Dietro Collateral non c’è solo un ottimo thriller, questo potevamo anche aspettarcelo dal “vecchio” Micheal Mann, ma qualcosa di ben più gradito.
Quel “qualcosa” che nasce in sala e una volta uscito ti rimane lì, galleggia per un po’ tranquillo, nella tua testa, ti fa ri-pensare al film anche se tu vorresti solo riprendere regolarmente la tua vita, e con discrezione ti suggerisce che è stato lanciato velatamente (per i più distratti) o chiaramente (per chi conosce Mann) un messaggio importante. Una ciliegina sulla torta che va al di là della pur ottima architettura narrativa, ed è sostenuta sapientemente da quel connubio armonico tra musica e immagini costante e vivo per tutta la durata del film.
Questo messaggio è insito nel personaggio chiave del film, quel Vincent che ruba la scena al pur bravissimo Jamiee Fox. Non è infatti questione di recitazione e bravura degli attori (pochi negheranno,tuttavia, che Tom Cruise ci offre qui la miglior performance della sua carriera) ma proprio di consistenza dei personaggi!
Il grigio killer che siede sicuro nel sedile posteriore del taxi del nostro “buono” nasconde in sé una fredda e agghiacciante metafora dell’uomo moderno.
Ora, per arrivare a questa sentenza non sono completamente impazzito.
Pensate a che cosa la mano del regista tende a sottolineare prima di tutto e su tutto. Non è forse quella caotica e allo stesso tempo armoniosa Los Angeles abitata da 17 milioni di persone (il numero ce lo ricorda proprio Vincent)?
Noi iniziamo il nostro viaggio accanto al nostro rassicurante tassista che conosce tempi e luoghi dell’immensa metropoli meglio di chiunque altro. E che cavoli, noi siamo seduti comodamente nel taxi più ordinato di tutta Los Angeles!
Ma cosa succede? Un uomo distinto, in vestito grigio e camicia bianca, un uomo apparentemente qualunque ci chiede un passaggio. Il nostro tassista lo osserva e capisce che l’uomo non deve essere del posto. L’uomo brizzolato sembra sicuro di sé espone la sua insofferenza nei confronti della città ”ogni volta che vengo qui non vedo l’ora di andarmene…sembra tutto disconnesso” e aggiunge “17 milioni di abitanti, quinta potenza economica del mondo, eppure qui nessuno si conosce”. Racconta una strana e agghiacciante storiella di un cadavere in metropolitana. Parla senza esitazioni, limpido. Ora inizia a fare domande personali e il nostro buon tassista sembra non voler rispondere…anzi lo dice chiaramente e l’uomo in grigio lo rassicura: “Nessun problema, lei è uno che fa, invece che parlare, è grande”..
In questa sequenza, in questi 3 minuti, accompagnati da una rilassante musica di pianoforte, abbiamo già tutti gli elementi per delineare un personaggio, quello di Vincent, tanto complesso quanto affascinante.
Certo, abbiamo iniziato e continueremo la nostra notte accanto ad un individuo che sentiamo “buono”, un tassista nero che ha saldi principi, una madre in ospedale e grandi progetti per il futuro. Vicino a noi diremo.
Ci renderemo conto,invece, di quanto sia falsa questa rappresentazione.
Vincent è un “cattivo” che non sentiamo antipatico, uno che il suo lavoro lo sa fare; poco importa se è impiegato o killer tanto l’indifferenza di quella città disconnessa che lo inghiotte saprà pulire la sua coscienza.
E’ questa allora la polaroid dell’uomo moderno dell’america capitalista? Un uomo freddo e senza scrupoli nel suo impiego ma che sa essere riflessivo e profondo quando non lavora?
Uomo stordito in mezzo ad una massa di persone, milioni, che non si conoscono eppure siedono una accanto all’altra in una metropolitana, attraversano insieme la strada, si sfiorano mentre, di fretta, incrociano gli sguardi in un marciapiede affollato? Forse si e forse no.
Si sente fuori da questo caos e invece ne è parte integrante…
“Hey Max…un uomo sale sulla metropolitana qui a Los Angeles e muore. Pensi che se ne accorgerà qualcuno?”
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