesa una lezione scomoda, ma sostanziale: al netto degli integralismi e dei fondamentalismi, si può vivere davvero con poco, compreso un pallone che non c'è per fare una virtuale partita di calcio.
Voto: 9
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pepito1948
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martedì 24 febbraio 2015
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violenza, poesia, bellezza: gli ingredienti magici
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Succede da sempre che un Potere irrompa e si insinui in un territorio imponendo proprie regole, attraverso la persuasività della forza, ad una popolazione debilitata da condizioni avverse. Se le regole sono legate ad una religione, e se la religione è la sharia, le regole diventano la legge di Dio , quindi sono assolute ed inderogabili. Chi agisce in nome del potere (religioso), è guidato da Dio e da questo legittimato in ogni suo gesto politico. In tale ottica il Potere proibisce, impone obblighi di fare e soprattutto di non fare, non parla mai di diritti; vieta rigorosamente tutto ciò che si identifica con i nemici di Dio o che è sintomo di corruzione, quindi in prima linea tutto ciò che è antitesi culturale (l’empio Occidente): non fumare, non giocare a pallone, non fare o ascoltare musica, salvo essere indulgente verso questi reati-peccati se è il potere stesso a commetterli.
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Succede da sempre che un Potere irrompa e si insinui in un territorio imponendo proprie regole, attraverso la persuasività della forza, ad una popolazione debilitata da condizioni avverse. Se le regole sono legate ad una religione, e se la religione è la sharia, le regole diventano la legge di Dio , quindi sono assolute ed inderogabili. Chi agisce in nome del potere (religioso), è guidato da Dio e da questo legittimato in ogni suo gesto politico. In tale ottica il Potere proibisce, impone obblighi di fare e soprattutto di non fare, non parla mai di diritti; vieta rigorosamente tutto ciò che si identifica con i nemici di Dio o che è sintomo di corruzione, quindi in prima linea tutto ciò che è antitesi culturale (l’empio Occidente): non fumare, non giocare a pallone, non fare o ascoltare musica, salvo essere indulgente verso questi reati-peccati se è il potere stesso a commetterli. L’imposizione attraverso la jihad (guerra santa) della sharia (legge coranica), come missione ispirata da Dio che riecheggia il ”Dio lo vuole!” dei crociati cristiani, richiede l’uso della forza da parte del Potere che non ammette rifiuti o dinieghi: ogni resistenza, in quanto ostacolo alla sharia, è sacrilega quindi merita il castigo. Il Potere, ispirato dalla sharia, vuole la donna vincolata alla rete di obblighi propri del suo ruolo, che la confinano entro un ristretto recinto operativo a difesa della moralità degli uomini: la sua pelle e i suoi movimenti devono essere sfumati al massimo alla vista degli altri. Perfino le sue mani, principali artefici dei gesti quotidiani di sopravvivenza, devono essere coperte dai guanti. Il Potere, ispirato dalla sharia, dà diritto ad ogni buon jihadista di scegliere una donna tra la popolazione, a prescindere dal suo consenso o da quello della madre. Il Potere, ispirato dalla sharia, in caso di reato-peccato, emette sentenze inappellabili, attraverso proprie corti di giustizia che applicano pene anche estreme ritenute in linea con i principi coranici. Il Potere, fortificato dalla sharia, si espande in modo tentacolare e vigila anche nei luoghi sperduti in pieno deserto, portando il verbo intransigente di Dio in qualsiasi posto sia alla sua portata.
Il Potere insegue gli avversari, li tallona e li sfianca come una preda che fugge zig-zagando dovunque intraveda una possibilità di salvezza.
Le vittime del Potere sono le donne che si ribellano ad un matrimonio forzato o ai guanti che impediscono di pulire il pesce. Sono i ragazzi che cercano di giocare squarciando il velo di severità immanente e, per difendersi dagli artigli del Potere, ricorrono all’immaginazione. Sono gli uomini, quasi assenti, costretti al silenzio ed a decolorare il proprio vissuto di individui per la paura di articolare il pensiero. Perfino l’altro potere, quello tradizionale e pacifico di un imam, nulla può contro il Potere, ispirato da Dio, del fondamentalismo dominante. Le vittime sono il libero pensiero, l’arte, l’autodeterminazione, le tradizioni radicate e seguite sul territorio, la parola e il linguaggio degli avi.
Dall’immane forza disgregatrice di tutto questo viene investita una famiglia felicemente raccolta sotto una tenda nel deserto, i cui componenti, travolti dall’onda d’urto, si avvieranno a destini diversi.
L’africano A. Sissako, uno dei più eminenti registi del continente nero, prende spunto dalla recente invasione del Nord del Mali (ma il film è girato in Mauritania) da parte dei fondamentalisti islamici, per imbastire un racconto sulla disumanità di una guerra e di uno scontro senza senso, e per estensione sui rischi di un conflitto che trascende i confini territoriali e che, ispirato da un credo inflessibile, corrobora e moltiplica forze, risorse e spinte difficilmente arrestabili. Lo fa con una sensibilità (e una cautela) tutta africana (come lo scomparso Sembene con il suo Mooladè), coniugando violenza e poesia, elementi apparentemente antitetici ma abilmente mescolati dalle mani esperte del regista. La violenza non è narrata nei suoi aspetti più feroci, sanguinari ed appariscenti, ma si insinua sottilmente in un agire dove l’apparire nasconde come una fitta rete (ma pur sempre rete) il reale essere: uomini stimolati da una profonda fede, motivazioni granitiche, processi con contraddittorio, interazioni dialoganti che sembrano fluire ma che sottendono una realtà precostituita, immobile e perciò immodificabile e mortificante. La violenza (non l’Islam che Sissako rispetta come si evince dal dialogo tra imam e integralista) non è avvertita come una sciabolata ma come una sequela di penetranti stilettate. La poesia dei visi di tutte le donne coinvolte mette in risalto il contrasto con la brutalità fasciata dei fondamentalisti, i loro abiti pluricolorati rivelatori di ricchezza interiore confliggono con l’arido vestiario degli uomini dominanti che quasi non si distingue dal desertume circostante. Sembra quasi di scorgere una doppia valenza nell’uomo della tenda nel deserto che sembra correre sulle acque del fiume verso un destino tragico, come un Cristo consapevole di andare verso il proprio martirio.
La difficoltà di comunicare, rimarcata dalla pluralità di dialetti che non si incontrano, sottolinea l’incomprensibilità tra visioni diverse nonostante il comune credo, che evidenzia l’assurdità di un conflitto così profondo tra fratelli di fede.
Una grande opera densa e spessa in cui il dolore, la sofferenza e la sopraffazione sono filtrati paradossalmente dalla bellezza: delle immagini, delle donne, dei paesaggi, dell’innocenza, quasi per lenire l’assorbimento da parte di chi osserva della durezza di una realtà, che inevitabilmente evoca scene recenti di sagome arancioni inginocchiate o chiuse in stie metalliche ripetute in mondovisione in un crescendo senza fine. Peccato per un doppiaggio troppo occidentale per rendere al meglio atmosfere e pensieri di culture lontane dalla nostra; ma è l’unica dissonanza in una splendida sinfonia.
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rampante
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giovedì 29 ottobre 2015
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una storia
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Un film che lascia un ricordo struggente e doloroso, sguardi persi nell'inferno della jihad, una tremenda guerra civile scatenata dagli estremisti islamici.
Parte settentrionale del Mali, zona infiltrata da milizie jihadiste che arrivano dalla Libia, uomini armati in gran parte stranieri hanno imposto la sharia alla popolazione locale: niente musica, sigarette, calcio e le donne devono essere coperte.
Poco lontano da Timbuktu, presa in ostaggio dagli estremiste religiosi il tuareg Kidane vive pacificamente con la moglie Satima, la figlia Toya ed il pastorello Issan ma
un giorno la sua mucca favorita sfugge al controllo e rompe le reti del pescatore Amadon, che la trafigge con una lancia.
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Un film che lascia un ricordo struggente e doloroso, sguardi persi nell'inferno della jihad, una tremenda guerra civile scatenata dagli estremisti islamici.
Parte settentrionale del Mali, zona infiltrata da milizie jihadiste che arrivano dalla Libia, uomini armati in gran parte stranieri hanno imposto la sharia alla popolazione locale: niente musica, sigarette, calcio e le donne devono essere coperte.
Poco lontano da Timbuktu, presa in ostaggio dagli estremiste religiosi il tuareg Kidane vive pacificamente con la moglie Satima, la figlia Toya ed il pastorello Issan ma
un giorno la sua mucca favorita sfugge al controllo e rompe le reti del pescatore Amadon, che la trafigge con una lancia.
Con questo dramma Sissako mostra come la jihad porti dolore e lutti in terre che vorrebbero solo vivere in pace.
Il regista mauritano rappresenta una comunità di islamici moderati e pur nella tragicità delle situazioni, riesce a raccontare l'orrore della jihad senza esserne sopraffatto proprio perchè rifiuta ogni retorica spettacolare per farsi carico del vero problema del cinema di fronte alla violenza.
Si apprezza soprattutto l'appassionata difesa delle donne, prime vittime dell'integralismo.
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vanessa zarastro
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domenica 22 febbraio 2015
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culture a confronto
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Un film intenso che mi ha evocato alcune pellicole di Pier Paolo Pasolini per l’essenzialità e quasi secchezza del racconto, per la durezza, per alcune simbologie e per i tempi lenti quasi dilatati. Sembra un congegno teatrale con tre scene: la tenda nella duna, l’oasi e l’agglomerato urbano. I processi, le lapidazioni, le fucilazioni avvengono tutti attorno a queste quatto case con 5 o 6 persone. Sissako, regista e produttore nato in Mauritania, mette in atto una sorta di demitizzazione del luogo urbano poiché di Timbuktu sono rappresenta queste poche case di terra nel deserto e non certo una città rumorosa o piena di gente. Il territorio malese è molto più vasto e non può essere rappresentato da una città.
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Un film intenso che mi ha evocato alcune pellicole di Pier Paolo Pasolini per l’essenzialità e quasi secchezza del racconto, per la durezza, per alcune simbologie e per i tempi lenti quasi dilatati. Sembra un congegno teatrale con tre scene: la tenda nella duna, l’oasi e l’agglomerato urbano. I processi, le lapidazioni, le fucilazioni avvengono tutti attorno a queste quatto case con 5 o 6 persone. Sissako, regista e produttore nato in Mauritania, mette in atto una sorta di demitizzazione del luogo urbano poiché di Timbuktu sono rappresenta queste poche case di terra nel deserto e non certo una città rumorosa o piena di gente. Il territorio malese è molto più vasto e non può essere rappresentato da una città.
I detentori del potere sono dipinti sempre in contraddizione: non si può fumare ma il capo jihadista fuma, è vietato il calcio ma lui parla di Zidane e Messi; fanno pensare alla famosa frase che una volta si attribuiva ai preti cattolici “fate quello che dico ma non fate quello che faccio”. Molto bella è la scena muta dei ragazzi che giocano una partita di calcio senza pallone. Inutile, credo, menzionare la situazione delle donne, costrette sempre da nuove regole repressive; nel film le si impongono scarpe e guanti perfino a quelle che svolgono lavori manuali fondamentali per la loro sopravvivenza come ad esempio pulire il pesce!
In Timuktu è rappresentata la differenza tra due culture: quella nera e quella araba, così come modi diversi di essere religiosi. In contrapposizione al fanatismo jihadista viene, infatti, descritto il modo di essere religioso del pastore Kidane, che vive con la moglie Satima e la loro figlia Toya sotto una tende nel deserto. Due sono i personaggi simbolico-trasgressivi: la donna matta con la sua gallina-compagna di vita, i suoi fiocchetti e i suoi colori e il salvatore con la moto (come la gazzella che scappa…si salveranno?)
Ottima la fotografia del film che in originale ha un titolo molto più poetico – Le Chagrin des Oiseaux - ed è già vincitore del Premio della Giuria Ecumenica a Cannes, è candidato all’Oscar come migliore film straniero.
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rossijavserdze
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martedì 1 settembre 2015
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buona visione, basta mettere in muto.
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Encomiabili gli attori l'intensa espressività e la bravura - benché quest'ultima non sia messa certo a dura prova dalla sceneggiatura - per la capacità di sopravvivere a una sceneggiatura teneramente ingenua e a dialoghi decisamente irritanti per il loro unire a una dilettantistica inconsistenza una plateale ridondanza drammaturgica rispetto alle immagini. Togliete l'audio e godrete di un bel documentario, scritto con tratto infantile ma a tratti elegante e calligrafico, sulla vita in un lembo e ai bordi del deserto, nel momento in cui su questa si stringono le tenaglie di un'etica altra, ferocemente cieca e sorda alla vita dei singoli e della comunità.
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Encomiabili gli attori l'intensa espressività e la bravura - benché quest'ultima non sia messa certo a dura prova dalla sceneggiatura - per la capacità di sopravvivere a una sceneggiatura teneramente ingenua e a dialoghi decisamente irritanti per il loro unire a una dilettantistica inconsistenza una plateale ridondanza drammaturgica rispetto alle immagini. Togliete l'audio e godrete di un bel documentario, scritto con tratto infantile ma a tratti elegante e calligrafico, sulla vita in un lembo e ai bordi del deserto, nel momento in cui su questa si stringono le tenaglie di un'etica altra, ferocemente cieca e sorda alla vita dei singoli e della comunità. Muto, il film si farebbe agevolmete perdonare lo sguardo involontariamente bambino dietro la cinepresa.
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[+] ma non diciamo sciocchezze!
(di olrik)
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fedezena
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giovedì 6 luglio 2017
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interessante, ma è piu un documentario che un film
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Film che racconta di alcune vicende dove sovrasta l'islam, i principali protagonisti sono una famiglia, dove il marito combina un casino e viene arrestato.
Questo film mostra come vanno le cose in quei posti, dove girano con i turbanti e gli islamiti girano armati e impongono la loro religione e il loro credo a tutti, senza troppi problemi.
È un film interessante, per chi non conoscesse come funzionano queste cose, ma quasi tutti oramai sappiamo come vanno le cose laggiú, quindi a me non ha colpito molto..
Nel film i dialoghi sono al minimo e spesso non tradotti o sottotitolati, inoltre è molto lento come regia, colonne sonore e audio praticamente assenti, per questo lo definisco piú documentario che film.
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Film che racconta di alcune vicende dove sovrasta l'islam, i principali protagonisti sono una famiglia, dove il marito combina un casino e viene arrestato.
Questo film mostra come vanno le cose in quei posti, dove girano con i turbanti e gli islamiti girano armati e impongono la loro religione e il loro credo a tutti, senza troppi problemi.
È un film interessante, per chi non conoscesse come funzionano queste cose, ma quasi tutti oramai sappiamo come vanno le cose laggiú, quindi a me non ha colpito molto..
Nel film i dialoghi sono al minimo e spesso non tradotti o sottotitolati, inoltre è molto lento come regia, colonne sonore e audio praticamente assenti, per questo lo definisco piú documentario che film.
Direi che questo film dovrebbero farlo vedere ai ragazzi piú giovani, o nelle scuole, perchè è istruttivo, ma non lo rivedrei di nuovo.
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enrico danelli
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domenica 22 marzo 2015
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quando la realtà supera la finzione
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Questo film viene continuamente superato dalle notizie che ci arrivano dai territori occupati dagli integralisti. In confronto alle immagini tratte dalla realtà, facilmente reperibili sul web o su diversi network televisivi, questo film rimane indietro di parecchio, cioè su livelli meno drammatici e spettacolari. L'effetto denuncia è quindi ampiamente scontato e lo spettaore arriva già ben preparato per quello che gli toccherà vedere. Tuttavia l'analisi della situazione non è banale e aggiunge qualcosa di nuovo e di rassicurante per noi occidentali: il fanatismo integralista è spesso di facciata e nasconde esclusivamente una volontà di potere.
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Questo film viene continuamente superato dalle notizie che ci arrivano dai territori occupati dagli integralisti. In confronto alle immagini tratte dalla realtà, facilmente reperibili sul web o su diversi network televisivi, questo film rimane indietro di parecchio, cioè su livelli meno drammatici e spettacolari. L'effetto denuncia è quindi ampiamente scontato e lo spettaore arriva già ben preparato per quello che gli toccherà vedere. Tuttavia l'analisi della situazione non è banale e aggiunge qualcosa di nuovo e di rassicurante per noi occidentali: il fanatismo integralista è spesso di facciata e nasconde esclusivamente una volontà di potere. Uno dei capi integralisti viene scovato a fumare di nascosto dietro ad una duna come uno scolaretto nei bagni della scuola, un altro giovane combattente indottrinato a dovere non riesce a spiccicare una parola di propaganda davanti alla telecamera, rendendosi ben conto della vacuità delle idee inculcaltegli D'altro lato la popolazione non sopporta la rigidità e la assurdità delle regole imposte. Se questi sono gli integralisti islamici.potremmo quasi stare tranquilli. Il timore è che il film sia fin troppo ottimista e che la realtà sia ben diversa. Quindi, a parte alcune scene memorabili (la partita di calcio senza pallone o la fuga iniziale della gazzella, metafora della fuga finale della bambina, a sua volta metafora della fuga di intere popolazioni), il film risulta troppo delicato e consolatorio.
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[+] non è un film holliwoodiano, grazie a dio.
(di olrik)
[ - ] non è un film holliwoodiano, grazie a dio.
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