L'esordio nel cinema (anti)narrativo del regista gallese funziona come paradigma di tutta la sua espressione artistica, tra influenze pittoriche, allegorie e supremazia dell'immagine sul racconto
di Daniele D'Orsi Sentieri Selvaggi
Tra i cineasti che si sono formati nel campo dell'arte figurativa, pochi hanno avuto la capacità di tradurre l'estetica pittorica di partenza in un'espressione puramente (anti)cinematografica come Peter Greenaway. Eppure, nonostante questa propensione alla traduzione/decostruzione linguistica, in tutta la sua arte serpeggia un particolare senso di idoneità all'immagine in movimento, che la porta ad individuare nei soli spazi del grande schermo la sua dimensione più naturale e organica. È così, allora, che a quarant'anni dalla prima distribuzione in terra britannica, il film con cui Greenaway esordisce nel cinema di finzione dopo l'incursione nel mockumentary, cioè I misteri del giardino di Compton House, acquisisce immediatamente la funzione di testo paradigmatico. [...]
di Daniele D'Orsi, articolo completo (3781 caratteri spazi inclusi) su Sentieri Selvaggi 28 novembre 2022