Il collasso definitivo dell'ozonosfera condanna il mondo alla fine. L'ora X è prevista per le 4:44. Due amanti vivono le ultime quattordici ore di vita della Terra alternando passione e riflessioni, tra l'annuncio catastrofista di un telegiornale e gli addii ai cari via Skype.
Non bastano certo 80 minuti per riassumere le molte prospettive dell'angoscia umana di fronte alla fine del mondo. Abel Ferrara punta su una rassegnazione spaesata, dove l'inesorabilità della fine non si accompagna ad alcun delirio sociale e, se non in pochi frangenti, alla disperazione individuale.
Pochi pianti, poca follia, molta attesa che non si sa come riempire.
E' questo il tratto più inquietante di 4:44, in cui nemmeno le ultime ore bastano per costruire un senso provvisorio alla vita: si può far l'amore, dipingere un allusivo serpente che si morde la coda, chiedere perdono ai propri cari, senza che nulla di ciò restituisca all'uomo un che di completezza.
Last Day on Earth è un film che solo inizialmente sembra proporre l'edonismo come riempitivo per il prossimo nulla: ma anche la passione si smorza, addirittura Dafoe si addormenta dopo il rapporto sessuale arrabbiandosi con la bella Leigh per avergli fatto perdere minuti preziosi di vita non svegliandolo subito.
Ricorda, per molti versi, il coetaneo Melancholia, con cui condivide la prospettiva intima e non sociale dell'angoscia apocalittica (agghiacciante vedere come il traffico cittadino continui a scorrere nonostante tutto), ma con un tratto simbolico ridotto davvero all'osso. Escludendo la gigantesca aurora boreale che investe New York, Ferrara non si avvale di immagini epocali, né di sequenze visionarie che ispirano la follia dei protagonisti di Lars Von Trier, e che facevano della Dunst una sorta di totem allucinato del "presagio".
Qui è tutto più sobrio, minimalista, e sostanzialmente pragmatico. C'è la tecnologia, c'é Skype e la televisione con i messaggi più o meno retorici dei giornalisti fino a quello del Dalai Lama. L'aplombe zen che pervade il film, suggellato da un incipit con una sonata di sitar e un busto del Buddha velato dal fumo d'incenso, non veicola un vero e proprio messaggio religioso. La causa del disastro è meramente scientifica e colpevolizza l'essere umano con un messaggio politico neanche troppo velato: Al Gore was right. C'è anche il capriccio umano, quello più orgoglioso e infantile, che nemmeno la certezza della fine serve a smorzare.
Girato quasi interamente in un appartamento in chiaroscuro, con un paio di escursioni in terrazza, 4:44 è incredibilmente più umano, "vicino" dei vari blockbusters catastrofici, e al tempo stesso realistico, seppur con il difetto di una sensibilità a tratti generica e sparpagliata. Ma recuperata nel bellissimo abbraccio finale.
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