eugenio
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mercoledì 28 gennaio 2015
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il non detto tra vecchi e giovani
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Non si può parlare del cinema di De Matteo se prima non si è disposti ad abbattere la quarta parete dell’elemento inaspettato che irrompe improvvisamente e letalmente in agiate famiglie solide e apparentemente prive di problemi. L’elemento imperturbato che scuote, muove e amplifica le sorti degli eroi in tensione è un classico di ogni commedia drammatica che si rispetti. De Matteo ha reso questo elemento una costante della sua filmografia; in sue pellicole passate come “Gli equilibristi” e “Bella gente”, l’irruzione violenta di un elemento “irrazionale” nel tessuto della realtà borghese odierna, un qualcosa da opporre alla buona educazione e alla facciata ipocrita del mondo circostante, una forza eversiva e incontenibile, avvinghiava a sè lo spettatore trascinandolo nell’abisso di umana e quotidiana miseria.
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Non si può parlare del cinema di De Matteo se prima non si è disposti ad abbattere la quarta parete dell’elemento inaspettato che irrompe improvvisamente e letalmente in agiate famiglie solide e apparentemente prive di problemi. L’elemento imperturbato che scuote, muove e amplifica le sorti degli eroi in tensione è un classico di ogni commedia drammatica che si rispetti. De Matteo ha reso questo elemento una costante della sua filmografia; in sue pellicole passate come “Gli equilibristi” e “Bella gente”, l’irruzione violenta di un elemento “irrazionale” nel tessuto della realtà borghese odierna, un qualcosa da opporre alla buona educazione e alla facciata ipocrita del mondo circostante, una forza eversiva e incontenibile, avvinghiava a sè lo spettatore trascinandolo nell’abisso di umana e quotidiana miseria.
Ne “I nostri ragazzi”, il titolo emblematico, ci lascia intendere che la “minaccia” proviene da un’altra parte, dal mondo ovattato di candida fiducia e provvida onestà: la famiglia.
E di famiglia si parla, di due famiglie diversamente borghesi con le dovute accezioni di ricchezza, del legame tra due fratelli, un chirurgo pediatrico con la giuste dose di trasandatezza (interpretato da un bravo Luigi Lo Cascio) e un rampante, elegante avvocato (Alessandro Gassman, ancor forse pià bravo nella sfaccettatura d’animo di Lo Cascio). Due fratelli diversi dal diverso modo di intendere la vita pur essendo entrambi al servizio dell’uomo, il primo nel tentativo di salvar la vita, il secondo nell’evitare condanne penali, , si incontrano a cena ogni mese in un ristorante penta-stellato con le reciproche mogli (Mezzogiorno e Bobulova, la prima ascetica e apatica nella sua cultura d’arte e di trasmissioni televisive, l’altra più amante del ricco che non nasconde interessi verso la moda d’alto stile ). I due fratelli sono accumunati dalla difficoltà di crescere, di entrare a contatto col mondo adolescenziale dei propri figli, Michele, quello del pediatra, quasi distante dietro i vetri spessi delle sue lenti e dipendente da video su youtube e Benedetta, nata da un precedente matrimonio tra l’avvocato e l’ex moglie, più trasgressiva e irrazionale.
Figli che non parlano mai con i genitori se non, come li definirebbe Serra, comunicando con “borbottii incomprensibili”, figli dell’era digitale evoluti con la specie troppo precocemente e al passo coi tempi (altro che motorini, qui si va dritto con macchine di ventimila euro), figli soli nella loro precarietà virtuale fatta di social network e like su Facebook.
Michele e Benedetta a differenza dei padri si frequentano spesso, il ragazzo in particolare sembra essere legato da un rapporto simbiotico alla fanciulla, seguendola nelle feste e nelle sue azioni, lei al tempo stesso, cieca della ricchezza paterna, lo esibisce ai suoi compagni di merende “come bestia da passeggio”.
Capita l’inaspettato, l’evento: una mendicante, nel quartiere Salaria a Roma, viene aggredita violentemente di notte da un ragazzo e di una ragazza finendo in coma. Le immagini riprese da una telecamera di sicurezza non consentono di identificare univocamente gli artefici del gesto ma la notizia fa presto a diffondersi anche sui giornali e su “Chi l’ha visto” (come se eventi di questo tipo fossero rari nelle grandi città); il tarlo del dubbio inizia a macinare nella mente della moglie del pediatra prima (tra l’altro fanatica del programma della Sciarelli) e di quella dell’avvocato dopo.
Quando ben presto, il sospetto diventa certezza, i due genitori, i due pater familias, l’avvocato e il medico forse troppo occupati nelle loro professioni per comprendere la vera natura dei figli, dovranno prendere in mano la responsabilità di un evento grave e delittuoso, accompagnando il desiderio di giustizia a un’analisi propria delle coscienze dei loro figli.
Nella pellicola di De Matteo, noi spettatori siamo posti dinanzi a un tema che conosciamo molto bene, che i giornali ci ricordano spesso: aggressioni violente a danni di persone indifese perpetrate da giovani ragazzi, molte volte di buona famiglia, senza una precisa ragione se non quella di sfogare la propria frustrazione sentimentale e il proprio ego malato su chi soffre.
Ne “I nostri ragazzi” l’evento di un trauma che apre il non detto tra adulti e figli, tra vecchi e giovani, non può che essere quasi conseguenza dell’ottusa volontà genitoriale di nascondere la testa sotto la sabbia dinanzi all’amoralità della prole, all’incapacità di comprendere il male che alberga nelle famiglie di elevata condotta morale affermate nella società ma prive di punti fermi e di riferimenti. Perchè è di riferimenti, inutile ricordarlo che il cineasta vuole parlare, scuotendo magari alcune famiglie “cieche” davanti allo schermo che alla visione della pellicola potrebbero pensare di essere lontane da quest’universo. I rifierimenti dell’onestà, del dialogo, della reciproca convivenza sono morti, affogati nel degrado morale che ha le sue radici in un falso perbenismo incapace di reggere il peso della quotidianeità. E l’idea di reprimere un sussulto vitale che si legge come voce di coscienza, col prezzolato patto del denaro, è mercificazione, è falsità, è follia quotidiana di telegiornali scandalistici.
E’ cancellazione della propria identità genitoriale che non salva anzi mafiosamente copre eventi tragici senza aver mai il coraggio di affrontarli con la dovuta punizione legale
Forse non di grande compostezza e efficacia ma ci mancava un film che malgrado la prolissità di alcune scene e la superficialità del frettoloso finale ci fa osservare, oggettivamente, una storia non troppo lontana dalla realtà dandoci del materiale con cui riflettere. Con garbo e attenzione.
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mercoledì 28 gennaio 2015
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Non si può parlare del cinema di De Matteo se prima non si è disposti ad abbattere la quarta parete dell’elemento inaspettato che irrompe improvvisamente e letalmente in agiate famiglie solide e apparentemente prive di problemi. L’elemento imperturbato che scuote, muove e amplifica le sorti degli eroi in tensione è un classico di ogni commedia drammatica che si rispetti. De Matteo ha reso questo elemento una costante della sua filmografia; in sue pellicole passate come “Gli equilibristi” e “Bella gente”, l’irruzione violenta di un elemento “irrazionale” nel tessuto della realtà borghese odierna, un qualcosa da opporre alla buona educazione e alla facciata ipocrita del mondo circostante, una forza eversiva e incontenibile, avvinghiava a sè lo spettatore trascinandolo nell’abisso di umana e quotidiana miseria.
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Non si può parlare del cinema di De Matteo se prima non si è disposti ad abbattere la quarta parete dell’elemento inaspettato che irrompe improvvisamente e letalmente in agiate famiglie solide e apparentemente prive di problemi. L’elemento imperturbato che scuote, muove e amplifica le sorti degli eroi in tensione è un classico di ogni commedia drammatica che si rispetti. De Matteo ha reso questo elemento una costante della sua filmografia; in sue pellicole passate come “Gli equilibristi” e “Bella gente”, l’irruzione violenta di un elemento “irrazionale” nel tessuto della realtà borghese odierna, un qualcosa da opporre alla buona educazione e alla facciata ipocrita del mondo circostante, una forza eversiva e incontenibile, avvinghiava a sè lo spettatore trascinandolo nell’abisso di umana e quotidiana miseria.
Ne “I nostri ragazzi”, il titolo emblematico, ci lascia intendere che la “minaccia” proviene da un’altra parte, dal mondo ovattato di candida fiducia e provvida onestà: la famiglia.
E di famiglia si parla, di due famiglie diversamente borghesi con le dovute accezioni di ricchezza, del legame tra due fratelli, un chirurgo pediatrico con la giuste dose di trasandatezza (interpretato da un bravo Luigi Lo Cascio) e un rampante, elegante avvocato (Alessandro Gassman, ancor forse pià bravo nella sfaccettatura d’animo di Lo Cascio). Due fratelli diversi dal diverso modo di intendere la vita pur essendo entrambi al servizio dell’uomo, il primo nel tentativo di salvar la vita, il secondo nell’evitare condanne penali, , si incontrano a cena ogni mese in un ristorante penta-stellato con le reciproche mogli (Mezzogiorno e Bobulova, la prima ascetica e apatica nella sua cultura d’arte e di trasmissioni televisive, l’altra più amante del ricco che non nasconde interessi verso la moda d’alto stile ). I due fratelli sono accumunati dalla difficoltà di crescere, di entrare a contatto col mondo adolescenziale dei propri figli, Michele, quello del pediatra, quasi distante dietro i vetri spessi delle sue lenti e dipendente da video su youtube e Benedetta, nata da un precedente matrimonio tra l’avvocato e l’ex moglie, più trasgressiva e irrazionale.
Figli che non parlano mai con i genitori se non, come li definirebbe Serra, comunicando con “borbottii incomprensibili”, figli dell’era digitale evoluti con la specie troppo precocemente e al passo coi tempi (altro che motorini, qui si va dritto con macchine di ventimila euro), figli soli nella loro precarietà virtuale fatta di social network e like su Facebook.
Michele e Benedetta a differenza dei padri si frequentano spesso, il ragazzo in particolare sembra essere legato da un rapporto simbiotico alla fanciulla, seguendola nelle feste e nelle sue azioni, lei al tempo stesso, cieca della ricchezza paterna, lo esibisce ai suoi compagni di merende “come bestia da passeggio”.
Capita l’inaspettato, l’evento: una mendicante, nel quartiere Salaria a Roma, viene aggredita violentemente di notte da un ragazzo e di una ragazza finendo in coma. Le immagini riprese da una telecamera di sicurezza non consentono di identificare univocamente gli artefici del gesto ma la notizia fa presto a diffondersi anche sui giornali e su “Chi l’ha visto” (come se eventi di questo tipo fossero rari nelle grandi città); il tarlo del dubbio inizia a macinare nella mente della moglie del pediatra prima (tra l’altro fanatica del programma della Sciarelli) e di quella dell’avvocato dopo.
Quando ben presto, il sospetto diventa certezza, i due genitori, i due pater familias, l’avvocato e il medico forse troppo occupati nelle loro professioni per comprendere la vera natura dei figli, dovranno prendere in mano la responsabilità di un evento grave e delittuoso, accompagnando il desiderio di giustizia a un’analisi propria delle coscienze dei loro figli.
Nella pellicola di De Matteo, noi spettatori siamo posti dinanzi a un tema che conosciamo molto bene, che i giornali ci ricordano spesso: aggressioni violente a danni di persone indifese perpetrate da giovani ragazzi, molte volte di buona famiglia, senza una precisa ragione se non quella di sfogare la propria frustrazione sentimentale e il proprio ego malato su chi soffre.
Ne “I nostri ragazzi” l’evento di un trauma che apre il non detto tra adulti e figli, tra vecchi e giovani, non può che essere quasi conseguenza dell’ottusa volontà genitoriale di nascondere la testa sotto la sabbia dinanzi all’amoralità della prole, all’incapacità di comprendere il male che alberga nelle famiglie di elevata condotta morale affermate nella società ma prive di punti fermi e di riferimenti. Perchè è di riferimenti, inutile ricordarlo che il cineasta vuole parlare, scuotendo magari alcune famiglie “cieche” davanti allo schermo che alla visione della pellicola potrebbero pensare di essere lontane da quest’universo. I rifierimenti dell’onestà, del dialogo, della reciproca convivenza sono morti, affogati nel degrado morale che ha le sue radici in un falso perbenismo incapace di reggere il peso della quotidianeità. E l’idea di reprimere un sussulto vitale che si legge come voce di coscienza, col prezzolato patto del denaro, è mercificazione, è falsità, è follia quotidiana di telegiornali scandalistici.
E’ cancellazione della propria identità genitoriale che non salva anzi mafiosamente copre eventi tragici senza aver mai il coraggio di affrontarli con la dovuta punizione legale
Forse non di grande compostezza e efficacia ma ci mancava un film che malgrado la prolissità di alcune scene e la superficialità del frettoloso finale ci fa osservare, oggettivamente, una storia non troppo lontana dalla realtà dandoci del materiale con cui riflettere. Con garbo e attenzione.
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filippo catani
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giovedì 5 febbraio 2015
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giovani allo sbando
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Una volta al mese due fratelli si ritrovano con le rispettive mogli a cena fuori. Tra i fratelli e soprattutto tra le cognate non corre buon sangue mentre c'è un forte rapporto tra i due cugini. Proprio loro si renderanno protagonisti di un fatto gravissimo che sconvolgerà i già delicati equilibri familiari.
L'unico vero rammarico del film è che quando si stava arrivando al culmine il film finisce con un finale terribile ma a cui forse poteva ancora far seguito qualcosa se si fosse un filo accorciata la premessa iniziale. Detto questo il film di De Matteo riflette con forza sulla nostra attuale gioventù sempre più proiettata verso il mondo virtuale che su quello reale finendo così per perdere coscienza delle cose.
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Una volta al mese due fratelli si ritrovano con le rispettive mogli a cena fuori. Tra i fratelli e soprattutto tra le cognate non corre buon sangue mentre c'è un forte rapporto tra i due cugini. Proprio loro si renderanno protagonisti di un fatto gravissimo che sconvolgerà i già delicati equilibri familiari.
L'unico vero rammarico del film è che quando si stava arrivando al culmine il film finisce con un finale terribile ma a cui forse poteva ancora far seguito qualcosa se si fosse un filo accorciata la premessa iniziale. Detto questo il film di De Matteo riflette con forza sulla nostra attuale gioventù sempre più proiettata verso il mondo virtuale che su quello reale finendo così per perdere coscienza delle cose. In questo caso il ragazzo timido e impacciato ma pieno di rabbia e violenza repressa viene guidato dalla cugina manipolatrice e scaltra. Tutto questo è il riflesso delle due famiglie di provenienza. La ragazza ha perso da giovane la madre e il padre è un avvocato di successo (con tanto di SUV e mega appartamento) che la accontenta in tutto. D'altra parte il fratello è uno stimato medico chirurgo pediatrico fermo nei suoi pensieri ma assente dalla vita di casa dove resta solo la moglie che è (troppo) protettiva nei confronti di un figlio che vede annaspare. Quest'ultima coppia è interpretata benissimo da Lo Cascio-Mezzogiorno mentre la prima è interpretata da un Gassman un po' spaesato e una Bobulova non troppo convincente. Il film, specialmente nei suoi esiti finali, rimane uno spaccato drammatico non solo dei rapporti umani di oggi ma anche della complessità dei rapporti e dei sentimenti che si celano all'interno di una famiglia.
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anty_capp
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venerdì 6 febbraio 2015
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due schiaffi ben dati.
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Dal titolo allo schiaffone iniziale il passo è intenso e breve e si avverte subito che occorre prestare attenzione all'ottimo De Matteo che dopo gli equilibristi affronta ancora problemi attualissimi che ciascuno di noi può trovarsi di fronte. La domanda è sempre la stessa, che pervade tutta la visione del film. "Che farei al suo posto?". Non c'è tempo per la propria risposta: risponde Lo Cascio, poi risponde Gassman, poi risponde la Bobulova, poi risponde, la Mezzogiorno in una girandola di accordi e disaccordi che non lasciano scampo. L'epilogo come il prologo è l'altro schiaffone che lascia assorti nel proprio io. Come per "Un giorno perfetto" di Ozpetek la definizione "pugno nello stomaco" potrebbe essere il più adatto, ma preferisco prendere invece due schiaffi che come per i bambini, fanno riflettere e insieme male.
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Dal titolo allo schiaffone iniziale il passo è intenso e breve e si avverte subito che occorre prestare attenzione all'ottimo De Matteo che dopo gli equilibristi affronta ancora problemi attualissimi che ciascuno di noi può trovarsi di fronte. La domanda è sempre la stessa, che pervade tutta la visione del film. "Che farei al suo posto?". Non c'è tempo per la propria risposta: risponde Lo Cascio, poi risponde Gassman, poi risponde la Bobulova, poi risponde, la Mezzogiorno in una girandola di accordi e disaccordi che non lasciano scampo. L'epilogo come il prologo è l'altro schiaffone che lascia assorti nel proprio io. Come per "Un giorno perfetto" di Ozpetek la definizione "pugno nello stomaco" potrebbe essere il più adatto, ma preferisco prendere invece due schiaffi che come per i bambini, fanno riflettere e insieme male. Da vedere per imparare se stessi.
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stefano bruzzone
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giovedì 24 settembre 2015
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raffinato
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Un ottimo film del bravo De Matteo che dopo aver diretto un intenso Mastrandrea in "Gli Equilibristi" ci regala un piccolo ritratto di gente per bene borghese e laureata mettendoli alla prova alla prima vera difficoltà. L'epilogo sarà assolutamente geniale e imprevedibile mettendo in luce l'ipocrisia di chi in realtà ipocrita non era e viceversa. Finalmente un A.Gassman all'altezza del suo cognome supportato da un ottimo e intelligente cast. Bella la sceneggiatura originale, seppur semplice, ma mai banale e scontata nonostante il film non regali realmente colpi di scena o sussulti.
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Un ottimo film del bravo De Matteo che dopo aver diretto un intenso Mastrandrea in "Gli Equilibristi" ci regala un piccolo ritratto di gente per bene borghese e laureata mettendoli alla prova alla prima vera difficoltà. L'epilogo sarà assolutamente geniale e imprevedibile mettendo in luce l'ipocrisia di chi in realtà ipocrita non era e viceversa. Finalmente un A.Gassman all'altezza del suo cognome supportato da un ottimo e intelligente cast. Bella la sceneggiatura originale, seppur semplice, ma mai banale e scontata nonostante il film non regali realmente colpi di scena o sussulti. Una sorta di pièce teatrale elegante e raffinata. Dopo "Il capitale umano" di Virzi ecco un'altra chicca a testimoniare che il cinema italiano non è solo fatto di cinepanettoni o volgarate romanesche.
Voto: 8
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arnaco
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sabato 7 febbraio 2015
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chi l'ha visto?
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Si dice che il film sia liberamente ispirato al libro La Cena, di Herman Koch; io direi che il film fa scempio del romanzo, ma questo non è di per se importante - si sono visti ottimi film assolutamente infedeli al romanzo d'ispirazione. Non è questo il caso. Il film si snoda in modo piattamente noioso e la monotonia non viene lenita da un montaggio artificiosamente spezzettato, quasi nevrotico. La fotografia è monodimensionale e inespressiva, da telegiornale o Chi l'ha Visto o altre trasmissioni di voyerismo televisivo. Gli attori, pur apprezzati in altri film, qui recitano in modo mediocre e piatto, un po' meglio la Bobulova. La colonna sonora è fastidiosa e il sonoro è pessimo.
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Si dice che il film sia liberamente ispirato al libro La Cena, di Herman Koch; io direi che il film fa scempio del romanzo, ma questo non è di per se importante - si sono visti ottimi film assolutamente infedeli al romanzo d'ispirazione. Non è questo il caso. Il film si snoda in modo piattamente noioso e la monotonia non viene lenita da un montaggio artificiosamente spezzettato, quasi nevrotico. La fotografia è monodimensionale e inespressiva, da telegiornale o Chi l'ha Visto o altre trasmissioni di voyerismo televisivo. Gli attori, pur apprezzati in altri film, qui recitano in modo mediocre e piatto, un po' meglio la Bobulova. La colonna sonora è fastidiosa e il sonoro è pessimo.
Dice: "Lo spettatore viene posto in una condizione di estraneità al fatto che gli viene consentito di giudicare nella sua dinamica, assegnando torti e ragioni". Ma dove siamo? A Un Giorno in Pretura? O in uno dei troppi dibattiti televisivi, demenziali. Un buon film, in quanto espressione artistica, deve fare proprio il contrario: coinvolgere lo spettatore, farlo partecipare, fargli provare emozioni, di qualsiasi segno, amore, odio, sogni, speranze, illusioni, delusioni, stupore, ansia, gioia, malinconia, piacere intellettuale, ecc. Non deve limitarsi a mostrare una squallida realtà che sappiamo benissimo essere così o ancora peggio.
Ma per passare dalle chiacchiere alla pratica, consiglierei a tutti di vedere Poetry di Lee Chang-dong che da un tema simile a questo trae un film degno di essere visto.
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