il caimano
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domenica 25 maggio 2008
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un racconto difficile e straziante, ma bellissimo
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Liam è un sedicenne nato e cresciuto in una città scozzese, con una vita a dir poco complicata. L'amatissima madre è in carcere per reati di droga, il suo padre-padrone lo sfrutta come corriere della droga proprio per far arrivare alla madre le dosi che quest'ultima smercia in carcere, mentre il nonno è campione di cinismo e cattiveria. Le uniche isole sono la sorella Chantelle (Michelle Abercromby), che per vivere serenamente con un figlio di due anni a carico, Colum, ha abbandonato la famiglia e vive da sola, dignitosamente in una piccola casa dei sobborghi della città, e Flipper, altro sedicenne suo amico di infanzia. Liam capisce che fare soldi è più facile di quanto uno immagini, basta fare il duro ed essere assoldati nella banda di malavitosi che controlla il racket della droga in città.
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Liam è un sedicenne nato e cresciuto in una città scozzese, con una vita a dir poco complicata. L'amatissima madre è in carcere per reati di droga, il suo padre-padrone lo sfrutta come corriere della droga proprio per far arrivare alla madre le dosi che quest'ultima smercia in carcere, mentre il nonno è campione di cinismo e cattiveria. Le uniche isole sono la sorella Chantelle (Michelle Abercromby), che per vivere serenamente con un figlio di due anni a carico, Colum, ha abbandonato la famiglia e vive da sola, dignitosamente in una piccola casa dei sobborghi della città, e Flipper, altro sedicenne suo amico di infanzia. Liam capisce che fare soldi è più facile di quanto uno immagini, basta fare il duro ed essere assoldati nella banda di malavitosi che controlla il racket della droga in città. Liam in breve diventa un bullo, con tanti saldi in mano e con un radioso futuro davanti, nonostante le preoccupazioni della sorella, presso cui intanto ha deciso di vivere, che gli vuole realmente bene ma che lo mette in guardia dai guai cui potrebbe andare incontro. Il film è un altro tassello del percorso di Ken Loach nella radiografia delle regioni più profondamente disagiate del Regno Unito. È come se lo stesso Loach volesse dirci che non c'è solo Londra, ma ci sono posti dove la droga è all'ordine del giorno, dove i ragazzini rifiutano la scuola e si vendono al miglior malavitoso, dove la speranza per tanti è un posto in un call center, e dove la famiglia ormai è disintegrata. Non è pessimismo, ma volersi calare in una realtà ancora purtroppo drammaticamente vera (a quanto riportano le cronache) e sui cui tutti vorrebbero chiudere gli occhi. La sceneggiatura è sempre ricca e senza cedimenti, gli attori sono bravi e con dei visi giusti, il ritmo è giustamente veloce quando deve esserlo, e riflessivo quando serve.
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greatsteven
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giovedì 2 novembre 2017
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cronaca di un tenero rapporto madre-figlio.
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SWEET SIXTEEN (UK/GERM/SP, 2002) diretto da KEN LOACH. Interpretato da MARTIN COMPSTON, MICHELLE COULTER, ANNAMARIE FULTON, WILLIAM RUANE, GARY MCCORMACK, TOM MCKEEK
Liam vive nella città costiera di Greenock, una delle zone meno favorevoli della Scozia, in specie dopo il decennio severissimo che ha visto al governo Margaret Thatcher. Il ragazzo ha quindici anni e ne compirà sedici proprio il giorno che sua madre Jean, tossicodipendente, uscirà di prigione. Liam desidererebbe che finalmente le cose girassero per il verso giusto, per lui, sua madre e la sorella, dato che col padre e il nonno i rapporti sono tutt’altro che rosei, e dunque l’adolescente sogna una famiglia che non ha mai avuto.
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SWEET SIXTEEN (UK/GERM/SP, 2002) diretto da KEN LOACH. Interpretato da MARTIN COMPSTON, MICHELLE COULTER, ANNAMARIE FULTON, WILLIAM RUANE, GARY MCCORMACK, TOM MCKEEK
Liam vive nella città costiera di Greenock, una delle zone meno favorevoli della Scozia, in specie dopo il decennio severissimo che ha visto al governo Margaret Thatcher. Il ragazzo ha quindici anni e ne compirà sedici proprio il giorno che sua madre Jean, tossicodipendente, uscirà di prigione. Liam desidererebbe che finalmente le cose girassero per il verso giusto, per lui, sua madre e la sorella, dato che col padre e il nonno i rapporti sono tutt’altro che rosei, e dunque l’adolescente sogna una famiglia che non ha mai avuto. Ma prima di tutto urge raggranellare denaro, il che non è un’impresa facile, per un ragazzo che è sempre senza il becco d’un quattrino. Ecco qui che Liam, insieme all’inseparabile amico Flipper, progetta programmi insani che lo cacciano in un mare di guai, passando dal commercio ambulante di sigarette allo spaccio di eroina nel tentativo disperato, ma pur sempre imperterrito, di procurarsi una somma sufficiente per comprare a Jean una casa confortevole quando verrà scarcerata in corrispondenza del suo sedicesimo compleanno. Quarto film di Loach scritto da Paul Laverty e secondo con ambientazione scozzese dopo il fulminante e commovente My Name Is Joe (1998). La vicenda condiziona pesantemente i personaggi, e ha il torto di lasciare la dimensione sociopolitica sullo sfondo, la quale avrebbe invece meritato maggiore attenzione e un approfondimento più appropriato. Troppo spazio viene quindi donato al rapporto tragico ed edipico fra Liam e sua madre, amore incondizionato che gli fa trascurare l’amicizia col fedele Flipper e l’affetto della sorella Chantelle, la quale si preoccupa di frenare ogni suo singolo impulso autodistruttivo. Come documento sociologico, al contrario, è perfetto: descrizione precisa e puntigliosa di una microcriminalità appena sfiorata e di un quartiere abitativo in cui l’arte di arrangiarsi è l’unico sistema per sbarcare il lunario, raccontata con dovizia di preziosi particolari e senza la ricerca, che per altro avrebbe inficiato la sua verosimiglianza, di manicheismi, forzature o esagerazioni. La storia appare dunque fortemente realistica e trova la sua forza, la sua linfa vitale nella costituzione ellittica del racconto, nell’analisi psicologica e nel regista che dirige con la sua consueta maestria pacata gli interpreti, tutti attori non professionisti eccettuato McCormack, al quale è stato affidato il ruolo di Stan, il boy-friend di Jean. La carta vincente è in assoluto il suo protagonista, l’allora 17enne M. Compston: impulsivo, istintivo, curioso, imprudente, avventato e spregiudicato, è un abitante di un quartiere povero e degradato in piena regola, ma senza la cattiveria primigenia o il cinismo innato del criminale che fa questo lavoro per vocazione, perché Liam non è un individuo sadico o perverso: si comporta e ragiona sempre in funzione del raggiungimento di un obiettivo, anche a costo di infrangere le leggi e scavalcare i regolamenti di cui s’è sempre infischiato, e qui appare un’ultima, ma doverosa, nota dolente della trama: il papà e il nonno di Liam sono descritti come poco più che due uomini violenti e stupidi, capaci non di educare il figlio e il nipote, ma soltanto di sgridarlo aspramente per le sue bravate e per come lui reagisce con corbellature ai loro metodi draconici. L’edizione originale è parlata nel dialetto autoctono con sottotitoli in inglese. Se non altro, è l’ennesima rappresentazione che Loach fa della quotidiana guerra che ogni uomo, donna, vecchio, bambino o ragazzo conduce per salvarsi la vita e fare del bene a chi bene gli vuole senza distinzioni di sorta, combattendo ostacoli non insormontabili, ma comunque duri a cedere. Loachiano al 100%, comunque, coi suoi pochi difetti e i suoi numerosi pregi, e fra questi ultimi non va dimenticata l’attenzione che Loach pone alla mancanza di un finale positivo allo scopo di narrare una morale significativa: come già aveva fatto in precedenza con la vita dei muratori in Riff Raff (1991) e quella degli operai della ferrovia in Paul, Mick e gli altri (2001), Loach lancia un messaggio di speranza schivando con scaltra abilità il buonismo e preferendogli l’educazione dello spettatore, il che, oltre a non essere da tutti i registi (i bravi registi), offre anche al pubblico uno o più spunti per ragionare sulle questioni sociali tuttora irrisolte e i problemi atavici che attanagliano ancora numerose persone nel mondo. Ken parla sempre a cuore aperto del suo Regno Unito, ma il discorso è applicabile anche a tutti li altri paesi economicamente sviluppati che nascondono però zone oscure in cui povertà e miseria dilagano senza che nessuno si prenda la briga di porvi un sostanzioso e debito rimedio. Premio al Festival di Cannes per la sceneggiatura, come detto scritta da un P. Laverty in gran forma che sa creare dialoghi davvero scoppiettanti in certi momenti e capaci di commuovere e lasciare a bocca aperta per lo stupore in altri. In Gran Bretagna la pellicola è uscita col divieto ai minori di diciotto anni, cosa che ha scatenato dure polemiche, e giustamente: la violenza (poca) verbale e fisica che si nota nella proiezione non è mai fine a sé stessa come in uno spaghetti-western, ma finalizzata bensì a descrivere un contesto sociale malandato e scadente, o meglio, sulla via del degrado ambientale più deplorevole, col piglio lucido di uno che sa di cosa sta parlando, di un autore navigato ed esperto che conosce parola per parola il libro che espone a chi guarda la sua opera audiovisiva, evitando di dimenticare la tensione drammatica (anzi, aizzandola nei momenti propizi senza mai sbagliare un colpo) e infierendo una sciabolata all’indifferenza della società benestante nei confronti della vita di stenti e soldi ottenuti con immane fatica che conducono le persone condannate da un destino inclemente a campare così, ricorrendo giocoforza all’abbandono dell’onestà e al rischiare il tutto per tutto pur di non finire strangolati da un sistema che è poco meno che una legge della giungla, quasi come se il più forte mangiasse il più ebole. Sweet Sixteen, per quanto sia di un’abbondante spanna al di sotto di film come Il vento che accarezza l’erba (2006) o il fantastico, recente Jimmy’s Hall (2015), rimane comunque uno dei punti cardine della filmografia di Loach nel primo decennio del nuovo millennio, uno dei suoi film meglio riusciti e più felicemente azzeccati, grazie anche alla tristezza e malinconia di fondo che evitano accuratamente di tramutarsi in resa o in un moto che spinga verso di essa.
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luca scial�
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lunedì 7 settembre 2015
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una vita segnata
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In un quartiere degradato della Scozia vive Lyam, quindici anni. La madre è in carcere, il padre chissà dove. La sorella vive da sola con un figlio piccolo. Intorno, un contesto fatto di cattive strade. Quelle che in quella tenera età è facile imboccare. Di fatti, sognando un futuro diverso per la madre che a breve uscirà dal carcere e per la sorella che cerca un futuro migliore per il proprio figlioletto, inizia a spacciare droga con l'amico fraterno Flipper, finendo pure per litigare con lui.
Ken Loach ci racconta l'adolescenza difficile, con la sua solita crudezza e senza fronzoli. Un tema già trattato in uno dei suoi primissimi film Kes, ma che qui assume un respiro più ampio e sociale.
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In un quartiere degradato della Scozia vive Lyam, quindici anni. La madre è in carcere, il padre chissà dove. La sorella vive da sola con un figlio piccolo. Intorno, un contesto fatto di cattive strade. Quelle che in quella tenera età è facile imboccare. Di fatti, sognando un futuro diverso per la madre che a breve uscirà dal carcere e per la sorella che cerca un futuro migliore per il proprio figlioletto, inizia a spacciare droga con l'amico fraterno Flipper, finendo pure per litigare con lui.
Ken Loach ci racconta l'adolescenza difficile, con la sua solita crudezza e senza fronzoli. Un tema già trattato in uno dei suoi primissimi film Kes, ma che qui assume un respiro più ampio e sociale. Il finale rievoca I 400 colpi. In fondo, la vita di Lyam e quela di Antoine sono molto simili. Così come ad accomunarli è un futuro incerto, probabilmente difficile, e tutto da navigare. Come quel mare che si trovano di fronte.
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figliounico
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venerdì 1 dicembre 2023
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tra mamma roma e gomorra
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Ciò che colpisce di questo film del 2002, sceneggiato da Paul Laverty e diretto da Ken Loach, girato in stile neorealista ed ambientato nella periferia suburbana di Glasgow con protagonisti due giovani sottoproletari coinvolti naturalmente nelle attività criminali degli adulti, è la somiglianza eclatante del suo plot con l’episodio di Marco e Ciro del Gomorra di Garrone del 2008, talmente evidente da far pensare a qualcosa di più di una semplice coincidenza di ispirazioni autoriali a distanza di tempo. Il rapporto simbiotico ed al tempo stesso doloroso tra il giovane protagonista, interpretato da Martin Compston, e la madre, ricorda poi, almeno in parte, quello di Mamma Roma. E’ la riproposizione in un contesto tematico decisamente laico di un archetipo religioso che ha influenzato tutta la cultura occidentale e non soltanto quella cattolica cui era legato Pasolini ovvero quello dell’amore straziante del Gesù destinato al martirio per la Madonna.
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Ciò che colpisce di questo film del 2002, sceneggiato da Paul Laverty e diretto da Ken Loach, girato in stile neorealista ed ambientato nella periferia suburbana di Glasgow con protagonisti due giovani sottoproletari coinvolti naturalmente nelle attività criminali degli adulti, è la somiglianza eclatante del suo plot con l’episodio di Marco e Ciro del Gomorra di Garrone del 2008, talmente evidente da far pensare a qualcosa di più di una semplice coincidenza di ispirazioni autoriali a distanza di tempo. Il rapporto simbiotico ed al tempo stesso doloroso tra il giovane protagonista, interpretato da Martin Compston, e la madre, ricorda poi, almeno in parte, quello di Mamma Roma. E’ la riproposizione in un contesto tematico decisamente laico di un archetipo religioso che ha influenzato tutta la cultura occidentale e non soltanto quella cattolica cui era legato Pasolini ovvero quello dell’amore straziante del Gesù destinato al martirio per la Madonna. La storia è tipica di un romanzo di formazione sebbene in negativo. La struttura caratteriale del personaggio principale evolve o meglio si involve su sé stessa dall’inizio alla fine senza che il protagonista abbia mai una reale alternativa rispetto alla vita che gli è stata destinata fin dalla nascita, ossia al suo ruolo di emarginato sociale condannato a delinquere per realizzare i propri sogni, nella fattispecie comprare una casa alla madre. La trama ben si accorda con la visione ideologica di Loach per cui il contesto non condiziona semplicemente ma determina senza scampo le scelte dell’individuo, con conseguente negazione del libero arbitrio e assimilazione dell’uomo alle macchine biologiche senz’anima di Voltaire.
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simone
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martedì 9 settembre 2003
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e questo sarebbe un film??
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sono uscito dalla sala arrabbiato e non tanto pe il fatto che loach non faccia altro che ripetere le stesse cose alla nausea, almeno prima lo faceva con retorica sì, ma un po' di sostanza c'era qui è come se si fosse alzato e si fosse messo a girare senza un filo logico senza una sceneggiatura degna di tale nome, musiche a caso senza un'idea che sia una. sale sul podio dei film peggiori che abbia mai visto, la parte più bella era la pubblicità prima del film.
[+] certo x te forse è troppo
(di lalli)
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[+] averne di film così in italia
(di paul86)
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