jackperugia
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martedì 3 gennaio 2012
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il seme del male
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Il seme del Male. Potrebbe essere un titolo alternativo. Un bellissimo film. Difficile e dunque non certo per tutti. Una calligrafia in bianco-e-nero che ricorda tanto i film di Bergman, con interni scuri e claustrofobici ed esterni di un invernale bianco abbacinante tra coltri di neve e campi di grano estivi. Si narrano i fatti avvenuti nella giovinezza di un narratore, spettatore degli eventi nell’anno che precede l’inizio della Grande Guerra in un piccolo villaggio tedesco, ove avvengono strani episodi di violenza, sopraffazione e di morte. Non vi e’ spiegazione apparente, ma sullo sfondo di tutti gli episodi sono presenti in maniera inquietante i bambini del villaggio.
Un film duro da metabolizzare che racconta di bambini-mostri, biondi,ariani,spietati coi piu' deboli e con i diversi; educati alla crudelta'dai leaders malati della loro comunita'(il medico,il barone,il pastore,il sovraintendente) e destinati a diventare i futuri aguzzini del nazismo.
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Il seme del Male. Potrebbe essere un titolo alternativo. Un bellissimo film. Difficile e dunque non certo per tutti. Una calligrafia in bianco-e-nero che ricorda tanto i film di Bergman, con interni scuri e claustrofobici ed esterni di un invernale bianco abbacinante tra coltri di neve e campi di grano estivi. Si narrano i fatti avvenuti nella giovinezza di un narratore, spettatore degli eventi nell’anno che precede l’inizio della Grande Guerra in un piccolo villaggio tedesco, ove avvengono strani episodi di violenza, sopraffazione e di morte. Non vi e’ spiegazione apparente, ma sullo sfondo di tutti gli episodi sono presenti in maniera inquietante i bambini del villaggio.
Un film duro da metabolizzare che racconta di bambini-mostri, biondi,ariani,spietati coi piu' deboli e con i diversi; educati alla crudelta'dai leaders malati della loro comunita'(il medico,il barone,il pastore,il sovraintendente) e destinati a diventare i futuri aguzzini del nazismo. Una comunita’ malata, apparentemente piena di buona volonta’, di fanatica adesione a severi principi moralistici ed educativi; in realta’ un mondo freddo e spietato che ha appena gettato il seme del Male e che andra’ presto a creare una generazione di mostri nel giro di pochi decenni.
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jacopo b98
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giovedì 1 agosto 2013
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un capolavoro indimenticabile! sublime!
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In un villaggio protestante della Germania del Nord, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, si verificano degli strani e violenti fatti: il dottore del villaggio (Bock) viene fatto cadere da cavallo, un bambino down viene massacrato di botte e quasi accecato, il figlio del barone locale (Tukur) frustato e legato nudo in un fienile, un edificio viene incendiato, ecc. ecc. Il maestro del villaggio (Friedel) indaga e arriva ad una sconvolgente verità che nessuno riesce ad accettare, ma il dubbio di fondo rimane. È, insieme al successivo Amour (2012), il miglior film di Haneke. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2009 ha vinto la Palma d’Oro al miglior film, oltre a tre European Film Awards (miglior film, regia e sceneggiatura [del regista con Jean Claude-Carrière]), un Golden Globe al miglior film straniero e numerosissimi altri riconoscimenti internazionali (tra cui due nomination agli Oscar, miglior film straniero [lo vinse poi Il segreto dei suoi occhi] e fotografia).
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In un villaggio protestante della Germania del Nord, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, si verificano degli strani e violenti fatti: il dottore del villaggio (Bock) viene fatto cadere da cavallo, un bambino down viene massacrato di botte e quasi accecato, il figlio del barone locale (Tukur) frustato e legato nudo in un fienile, un edificio viene incendiato, ecc. ecc. Il maestro del villaggio (Friedel) indaga e arriva ad una sconvolgente verità che nessuno riesce ad accettare, ma il dubbio di fondo rimane. È, insieme al successivo Amour (2012), il miglior film di Haneke. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2009 ha vinto la Palma d’Oro al miglior film, oltre a tre European Film Awards (miglior film, regia e sceneggiatura [del regista con Jean Claude-Carrière]), un Golden Globe al miglior film straniero e numerosissimi altri riconoscimenti internazionali (tra cui due nomination agli Oscar, miglior film straniero [lo vinse poi Il segreto dei suoi occhi] e fotografia). È il culmine del pessimismo del regista che racconta il dramma di un villaggio messo di fronte ad una verità che tutti conoscono ma che non vogliono accettare, come dimostra la scena del colloquio tra il maestro e il pastore locale (Klaussner). Girato in uno splendido bianco e nero (prevalgono le tonalità del primo colore), è uno di quei film pesanti (come argomento), per drammaticità, lunghezza, ritmo narrativo e ambientazione, ma è allo stesso tempo una di quelle opere che non annoiano mai, lo spettatore non se ne perde una scena, un’inquadratura, uno sguardo degli attori, tutti splendidi interpreti praticamente sconosciuti. Il suggerimento sulle origini del nazismo è lasciato più ad intendersi, che non esplicitato. Imperdibile, è uno dei film più belli degli ultimi anni.
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homer52
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venerdì 22 novembre 2013
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un nastro per avvolgere il cuore
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Pagine di poesia in bianco e nero sui grandi temi dell'esistenza, sull'interiorità dell'uomo spogliato di ogni maschera.Un invito allo spettatore,ad andare al di là delle letture superficiali della realtà e a soffermarsi piuttosto sui suoi significati profondi e sulle motivazioni che la sottendono. Una salutare ventata d'ossigeno contro la sterile e puerile civiltà dei telefonini e dell'apparire.La trama,a sfondo giallo,del film finisce col perdere di significato rispetto alla potenza dell'immagine e delle parole che piombano, come macigni,nella profondità dell'animo evidenziando,in modo inequivocabilmente crudo,la durezza dei rapporti e la tragicità del momento storico descritto.
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Pagine di poesia in bianco e nero sui grandi temi dell'esistenza, sull'interiorità dell'uomo spogliato di ogni maschera.Un invito allo spettatore,ad andare al di là delle letture superficiali della realtà e a soffermarsi piuttosto sui suoi significati profondi e sulle motivazioni che la sottendono. Una salutare ventata d'ossigeno contro la sterile e puerile civiltà dei telefonini e dell'apparire.La trama,a sfondo giallo,del film finisce col perdere di significato rispetto alla potenza dell'immagine e delle parole che piombano, come macigni,nella profondità dell'animo evidenziando,in modo inequivocabilmente crudo,la durezza dei rapporti e la tragicità del momento storico descritto.Un esempio magistrale di film coinvolgente ove anche lo spettatore è interprete attivo del copione.
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theophilus
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martedì 26 novembre 2013
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la luce illumina, ma può abbagliare.
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DAS WEISSE BAND
Alla fine della visione di Das Weisse Band, siamo stati colti da una particolare forma di sorpresa. Il film si tronca bruscamente alle parole della voce narrante che dichiara di non avere mai più visto nessuno degli abitanti del paese di cui ha narrato le vicende accadute nel 1913.
Apparentemente Haneke sembra aver tradito la sua poetica che, come egli stesso ha affermato in altre circostanze, si attua in storie da lui raccontate senza l’ambizione di trasmettere messaggi.
Una dichiarazione che non nasce da falsa modestia, ma, riteniamo, dalla consapevolezza del cineasta del rischio sempre presente di cadere nella retorica dei moralismi.
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DAS WEISSE BAND
Alla fine della visione di Das Weisse Band, siamo stati colti da una particolare forma di sorpresa. Il film si tronca bruscamente alle parole della voce narrante che dichiara di non avere mai più visto nessuno degli abitanti del paese di cui ha narrato le vicende accadute nel 1913.
Apparentemente Haneke sembra aver tradito la sua poetica che, come egli stesso ha affermato in altre circostanze, si attua in storie da lui raccontate senza l’ambizione di trasmettere messaggi.
Una dichiarazione che non nasce da falsa modestia, ma, riteniamo, dalla consapevolezza del cineasta del rischio sempre presente di cadere nella retorica dei moralismi.
Prendiamo a paragone uno dei film più riusciti di Haneke, Caché. Là, il male si nascondeva nelle pieghe di un sadismo forse autoreferenziale che il regista trasferiva sul pubblico allibito. Qui – Il nastro bianco, nelle sale italiane - è meno cosmico e più connesso alla cultura dell’uomo; dalla morbosità religiosa sfocia nella Storia con un percorso interpretativo che può lasciare perplessi, se si tiene conto della concezione poco sopra accennata.
C’è un'invisibile corda tesa fra due alberi che và a terminare dentro la Grande Guerra. Fra questi due estremi sentiamo il racconto di vicende fatto da un esegeta che, se non fosse il parto di un grande regista, potrebbe apparentarsi ad un grillo parlante che predichi col senno di poi.
Sennonché, questo male viene da lontano. Tale distanza, anziché renderlo evidente, ne ha consolidato il potere, ha addormentato le anime, accecato gli spiriti, corrotto le menti e guidato il destino dei più indifesi.
La perfida maestria di Haneke si realizza con un paradosso che, anche in questo caso, spiazza lo spettatore. Le parti del film e la sceneggiatura sono concatenate fra loro in un modo così chiaro da non far nascere punti interrogativi in chi guarda e ascolta. Tutto è legato con una consequenzialità disarmante, le parole sono scandite con una tale precisione da non lasciare al pubblico alcuna possibile via di fuga, alibi o scappatoia per evitare di trarre conclusioni. Ogni frase è una conferma di quanto si è già colto dalle immagini e, a sua volta, s’innesterà con naturalezza in altre scene. Infine, registriamo la limpidità del bianco e nero della pellicola, esaltata dalla luce della neve e dalla pulizia, dalla precisione con cui Haneke filma persone e oggetti negli interni. Di conseguenza, il pesante sentimento di mistero che non abbandona mai il film diventa una formidabile arma, un contrappasso stridente e quasi inspiegabile che intimorisce. Finiamo allora coll’immetterci nel flusso del racconto senza accorgercene e colleghiamo il disagio di quel sentire alla minaccia della Storia che, così come si è già srotolata imperturbabile nella cecità generale, allo stesso modo è sempre in agguato per l’uomo. Ecco dove sta, a nostro avviso, l’importanza e la moralità del film. Non tanto in una critica storica degli anni che portarono all’avvento del nazismo, quanto nella atterrita e forse rassegnata constatazione dell’ottusità umana di fronte a dati in apparenza lampanti.
La genuina originalità di Haneke è dunque preservata anche in questa circostanza. Se proprio vogliamo andare alla ricerca di possibili fonti, oltre a ritrovare Bergman, soprattutto nella rigida figura del pastore protestante, risaliamo anche alle gelide visioni pittoriche di un Münch o alla caustica penna del miglior Thomas Bernhard.
Enzo Vignoli
4 novembre 2009.
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carlo vecchiarelli
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domenica 6 aprile 2014
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la meglio gioventù teutonica
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La concezione filosofica di Michael Haneke ha sempre portato su strade incomprese ai più e spesso mistificate, indagando in maniera psicologica le origini e le cause del male inteso in maniera assoluta. La risposta, lo conferma “Il nastro bianco”, è da ricercare nelle origini della vita di ogni persona, nella sua educazione, crescita e formazione. Lo dimostrano molti suoi film, a partire da “Cachè”, e se le analogie ( anche stilistiche ) con il cinema di Bergman sono evidenti, la differenza sta proprio nel fatto che mentre il regista svedese affronta il male di vivere dell’uomo maturo, Haneke rivolge le sue riflessioni sulla pubertà.
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La concezione filosofica di Michael Haneke ha sempre portato su strade incomprese ai più e spesso mistificate, indagando in maniera psicologica le origini e le cause del male inteso in maniera assoluta. La risposta, lo conferma “Il nastro bianco”, è da ricercare nelle origini della vita di ogni persona, nella sua educazione, crescita e formazione. Lo dimostrano molti suoi film, a partire da “Cachè”, e se le analogie ( anche stilistiche ) con il cinema di Bergman sono evidenti, la differenza sta proprio nel fatto che mentre il regista svedese affronta il male di vivere dell’uomo maturo, Haneke rivolge le sue riflessioni sulla pubertà. Paradossalmente, con il suo film meno appariscente e spettacolare, il regista austriaco ( che ha firmato anche soggetto e sceneggiatura ) riesce a raccogliere il consenso della critica che ne ha compreso la straordinaria portata: vincitore della Palma D'Oro, dell' EFA come miglior film europeo e del Golden Globe come miglior film straniero.
Il nastro bianco è un un’opera destinata ad impiantarsi nelle coscienze, affrontando con occhio analitico un clima ed un periodo culturale che farà da apripista ad uno dei periodi più neri della storia dell’umanità. Haneke tratteggia appena, in un gelido silenzio e un bianco e nero “dreyeriano”, la vita di una Germania bucolica in prossimità della prima guerra mondiale: un villaggio ancorato a vecchie tradizioni religiose e sociali, in cui domina un rigido protestantesimo, che traccia la linea per una educazione di massa ipocrita e dissimulatrice. Le relazioni tra le persone sono succubi della violenza delle convenzioni, e la crescente spersonalizzazione colpirà in maniera più grave la prole di questo microcosmo algido e apatico. I bambini diventeranno protagonisti di alcuni incidenti misteriosi, forse mossi da un senso di ribellione alle rigide regole imposte: il medico cade da cavallo a causa di un filo metallico teso sul terreno, una contadina muore in una segheria, il figlio handicappato della levatrice viene sfigurato, e persino il figlio del barone è soggetto a violenza, quasi a sfida del potere autoritario. A cercare di fare chiarezza su questi fatti apparentemente inspiegabili, c’è la voce narrante del maestro del villaggio, che a distanza di anni racconta il difficile periodo prebellico. Egli comprende il coinvolgimento almeno parziale dei fanciulli, ma la comunità non accetterà neppure di rispondere alle sue domande, barricandosi dietro un silenzio complice. Primo tra tutti il pastore protestante – in analogia a quello di “Fanny e Alexander” - che impone il nastro bianco al braccio dei figli, un monito alla purezza per acquisire la maturità, ma poi di fronte al sospetto sui propri figli svela una gelida maschera di ipocrisia.
Haneke impone la violenza come rumore di sottofondo, non mostrandola, lasciando che siano le parole a ferire la normalità, con dialoghi crudi e privi di ogni umanità, in un mondo che costringe il maestro ad abbandonare il proprio ruolo di educatore, pur di non aderire ad una prigione di stereotipi. I riflessi di meccanismi di educazione tipici delle religioni, delle ideologie, dei totalitarismi vengono proiettati in un piccolo feudo, creando cuori impassibili, ottusi, dove il decoro vale più dell’amore, della comprensione e della verità, dove ai bambini non resta altro che uccidere un uccello in gabbia per far sentire l’ultimo grido di una innocenza ormai perduta, che li porterà sul baratro di un futuro che nasconde le ombre del nazismo, quando quei nastri bianchi verranno ad assurgere a simbolo di morte, sempre in nome della purezza.
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(di misesjunior)
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carloalberto
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mercoledì 29 aprile 2020
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la vita come racconto
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Il nastro bianco narra la storia di strani fatti accaduti in un piccolo centro rurale tedesco, poco prima dell’inizio della Grande Guerra, attraverso il racconto del giovane maestro del villaggio. E’ una riflessione sulla vita come racconto e sul cinema come racconto della vita così intesa, paradigmaticamente rappresentato da Il racconto dei racconti di Garrone che narra Lo cunto de li cunti di Basile. Il contenuto, stimolando le interpretazioni più diverse, distrae dall’essenza dei fatti, che, intrecciandosi come i fili della trama e dell’ordito, esistono, al pari di qualsiasi altro fatto narrato, soltanto per la reciproca relazione in funzione della validità del discorso.
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Il nastro bianco narra la storia di strani fatti accaduti in un piccolo centro rurale tedesco, poco prima dell’inizio della Grande Guerra, attraverso il racconto del giovane maestro del villaggio. E’ una riflessione sulla vita come racconto e sul cinema come racconto della vita così intesa, paradigmaticamente rappresentato da Il racconto dei racconti di Garrone che narra Lo cunto de li cunti di Basile. Il contenuto, stimolando le interpretazioni più diverse, distrae dall’essenza dei fatti, che, intrecciandosi come i fili della trama e dell’ordito, esistono, al pari di qualsiasi altro fatto narrato, soltanto per la reciproca relazione in funzione della validità del discorso. Tutto nel film è traduzione in immagini di ricordi di fatti, narrati dal maestro perché vissuti di persona o appresi da confidenze e da chiacchiere di compaesani. La storia, nelle parti in cui non è vissuta o appresa, è completata con particolari intimi della vita che si svolge nelle case del barone, del dottore, del contadino, apparentemente aggiunti dal regista e che sono, invece, originati dalla fantasia del maestro. Un indizio dell’unicità di prospettiva è costituito dalla assenza di altri punti di vista. I personaggi sono descritti, pur nella ricchezza e nella complessità dei sentimenti e delle passioni mostrate, sempre dall’esterno, per ciò che fanno e che dicono, ovvero per ciò che potrebbero aver detto o fatto nella ricostruzione fantasticata del maestro e secondo le sue aspettative e la sua sensibilità. Il racconto termina incompiuto, troncato dal sopraggiungere di un altro racconto, che si preannuncia all’orizzonte ben più potente, la prima guerra mondiale e lo spettatore è come sollecitato a completarlo, ma per farlo dovrà ricostruirne uno suo, avendo a disposizione, tuttavia, esclusivamente le informazioni che gli sono state fornite col racconto. Quali particolari aggiungerà e quali interpretazioni darà delle vicende, che sono a lui pervenute già mediate due volte, per dare un senso al film? Haneke dà l’illusione di poterci appropriare della storia, così che ognuno possa pensare che le cose siano andate così e così e che i colpevoli non potevano che essere…come se completare il film potesse dare un senso allo stesso e magicamente per analogia al racconto della propria vita. A seconda dei punti di vista, Haneke offre a chi guarda un possibile approccio all’arte del racconto o invece tende un’ennesima trappola per integrare lo spettatore nella tela dello stesso, attraendolo con la lusinga di poter svelare i suoi misteri, che non sono altro che le informazioni mancanti e che sempre mancheranno ad ogni racconto della vita perché abbia senso. Il racconto della prima guerra mondiale travolgerà come un’onda tsunamica, con il suo non-senso, gli innumerevoli piccoli racconti privi di senso di migliaia di paesi, di villaggi, di famiglie in Germania e in tutta Europa. Nel finale c’è l’inizio. La chiesa si riempie di fedeli, tutti i paesani siedono sui banchi, tutti i protagonisti del racconto, tutti in attesa che un uomo prenda la parola per dare inizio ad una nuova fascinazione collettiva, al rito magico della narrazione, che ancora una volta illudendo catturerà l’attenzione con una promessa di senso che non ci sarà, come non ci sarà per gli spettatori che nella sala buia aspettano che inizi Il nastro bianco.
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carloalberto
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mercoledì 29 aprile 2020
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la vita come racconto
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Il nastro bianco narra la storia di strani fatti accaduti in un piccolo centro rurale tedesco, poco prima dell’inizio della Grande Guerra, attraverso il racconto del giovane maestro del villaggio. E’ una riflessione sulla vita come racconto e sul cinema come racconto della vita così intesa, paradigmaticamente rappresentato da Il racconto dei racconti di Garrone che narra Lo cunto de li cunti di Basile. Il contenuto, stimolando le interpretazioni più diverse, distrae dall’essenza dei fatti, che, intrecciandosi come i fili della trama e dell’ordito, esistono soltanto per la reciproca relazione in funzione della validità del discorso.
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Il nastro bianco narra la storia di strani fatti accaduti in un piccolo centro rurale tedesco, poco prima dell’inizio della Grande Guerra, attraverso il racconto del giovane maestro del villaggio. E’ una riflessione sulla vita come racconto e sul cinema come racconto della vita così intesa, paradigmaticamente rappresentato da Il racconto dei racconti di Garrone che narra Lo cunto de li cunti di Basile. Il contenuto, stimolando le interpretazioni più diverse, distrae dall’essenza dei fatti, che, intrecciandosi come i fili della trama e dell’ordito, esistono soltanto per la reciproca relazione in funzione della validità del discorso. Tutto nel film è traduzione in immagini di ricordi di fatti, narrati dal maestro perché vissuti di persona o appresi da confidenze e da chiacchiere di compaesani. La storia, nelle parti in cui non è vissuta o appresa, è completata con particolari intimi della vita che si svolge nelle case del barone, del dottore, del contadino, apparentemente aggiunti dal regista e che sono, invece, originati dalla fantasia del maestro. Un indizio dell’unicità di prospettiva è costituito dalla assenza di altri punti di vista. I personaggi sono descritti, pur nella ricchezza e nella complessità dei sentimenti e delle passioni mostrate, sempre dall’esterno, per ciò che fanno e che dicono, ovvero per ciò che potrebbero aver detto o fatto nella ricostruzione fantasticata del maestro e secondo le sue aspettative e la sua sensibilità. Il racconto termina incompiuto, troncato dal sopraggiungere di un altro racconto, che si preannuncia all’orizzonte ben più potente, la prima guerra mondiale e lo spettatore è come sollecitato a completarlo, ma per farlo dovrà ricostruirne uno suo, avendo a disposizione, tuttavia, esclusivamente le informazioni che gli sono state fornite col racconto. Quali particolari aggiungerà e quali interpretazioni darà delle vicende, che sono a lui pervenute già mediate due volte, per dare un senso al film? Haneke dà l’illusione di poterci appropriare della storia, così che ognuno possa pensare che le cose siano andate così e così e che i colpevoli non potevano che essere…come se completare il film potesse dare un senso allo stesso e magicamente per analogia al racconto della propria vita. A seconda dei punti di vista, Haneke offre a chi guarda un possibile approccio all’arte del racconto o invece tende un’ennesima trappola per integrare lo spettatore nella tela dello stesso, attraendolo con la lusinga di poter svelare i suoi misteri, che non sono altro che le informazioni mancanti e che sempre mancheranno ad ogni racconto della vita perché abbia senso. Il racconto della prima guerra mondiale travolgerà come un’onda tsunamica, con il suo non-senso, gli innumerevoli piccoli racconti privi di senso di migliaia di paesi, di villaggi, di famiglie in Germania e in tutta Europa. Nel finale c’è l’inizio. La chiesa si riempie di fedeli, tutti i paesani siedono sui banchi, tutti i protagonisti del racconto, tutti in attesa che un uomo prenda la parola per dare inizio ad una nuova fascinazione collettiva, al rito magico della narrazione, che ancora una volta illudendo catturerà l’attenzione con una promessa di senso che non ci sarà, come non ci sarà per gli spettatori che nella sala buia aspettano che inizi Il nastro bianco.
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geppi
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giovedì 12 novembre 2020
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film spendidamente diretto, fotografato e recitato
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Visto per la prima volta su una piattaforma di streaming, il film lascia affascinati e terrorizzati al tempo stesso. Il senso del male e della colpa che pervade tutto il film contrasta con il candore del bianco che impressiona la pellicola per la maggior parte del tempo, intervallato da frammenti di buio quasi totale che troviamo in altre poche scene. Il regista racconta, non spiega, crea dubbi, non li risolve. Questa incompiutezza che rimane fino alla fine è il vincolo che lega lo spettatore alle vicende narrate dal primo minuto fino all'ultimo. Film splendidamente diretto, fotografato, recitato. Che però lascia un senso di smarrimento e di angoscia.
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matteo
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domenica 13 dicembre 2020
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tramonto dell''occidente
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Un piccolo villaggio alla vigilia della Grande Guerra nel nord della Germania come rappresentazione di una società in disfacimento dove la rigidità di una parvenza rispettabile nasconde la violenza brutale delle relazioni tra le persone. La famiglia patriarcale è l'embrione delle dissolutezze, della brutalità, del cinismo e dell'invidia che modella un microcosmo apparentemente immutabile ma che mostra le crepe nella quotidianità ripetitiva di un mondo antico sull'orlo dell'abisso. Troppo facile e secondo me fuorviante leggere questo film come preludio al nazismo, anche se in effetti sarà la generazione dei più giovani a essere inghiottita da quelle vicende.
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Un piccolo villaggio alla vigilia della Grande Guerra nel nord della Germania come rappresentazione di una società in disfacimento dove la rigidità di una parvenza rispettabile nasconde la violenza brutale delle relazioni tra le persone. La famiglia patriarcale è l'embrione delle dissolutezze, della brutalità, del cinismo e dell'invidia che modella un microcosmo apparentemente immutabile ma che mostra le crepe nella quotidianità ripetitiva di un mondo antico sull'orlo dell'abisso. Troppo facile e secondo me fuorviante leggere questo film come preludio al nazismo, anche se in effetti sarà la generazione dei più giovani a essere inghiottita da quelle vicende. Forse è più corretto cercare di interpretare il racconto come denuncia tra ciò che deve essere mostrato e ciò che deve essere nascosto ma che tutti sanno. La famiglia come nucleo ed epicentro dei drammi umani; non a caso l'unico personaggio che mostra qualche segno di umanità è il maestro che famiglia non ha. Resta volutamente sospeso il finale con alcune trame irrisolte perchè quel che conta non è tanto chi ha causato gli incidenti e i soprusi ma la genealogia di questi. Molto bella la fotografia e azzeccato il bianco e nero.
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carmine antonello villani
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martedì 24 novembre 2009
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le origini del male in un villaggio di dannati
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Germania 1913, i bambini di un villaggio sono educati con il massimo rigore e puniti per ogni mancanza. Torna il senso di colpa della pianista immortalata dalla Huppert, i genitori diventano responsabili della crescita deviata di figli cresciuti con il terrore della verga. Mortificazione ed incesto, Michael Haneke scrive la sceneggiatura di un dramma d’inizio secolo scorso pensando a “Fanny ed Alexander”: c’è fuoco sotto la cenere, perché la rigida educazione nasconde crimini e misfatti di dannati che hanno smarrito l’umanità inseguendo la purezza. Cupo, anzi cupissimo, “Il nastro bianco” sovverte la morale cattolica e mette in scena le origini del nazismo partendo da una comunità che fa della disciplina l’unico rimedio per la salvezza.
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Germania 1913, i bambini di un villaggio sono educati con il massimo rigore e puniti per ogni mancanza. Torna il senso di colpa della pianista immortalata dalla Huppert, i genitori diventano responsabili della crescita deviata di figli cresciuti con il terrore della verga. Mortificazione ed incesto, Michael Haneke scrive la sceneggiatura di un dramma d’inizio secolo scorso pensando a “Fanny ed Alexander”: c’è fuoco sotto la cenere, perché la rigida educazione nasconde crimini e misfatti di dannati che hanno smarrito l’umanità inseguendo la purezza. Cupo, anzi cupissimo, “Il nastro bianco” sovverte la morale cattolica e mette in scena le origini del nazismo partendo da una comunità che fa della disciplina l’unico rimedio per la salvezza. Vicende inquietanti che si consumano nell’indifferenza generale ma anche delitti irrisolti che sembrano ricollegarsi ad un’infanzia malata, per Haneke l’anticlericalismo è l’unico rimedio alla violenza perpetrata in nome della Bibbia. Con il bianco e nero, che è prima di tutto scelta stilistica, il regista tedesco lancia la sua crociata contro un’educazione repressiva –da incubo Burghart Klaußner nel ruolo del pastore protestante- che fa rabbrividire persino i seguaci della severità. Monito per le future generazioni: l’ordine a tutti i costi genera mostri, dietro lo sguardo del piccolo Martin è possibile scorgere la paura ma anche l’incoscienza di una generazione votata all’autodistruzione.
Carmine Antonello Villani
(Salerno)
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