fabiofeli
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giovedì 28 febbraio 2019
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"non sei di molte parole, tu."
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“Non sei di molte parole, tu.” esclama Bruno (Peter Kurth) rivolto a Christian (Franz Rogowski), il giovane neo-assunto nel reparto bevande del supermercato perso ai confini di un’autostrada tedesca nell’ex-Germania Est. Il ragazzo, in effetti, non dice molte parole, ma i suoi tatuaggi, che nasconde accuratamente, e le sue amicizie sballate parlano di una grana avuta con la giustizia; ma il suo sguardo è fin troppo eloquente quando si posa su Marion (Sandra Hűller, che ricordiamo perfetta nel ruolo della fredda e spigliata figlia del protagonista di Vi presento Toni Erdmann), esperta carrellista del reparto dolciumi in pausa davanti alla macchinetta del caffè.
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“Non sei di molte parole, tu.” esclama Bruno (Peter Kurth) rivolto a Christian (Franz Rogowski), il giovane neo-assunto nel reparto bevande del supermercato perso ai confini di un’autostrada tedesca nell’ex-Germania Est. Il ragazzo, in effetti, non dice molte parole, ma i suoi tatuaggi, che nasconde accuratamente, e le sue amicizie sballate parlano di una grana avuta con la giustizia; ma il suo sguardo è fin troppo eloquente quando si posa su Marion (Sandra Hűller, che ricordiamo perfetta nel ruolo della fredda e spigliata figlia del protagonista di Vi presento Toni Erdmann), esperta carrellista del reparto dolciumi in pausa davanti alla macchinetta del caffè. A sera clienti ed impiegati vengono congedati dalle note del Bel Danubio Blu di Strauss messe in onda da Rudi (Andreas Leupold) per comunicare che la giornata è terminata. Christian guadagna la fermata del suo autobus nel parcheggio di quel non-luogo per rientrare nel suo misero miniappartamento. Occasioni per cementare sparuti rapporti, come mini-feste di compleanno nella pausa-caffè, lezioni sulla manovra dei carrelli o il ruspare tra i prodotti alimentari scaduti gettati nella spazzatura, non mancano, ma in fondo ognuno sembra un’isola sconosciuta ai compagni di lavoro …
Il supermercato resta un triste luogo di consumo, con i suoi scaffali sterminati, con le regole rigide per sistemare le merci, perfino col suo vestito natalizio che ricorda ai consumatori che per le feste si può, anzi si deve spendere di più. Ma c’è chi ricorda l’epoca delle due Germanie come un passato felice: anche faticare alla guida di un tir ti faceva sentire parte di una squadra. Adesso fermi lì, in un luogo sperduto lontano dalle case, ci si sente isolati e i rapporti umani sono insoddisfacenti. Eppure l’urlo di un gesto sconsiderato di uno di loro riesce a rivelare che si è creato un gruppo solidale; non è del tutto vero che ognuno è completamente isolato, preda inerme della solitudine: anche quei pochi contatti sul lavoro, quelle poche frasi scambiate hanno cementato rapporti di umana solidarietà. Quella società fredda e sempre più disumanizzata, quasi per nulla diversa da quella descritta da Van Donnersmarck ne Le vite degli altri, non sembra offrire molto di meglio. Ma manovrare un carrello e scoprire che il rumore emesso simula la quieta risacca del mare è una scoperta felice, un approdo alla Poesia e all’Umanità. Un film venato dalla incomunicabilità dell’oggi, per nulla diversa da tante solitudini descritte da Antonioni: da non mancare.
Valutazione ****
FabioFeli
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angelo umana
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giovedì 8 agosto 2019
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favola triste e delicata
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A questo film si potrebbe abbinare la frase di una canzone di Mogol-Battisti: “è troppo grande la città per due che come noi non sperano però si stan cercando”. E' un film fatto di parole ma solo quelle necessarie, è più da sentire e lasciarsene prendere. Non c'è in realtà una grande città ma solo uno spazio sterminato, spoglio e non abitato attorno a un centro commerciale, affollato di scaffali e di muletti che girano tra essi e che spostano beni di consumo. Era una grossa ditta di trasporti prima della riunificazione delle due Germanie, così uno dei protagonisti, Bruno, che come altri ex autisti ora lavora nel grosso supermercato, dice tristemente di esser passato dalla guida di un tir a quella di un muletto.
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A questo film si potrebbe abbinare la frase di una canzone di Mogol-Battisti: “è troppo grande la città per due che come noi non sperano però si stan cercando”. E' un film fatto di parole ma solo quelle necessarie, è più da sentire e lasciarsene prendere. Non c'è in realtà una grande città ma solo uno spazio sterminato, spoglio e non abitato attorno a un centro commerciale, affollato di scaffali e di muletti che girano tra essi e che spostano beni di consumo. Era una grossa ditta di trasporti prima della riunificazione delle due Germanie, così uno dei protagonisti, Bruno, che come altri ex autisti ora lavora nel grosso supermercato, dice tristemente di esser passato dalla guida di un tir a quella di un muletto. I viaggi di un tempo gli mancano e sente che tra non molto sarà troppo anziano per il lavoro tra gli scaffali; vive in solitudine poco lontano, e solitudine è quella che si coglie tra i colleghi stessi, ognuno con la sua auto parcheggiata fuori dal negozio, la riprendono per tornare a casa la sera quando è già buio. Paiono avere un po' di vita sociale solo all'interno del posto di lavoro.
Ci sono i due della canzone però, che non sperano però si stan cercando. Uno è Christian, nuovo assunto che viene affiancato a Bruno; taciturno, un giovane di pochissime parole e osservante con zelo della disciplina del posto di lavoro, un aspetto fisso e inquietante ma di cui si indovina un'anima gentile, mostra una rabbia contenuta per un torto che deve aver subito prima di quell'impiego. Per mezzo del grembiule da lavoro copre con cura ogni mattina i numerosi tatuaggi sulle braccia e sul collo. L'altra è Marion, sposa ancora giovane a un marito col quale ci vengono suggeriti dei rapporti burrascosi. Non felice evidentemente, cerca una persona gentile e la trova nel nuovo collega, che lei chiama novellino. Si cercano, si piacciono, durante un'assenza prolungata di Marion, Bruno dice al triste Christian che Marion tornerà presto, poi ci sarai anche tu, vedrai... Li vedremo assieme alla sepoltura di Bruno, che si è voluto congedare da tutto e tutti, e a quella vista diresti che il cor si riconforta (questo è Leopardi) .
Nessuna scena di sesso consumato ed esibito, la passione si sente, i due al massimo si danno un saluto all'eschimese, sfiorandosi coi rispettivi nasi. Il valzer non è l'unica musica del film, ricco di altri motivi e sembrano giri di valzer quelli che fanno i muletti correndo tra gli scaffali. Un altro suono si ode tra quegli scaffali, è il fruscio del mare, e sembra rendere leggiadro e romantico quel posto anonimo. Una favola triste e delicata, un film che si gusta ancora di più vedendolo due volte, si potrebbe accostare alle parole di un'altra canzone: a tapestry to feel and see, impossible to hold...(Carole King).
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massimiliano santucci
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martedì 6 agosto 2019
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da non sottovalutare
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L'assenza di una trama avvincente ed un colpo di scena che non arriva mai potrebbero deludere i più. Se si ha la pazienza di seguire il film e magari di rifletterci a freddo, saranno certamente altri i fattori che ci porteranno ad apprezzarlo. Lo sguardo del regista è intimo e ma senza nulla svelare, l'ambientazione è volutamente grigia e retrò (non fosse per lo smartphone di Christian che suona una volta sola, lo si potrebbe collocare nei primi anni dopo la caduta del muro). Dal punto di vista sociale è notevole la rappresentazione dei "lavoratori anziani", la cui giovinezza e dignità professionale paiono un ricordo legato alla Germania ante "riunificazione" (episodio citato e quasi biasimato in almeno due occasioni da Bruno).
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L'assenza di una trama avvincente ed un colpo di scena che non arriva mai potrebbero deludere i più. Se si ha la pazienza di seguire il film e magari di rifletterci a freddo, saranno certamente altri i fattori che ci porteranno ad apprezzarlo. Lo sguardo del regista è intimo e ma senza nulla svelare, l'ambientazione è volutamente grigia e retrò (non fosse per lo smartphone di Christian che suona una volta sola, lo si potrebbe collocare nei primi anni dopo la caduta del muro). Dal punto di vista sociale è notevole la rappresentazione dei "lavoratori anziani", la cui giovinezza e dignità professionale paiono un ricordo legato alla Germania ante "riunificazione" (episodio citato e quasi biasimato in almeno due occasioni da Bruno). Lavoratori anziani che quasi ostentano il proprio "lavorare lento", oggi più che mai anacronistico e certamente in contrapposizione al volere di una più volte citata ma mai fisicamente presente dirigenza aziendale. Poi c'è Christian, protagonista e voce narrante, ventisettenne certamente nato dopo la caduta del muro, personaggio incantato che ha vissuto anche l'esperienza del carcere. E Marion, "desiderosa di tutto" che scopriamo "ben accasata" in una zona residenziale ma non meno triste del sobborgo. Donna infelice per un marito che "non la tratta bene" e inpiegabilmente dedita ad un lavoro monotono e poco gratificante. Ma l'asse portante del film sta proprio nell'anelito irrealizzato di ciò che lo spettatore si aspetta: uno spiraglio di sole sul viso dei protagonisti, la materializzazione di un desiderio (l'amore presente ma che non sboccia mai tra Christian e l'intrigante Marion). E poi l'altra grande chimera, il mare, probabile anelito di libertà per gli uomini così come per i pesci claustrobicamente rinchiusi in una vasca nell'attesa di essere venduti. Chiusi in una vasca per poi morire, così come Bruno, che dal magazzino bevande e da un'inconfessata solitudine, fugge attraverso un inaspettato suicidio. Degne di nota, infine, le colonne sonore, proprio a partire da "Danubio blu" di Strauss che dà inizio alle danze dei carrelli elevatori tra le corsie del supermercato; carrelli che si incrociano ma mai si scontrano, come le vite dei lavoratori, uniti in una bella squadra danzante ma mai sufficientemente armonici da migliorare le reciproche e grigie esistenze.
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cardclau
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giovedì 21 febbraio 2019
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umanità sconosciuta
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Il film di Thomas Stuber, un valzer tra gli scaffali, incomincia proprio a raccontare la sua storia con un movimento danzante di carrelli elevatori in un supermercato, sulle note del più celebre valzer, An der schönen blauen Donau (sul bel Danubio blu), di Johann Strauss: non può non strappare il sorriso allo spettatore, in previsione di quello che potrà succedere. Ma la storia poi si dipana, al contrario, in modo molto meno leggero, perché ci troviamo catapultati dentro, come in moltissimi altri posti nel mondo, in una realtà depressa, grigissima, dove il lavoro non solo “non nobilita” l’uomo, ma tende non dico ad umiliarlo (mi viene in mente il recente film Le nostre Battaglie, che ha aspetti anche persecutori), ma a non tutelarlo.
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Il film di Thomas Stuber, un valzer tra gli scaffali, incomincia proprio a raccontare la sua storia con un movimento danzante di carrelli elevatori in un supermercato, sulle note del più celebre valzer, An der schönen blauen Donau (sul bel Danubio blu), di Johann Strauss: non può non strappare il sorriso allo spettatore, in previsione di quello che potrà succedere. Ma la storia poi si dipana, al contrario, in modo molto meno leggero, perché ci troviamo catapultati dentro, come in moltissimi altri posti nel mondo, in una realtà depressa, grigissima, dove il lavoro non solo “non nobilita” l’uomo, ma tende non dico ad umiliarlo (mi viene in mente il recente film Le nostre Battaglie, che ha aspetti anche persecutori), ma a non tutelarlo. Comprendo che l’argomento non sia spumeggiante o eccitante, che lo spettatore non torni a casa rinvigorito, bensì disarmato perché ha a che fare con un personale umano reificato dal lavoro. Non ci sono effetti speciali, né facili e scontate sdolcinature, forse è un po’ lento, ma è la storia di quella umanità sconosciuta, che non finisce mai sui libri di storia, a volte nelle pagine di cronaca dei giornali perché è andata fuori di matto. Quella che ci racconta Thomas Stuber è molto particolare, e colpisce ed impressiona, perché evita il clima acido di una nevrosi che soddisfa se stessa solo nel fare malegrazie agli altri, mentre respira, ed è un inno, alla solidarietà, comprensione e tolleranza, umanità, fra gli operai. Non si capisce come, ma tutti sanno degli altri più cose, dettate da un genuino interesse per la vita degli altri, quindi della propria, che non da una morbosa curiosità. È la storia di Christian, di Marion, di Bruno, del personale operaio di un grande supermercato di una provincia dell’ex Germania Est. Di Christian non sappiamo molto (un Franz Rogowski di pochissime parole in cui la splendida recitazione è basata fondamentalmente sulle immagini, come in un film muto), è appena stato rilasciato dal carcere, aveva preso due anni perché rubava con dei complici ma essendo minorenne gli era stata data la possibilità di “essere perdonato”, quindi gli era stato offerto un lavoro, quello di mettere a posto scaffali per i clienti in un supermercato, che cerca di apprendere con una serietà che fa tenerezza. Marion (Sandra Huller, la brava Ines di Vi presento Toni Erdman) è l’addetta agli scaffali dei dolciumi, molto femminile, si racconta che venga maltrattata dal marito, ma vive in una casa singola molto confortevole, scuote Christian dal suo isolamento esistenziale, e lo coinvolge in un’avventura che rimane sospesa nell’aria, irrisolta, che dà spazio più all’immaginazione che alla realtà. Bruno (un convincente Peter Kurth), ex autista di TIR, finito per forza a fare quel lavoro, per la riconversione, in lotta impari con la solitudine, professore di muletto e scaffalature sempre fornite di bevande, sufficientemente buono.
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