Ebbene sì, era ancora il 2003 quando due diplomandi, un italiano e una mongola, concessero questa piccola perla ai cinefili occidentali, ormai nauseati dalla colossale Hollywood, il "mostro" che non si ricicla. Periodo buono per commuovere "gli spettatori che contano", dunque.
Escludendo qualche ripresa un po' azzardata e qualche altro particolare meramente tecnico, siamo di fronte ad un prodotto quantomeno convincente. Considerandolo un documentario, un semplice documentario sulle tradizioni mongole più antiche, i fatti narrati non sono altro che il rifacimento davanti all'obbiettivo della vita nomade; una vita fresca e pura, ossigeno per l'occidente. Fermiamoci qui. Non è neccessario tentare di individuarci un affresco globale della concezione della vita (checché fosse nelle intenzioni dei registi). Si scadrebbe nell'immaturità artistica, nella goffa strumentalizzazione. E' il cammello nella steppa che piange. Non l'uomo.
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