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claudiofedele93
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domenica 16 agosto 2015
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la caduta degli eroi.
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Fa tremare i polsi, letteralmente, il sol pensiero che un uomo come Clint Eastwood, arrivato ad una certa età, e con un bagaglio culturale di un certo livello, allegato ad un’esperienza in campo cinematografico invidiabile e senza pari, possa aver realizzato una pellicola come questa, Flags of Our Fathers, primo atto di quello che sarà poi il dittico che prende a cuore la conquista dell'isola di Iwo Jima, seguito dal capolavoro Lettere da Iwo Jima, incentrato solo sul punto di vista del popolo giapponese, mentre, per questa occasione, il tutto sia analizzato solo attraverso la prospettiva delle forze americane.
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Fa tremare i polsi, letteralmente, il sol pensiero che un uomo come Clint Eastwood, arrivato ad una certa età, e con un bagaglio culturale di un certo livello, allegato ad un’esperienza in campo cinematografico invidiabile e senza pari, possa aver realizzato una pellicola come questa, Flags of Our Fathers, primo atto di quello che sarà poi il dittico che prende a cuore la conquista dell'isola di Iwo Jima, seguito dal capolavoro Lettere da Iwo Jima, incentrato solo sul punto di vista del popolo giapponese, mentre, per questa occasione, il tutto sia analizzato solo attraverso la prospettiva delle forze americane.
I due lungometraggi, pur trattando della stessa materia, prendendo in analisi un preciso momento della Seconda Guerra Mondiale, ma da angolazioni totalmente diverse, sono un testamento sincero e estremamente realistico portato a compimento e sigillato dalla mano di un uomo che ha saputo fare del Cinema non solo un'arte a sua immagine, ma un riflesso delle proprie idee, passioni, debolezze, speranze e ambizioni.
Se, come potrebbe essere logico aspettarsi, ci si poteva immaginare un lavoro intriso di una retorica made in U.S.A. di fondo, con tanto di bandiere a stelle e strisce su asta innalzate al cielo, canti di gioia e gloria, applausi scroscianti, ovazioni e celebrazioni incessabili, si rimane fortemente delusi da Flags of Ours Fathers, che partendo dal raccontare lo sbarco su Iwo Jima, dal punto di vista di una manciata di giovani soldati, finisce per distruggere molti degli aspetti del mito americano bellico e serve allo spettatore una attenta riflessione che può ben mimetizzarsi ed applicarsi a molti dei conflitti avvenuti in passato, ai giorni nostri e che potranno (purtroppo) nascere in futuro. Gli "Eroi" che il popolo, con annessa stampa, media, esercito, politici ed il resto della società, porta alla luce, idealizzati e concretizzati dalla foto scattata durante l'innalzamento della bandiera americana sul monte dell'isola nipponica, sono puramente un simbolo, un qualcosa attraverso il quale "vincere" una guerra, una forte dimostrazione di quanto il potere quasi non appartenga, così come i paladini della patria, al campo di battaglia, ma ai propositi di chi a sparare non ci è mai andato, a mosse e contromosse mediatiche capaci di mobilitare l’opinione pubblica e popolare.
Così Eastwood, allontanandosi dai canoni di Spielberg, che qui troviamo in veste di produttore, non punta la sua lente sull'enfatizzazione e sull'orrore dello sbarco sul suolo nemico, né è alla ricerca di quella pietà o emotività eccessiva, sebbene riesca a condensare un finale toccante, delicato e potente, visivamente, ma scava affondo nella memoria dell'essere americano per mettere a nudo la propria coscienza, facendo parlare proprio quella dei tre protagonisti sopravvissuti allo sbarco e considerati eroi, quasi delle celebrità simili alle nostre rockstar, a cui è destinato un tour e tutta una serie di siparietti per far riemergere i terribili momenti trionfanti che hanno portato a quel "grande" momento di gloria che ha visto l'asta alzarsi sull'altura del monte.
Eppure, chi è sopravvissuto ed è tornato a casa non riesce a dimenticare il passato, vivere nella bugia e nella menzogna, né l'orrore di cui è stato testimone, ma del quale si fa presto a non menzionare e dimenticare, così come il senso di colpa, magari legato solo al fatto di aver fatto ritorno dai propri cari, al contrario dei compagni caduti in battaglia. Chiude, il tutto, un’aspra fotografia di una società che passati i “tempi bui” lascia alle spalle anche i propri idoli, ridotti, in tempi di pace, a fare i coltivatori, i fattorini o i disoccupati. Un momento in cui Eastwood sembra dire quanto la guerra sia nociva non solo sul momento, ma anche negli anni avvenire e ci faccia rendere finalmente conto del concetto di "perdita della propria esistenza" non solo sul campo dello scontro, ma anche nel paese da cui proveniamo, nel quale, coloro per cui hanno combattuto, non riescono nemmeno più a identificarsi o trovare uno spazio in esso.
Una pellicola importante, cruda, dura, cinica e profonda, meno sublime, le va riconosciuto, di Lettere da Iwo Jima, ma solo perché, in quel caso, siamo messi davanti ad un capolavoro esemplare; resta, questo, però un lungometraggio mai sopra le righe o ruffiano, portata avanti con lo stile del poeta, con la maestria e la grazia dell'uomo che ha saputo cogliere uno dei tanti drammi della guerra, senza perdersi in superficialità o espressioni barocche. Se, alle generazioni di oggi, manca la consapevolezza e la conoscenza di determinati eventi e delle conseguenze che questi, nelle quotidianità delle persone, hanno portato, Eastwood fa appello a quella semplicità chiamata “vita” e “ricordo” per dimostrare attraverso il Cinema cosa ha significato la guerra per determinate persone, convincendoci a non vedere tutto come una serie di fatti e date, ma ad assistere inermi e quasi scoraggiati ad uno dei momenti più bui della civiltà moderna. Un attimo di silenzio, prima che le luci nella sala si accendano, per assaporare i titoli di coda di un film di cui è giusto se ne parli negli anni avvenire. Grazie Clint.
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greatsteven
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giovedì 22 giugno 2017
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affresco di ampio respiro sul bisogno degli eroi.
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FLAGS OF OUR FATHERS (USA, 2006) diretto da CLINT EASTWOOD. Interpretato da RYAN PHILIPPE, JESSE BRADFORD, ADAM BEACH, JOHN SLATTERY, BARRY PEPPER, JAMIE BELL, PAUL WALKER, ROBERT PATRICK, JUDITH IVEY, THOMAS MCCARTHY, BENJAMIN WALKER, HARVE PRESNELL, CHRIS BAUER, NEAL MCDONOUGH
Tema centrale della vicenda è una fotografia che viene scattata sul cocuzzolo della monte Suribachi, nel dicembre 1944, mentre la battaglia fra statunitensi e giapponesi è ancora in corso, e che ritrae cinque marines e un marinaio che inastano la bandiera americana. Tre di questi muoiono successivamente combattendo, mentre gli altri tre vengono riconosciuti con gran pompa magna come eroi nazionali e dunque, in tale veste, invitati a partecipare a congressi, riunioni ed eventi pubblici.
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FLAGS OF OUR FATHERS (USA, 2006) diretto da CLINT EASTWOOD. Interpretato da RYAN PHILIPPE, JESSE BRADFORD, ADAM BEACH, JOHN SLATTERY, BARRY PEPPER, JAMIE BELL, PAUL WALKER, ROBERT PATRICK, JUDITH IVEY, THOMAS MCCARTHY, BENJAMIN WALKER, HARVE PRESNELL, CHRIS BAUER, NEAL MCDONOUGH
Tema centrale della vicenda è una fotografia che viene scattata sul cocuzzolo della monte Suribachi, nel dicembre 1944, mentre la battaglia fra statunitensi e giapponesi è ancora in corso, e che ritrae cinque marines e un marinaio che inastano la bandiera americana. Tre di questi muoiono successivamente combattendo, mentre gli altri tre vengono riconosciuti con gran pompa magna come eroi nazionali e dunque, in tale veste, invitati a partecipare a congressi, riunioni ed eventi pubblici. Ma nessuno dei tre sopravvissuti si sente addosso doti di eroismo. Il medico infermiere John "Doc"Bradley, il nativo americano Ira Hayes e il soldato scelto Rene Gagnon sanno che la foto, opera del premio Pulitzer Joe Rosenthal, fu frutto solamente del quinto dei quaranta giorni di sanguinosa battaglia e, durante il massiccio tour negli States, rammentano al pubblico che li acclama che è necessario comprare i buoni per garantire un approvvigionamento di risorse al fine di concludere una guerra che, dal punto di vista economico, sta letteralmente divorando le finanze del Paese. James Bradley, scrittore e figlio di Doc, viene a sapere, intervistando gli altri reduci della battaglia di Iwo Jima, che molte cose apparentemente risapute sull’evento sono sbagliate e che dietro alla tanto sbandierata gloria militare (e militarista) si annidava una propaganda, di cui la foto costituì un potente mezzo di diffusione nazionalistica. Doc, Ira e Rene sono inoltre consapevoli che i soldati cui vengono attribuite le imprese tanto conclamate non corrispondono a quelli che effettivamente innalzarono la bandiera sul monte: i tre ricordano piangenti, soprattutto in occasione di un rendez-vous in cui ne incontrano le madri, gli uomini che più di tutti meritano una commemorazione accorata, ovvero il sergente Mike Strank e i marines Ralph "Iggy"Ignatowski e Henry "Hank"Hansen. Storia di un’amicizia virile sullo sfondo della più devastante guerra di tutti i tempi, ma anche un intenso manifesto che si mette perfino contro la raccolta di contributi popolari al fine di conseguire una facile vittoria contando su un infarcimento di giovani eroi, in quanto il suo antimilitarismo, oltre che chiaro, è anche determinato a destrutturare e demonizzare la macchina di propaganda americana che fagocita il terzetto protagonista. Facendone un simbolo dell’imminente vittoria sul nemico che, quasi fosse il film un western revisionista, non viene ferocemente attaccato (non in senso bellico, beninteso), ma giustificato dalla fretta dell’esercito invasore di porre fine ad una guerra che commise autentici salassi alle casse economiche dello Stato. Quel che conta di più, però, escluso il discorso di fondo a discredito del potere costituito e dei mass media spadroneggianti, è la morale: non si muore per diventare paladini nazionali fortemente enfatizzati, ma bensì per i propri amici. Doc, Rene e Ira sanno sacrificarsi per gli altri tre uccisi nel corso della battaglia, conoscono i propri limiti e soprattutto non dimenticheranno mai la loro prodezza sul campo. La preparazione, lo spirito di corpo, il senso del dovere e la prontezza di riflessi sono doti che non mancano al plotone dei marines che assedia il monte Suribachi, già filmato in un ottimo capolavoro del 1949 (Iwo Jima, deserto di fuoco), con protagonista John Wayne, di cui Flags of Our Fathers riprende quantomeno la convinzione che a fare la guerra non sono gli eroi, ma gli uomini comuni, che non la fanno volentieri e la conducono semmai per un sanguigno sentimento di amicizia e cameratismo nei confronti dei loro simili, con cui appunto si assomigliano in tutto: famiglia, aspirazioni, ambizioni, opinioni, idee, comportamenti. Eastwood, insieme a Lettere da Iwo Jima, nel 2006 elaborò un dittico di questa battaglia tanto faticosa quanto deludente e, studiando il punto di vista americano, è riuscito a costruire un’efficiente polemica che fonde l’antibellicismo al bisogno viscerale umano di avere intorno compagni con cui condividere un ideale. Che non sia quello del sacrificio per una nomea intangibile, ma il desiderio di sopravvivere alla guerra per proseguire un rapporto amichevole al di fuori della caserma o della linea di fuoco. Il montaggio di Joel Cox, estremamente anfetaminico, fornisce un quadro d’insieme delle scene violente rendendole iperrealistiche nel loro dispiegamento di cannoni che sparano, mitragliatrici che falciano, granate che esplodono e coltelli che affondano nelle giacche nemiche. Sognanti e dotate di una funzionale meraviglia le musiche, composte dallo stesso Eastwood, fra cui domina il pezzo che dà il titolo alla pellicola. La fotografia al centro della trama è un documento storico che funge da leitmotiv, agganciandole una storicità completa e scoprendo la dimensione politica che consiste in un altro dei suoi numerosi punti di forza. Un’opera di ampio respiro, tratta dall’omonimo libro di James Bradley e Ron Powers, sceneggiato con abilità e savoir-faire da William Broyles e Paul Haggis. Grazie al soggetto dei primi e al copione dei secondi, i dialoghi sono un convincente insieme di pathos, ironia, umorismo caustico e tensione drammatica che si amalgama benissimo alla desolazione di fondo, la quale non dimentica però né nasconde un ottimismo finale che fa ben sperare per la generazione figlia di coloro che combatterono la Seconda Guerra Mondiale. Nella speranza che le bandiere vengano poste in luoghi estranei alla guerra, che ci si scordi degli eroi, personaggi inesistenti perché comodi all’immaginario collettivo, e che si pretenda dai giovani di farsi strada e rendersi meritevoli con un tipo tutto diverso di battaglie. Tipo la raccolta d’informazioni sulle brutalità passate che effettua James Bradley. Attori bravissimi, e vale la pena di tessere le lodi di R. Philippe, J. Bradford e A. Beach (nei titoli di coda vengono mostrati gli scatti che ritraggono i veri militari), trio protagonista con un gioco di squadra impeccabile, ma anche di P. Walker, J. Bell e B. Pepper, i commilitoni morti guerreggiando, e infine anche il Bud Gerber di J. Slattery, politico opportunista, arrogante e sfruttatore.
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julianne
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giovedì 29 agosto 2013
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storia di tre eroi profondamente umani
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Clint Eastwood dirige con grande abilità una pellicola straordinaria. La storia è quella di tre soldati americani, Ira Hayes, Renè Gagnon e John DOC Bradley - narrata dal figlio di quest ultimo - che vengono catapultati, loro malgrado, in un turbinio di gloria e propaganda, poiché immortalati nell'atto di issare la bandiera americana su un monte a Iwo Jima. La foto è un falso, la bandiera era in realtà stata sostituita, tre dei sei soldati raffigurati sono caduti dopo pochi giorni e nessuno dei sopravvissuti riesce ad apprezzare la gloria o la fama, avendo conosciuto la miseria e la disumanità in guerra. Dialoghi toccanti, riflessioni profonde, scene intense che descrivono appieno la crudeltà della guerra e l'ipocrisia delle classi dirigenti.
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Clint Eastwood dirige con grande abilità una pellicola straordinaria. La storia è quella di tre soldati americani, Ira Hayes, Renè Gagnon e John DOC Bradley - narrata dal figlio di quest ultimo - che vengono catapultati, loro malgrado, in un turbinio di gloria e propaganda, poiché immortalati nell'atto di issare la bandiera americana su un monte a Iwo Jima. La foto è un falso, la bandiera era in realtà stata sostituita, tre dei sei soldati raffigurati sono caduti dopo pochi giorni e nessuno dei sopravvissuti riesce ad apprezzare la gloria o la fama, avendo conosciuto la miseria e la disumanità in guerra. Dialoghi toccanti, riflessioni profonde, scene intense che descrivono appieno la crudeltà della guerra e l'ipocrisia delle classi dirigenti. I protagonisti non sono eroi, per loro stessa ammissione, ma semplici uomini che colgono il valore della vita, avendo sfiorato l'abisso della morte.
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sparky
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martedì 11 settembre 2007
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l'antitesi di salvate il soldato ryan
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Devo confessare che mi ha stupito leggere il nome di Spielberg quale co-produttore. Ritengo, infatti, che il film di Eastwood si ponga quasi in contrapposizione alla pellicola con Tom Hanks e mi lascia stupefatto la constatazione che molti critici "noti" vedano ancora analogie tra i due films (che non siano quelle meramente storiche). Personalmente, pur avendo apprezzato Spielberg sia dal punto di vista della accuratezza ricostruttiva che formale (Salvate il Soldato Ryan è girato in modo eccezionale, soprattutto nei primi venti minuti), ritengo la pellicola sullo sbarco in Normandia pregna di una retorica ingiustificata e insopportabilmente qualunquista, che cozza terribilmente con l'asciutta elegia di Flags of our Fathers.
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Devo confessare che mi ha stupito leggere il nome di Spielberg quale co-produttore. Ritengo, infatti, che il film di Eastwood si ponga quasi in contrapposizione alla pellicola con Tom Hanks e mi lascia stupefatto la constatazione che molti critici "noti" vedano ancora analogie tra i due films (che non siano quelle meramente storiche). Personalmente, pur avendo apprezzato Spielberg sia dal punto di vista della accuratezza ricostruttiva che formale (Salvate il Soldato Ryan è girato in modo eccezionale, soprattutto nei primi venti minuti), ritengo la pellicola sullo sbarco in Normandia pregna di una retorica ingiustificata e insopportabilmente qualunquista, che cozza terribilmente con l'asciutta elegia di Flags of our Fathers. Là si ha una fastidiosa elisione delle minoranze (è emblematica l'assenza assoluta di soldati di colore), enfasi bellica anacronistica (il soldato tedesco lasciato libero e poi ritrovato, alla fine della pellicola, quale avversario: ricorda banalmente i motti della prima Guerra mondiale su "l'unico soldato francese buono è il soldato morto"), un insostenibile sciovinismo nei confronti della popolazione civile francese (rea, secondo metafora, di "farsi solo gli affari propri", come indica il riferimento alla famiglia indigena noncurante del soldato americano caduto per salvare la figlia) e il riferimento agli "imboscati" - impersonificati dall'inerme e pacifico interprete - che, vigliacchi, nulla hanno fatto se non osservare gli eccidi senza intervenire. Eastwood nega e supera queste facili morali, "asciugando" la propria creazione di retorica ed enfasi ed annullando, nel contempo, proprio le tronfie idee affermate dalla pellicola di Spielberg: emblematica è proprio la conclusione dei due films, laddove una afferma la marzialità e il patriottismo (Spielberg, il cimitero, il reduce che chiede alla moglie se si è "meritato" il sacrificio degli altri) e l'altra l'amicizia e il cameratismo (Eastwood, un bagno spensierato di ragazzi/commilitoni, il reduce che racconta al figlio di ricordarsi di un buon amico scomparso). Personalmente ritengo siano valori non solo differenti, ma per alcuni aspetti contrapposti. Eastwood sempre più grande, sempre più amaro e asciutto: ecco rispuntare il vecchio cowboy disilluso de Gli Spietati, impersonato da un nativo americano abbandonato a se stesso. Un'ultima, piacevole sorpresa: il regista è autore anche della bella musica, tanto esile, struggente e - per certi aspetti - "americana" da apparire perfettamente in sintonia con le immagini e il pathos trasmesso dalla trama. Eccellente pellicola.
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[+] la famiglia sarebbe stata uccisa altrimenti
(di sergente hartman)
[ - ] la famiglia sarebbe stata uccisa altrimenti
[+] mancano i soldati di colore
(di mappo)
[ - ] mancano i soldati di colore
[+] per mappo
(di sergente hartman)
[ - ] per mappo
[+] sull'interprete vigliacco
(di pavesino)
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