Roberto Nepoti
La Repubblica
Ci sono due differenze fondamentali tra Seven Swords, scelto da Marco Muller come apertura di questa edizione della Mostra, e i film-di-spada diretti da Zhang Yimou e Ang Lee. La prima è una questione di tecnica: là dove i suoi colleghi hanno imposto, fino a inflazionarle, le sequenze di duelli aerei a base di cavi d’acciaio, Tsuì Hark (che il vuxia, in pratica, lo ha inventato più di vent’anni fa) punta invece sul realismo dei combattimenti: un realismo ovviamente relativo, dove un solo eroe fa a fette molte decine di avversari, ma ottenuto senza ricorrere a troppi trucchi ed effetti speciali; più vicino, per intendersi, all’estetica degli immortali samurai di Akira Kurosawa.
La seconda differenza riguarda lo stile del racconto. Se Hero, La tigre e il dragone o La foresta dei pugnali volanti sono favole sofisticate ed estetizzanti, con sottofondo zen e il marchio d’autore ben stampato sopra, Seven Swords si muove piuttosto dalle parti del grande racconto popolare; più eclettico nei modelli narrativi (innesti massicci di western, assassine sadomaso vestite e truccate come rockstar, ammiccamenti ai fumetti), più “sporco” nella forma, che non disdegna gli espedienti retorici del rallenti o del flashback per dissezionare gli avvenimenti, o per tornare su quelli già visti e chiarirceli meglio.
La trama è piuttosto complicata; benché segua, poi, un certo numero di “stazioni” rituali del genere cavalleresco di tutti i tempi e di tutte le culture. Spalleggiato da una banda di ladroni dai nomi pittoreschi, il crudele Vento di Fuoco fa strage nei villaggi della Cina, accumulando taglie con avidità degna dello sceriffo di Nottingham. Di passaggio, violenta belle fanciulle e infierisce sui bimbi, Onde porre fine alle vergognose scorrerie, scendono in campo sette spadaccini (uno è di sesso femminile): di varia estrazione e storia personale, qualcuno perfino riluttante, ma tutti valorosissimi e pieni di senso dell’onore. Al reclutamento della squadra speciale seguono le varie fasi della riscossa, con epilogo pirotecnico e finale aperto verso altre imprese. in effetti il regista ammette che il romanzo di Liang Yusheng da cui ha adattato il suo film conteneva almeno sei filoni narrativi diversi. Ed è perciò che i tratti di ciascuno dei sette eroi sono appena abbozzati; al punto di rendere difficile, per almeno la metà dei 144 minuti complessivi, distinguerli l’uno dall’altro. Una carenza cui il regista-sceneggiatore ha già pensato di porre rimedio; anche grazie al grande successo ottenuto dal prototipo nelle sale d’oriente, Tsui Hark si prepara a mettere in cantiere altre cinque puntate con gli stessi protagonisti.
Il che non meraviglia affatto: pensato per un mercato globale, violentemente romantico, pieno di clamore e di furia, costellato di colpi di scena a ripetizione, coreografato magistralmente dal regista delle scene d’azione Lau Kar Leung, Seven Swords è un Guerre stellari del diciassettesimo secolo, un Signore degli anelli ambientato in Oriente anziché nella Terra dì Mezzo, ma altrettanto suscetti bile di, sviluppi e implicazioni inattese. Che la globalizzazione sia il nume tutelare di questo kolossal (e della futura saga) è indiscutibile: sia perle scelte produttive, che coinvolgono in un so! colpo Cina, Corea e Hong-Kong, sia per quelle degli attori, tutti belli e famosi nei loro Paesi d’origine, sia per la contaminazione di leggende e racconti popolari orientali e occidentali (la Spada-nella-roccia, la Spada-che-canta; la cavalleria medievale e la sua riedizione nell’Ovestamericano) . Commentando il suo fastoso e abbagliante Eastern, però, Tsui Hark ribalta con abilità l’argomento: proprio perché abitiamo un mondo globalizzato, perché ormai facciamo tutti la stessa vita, il pubblico si appassiona a film come questo. Dove sopravvivono le idee di giustizia e di amore. di onore e di eroismo che sonnecchiano ancora, malgrado tutto, nelle nostre anime omologate dal consumismo planetario. E che trovano, nei sette eroi, qualcuno ancora pronto a impugnare la spada per difenderle.
Da La Repubblica, 1 settembre 2005
di Roberto Nepoti, 1 settembre 2005