gianni lucini
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domenica 23 ottobre 2011
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i rischi di un cast stellare
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Sono affari di famiglia arriva nelle sale nel 1989, cioè ben quattro anni dopo l’acquisto dei diritti sul romanzo “Family Business” di Vincent Patrick da parte della Twentieth-Century Fox, il cui atto porta la data del 1985. Il ritardo, non così raro sulla scena hollywoodiana, nasconde però una serie di problemi. Il primo dei quali è che l’accordo di cessione dei diritti cinematografici tra la casa di produzione e l’autore prevede che quest’ultimo si occupi anche della sceneggiatura e possa manifestare opinioni in ogni fase della lavorazione del film. Ugualmente problematica appare la scelta della stessa Twentieth-Century Fox di puntare su un cast stellare con gli inevitabili rischi di frizioni e incomprensioni tra primedonne.
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Sono affari di famiglia arriva nelle sale nel 1989, cioè ben quattro anni dopo l’acquisto dei diritti sul romanzo “Family Business” di Vincent Patrick da parte della Twentieth-Century Fox, il cui atto porta la data del 1985. Il ritardo, non così raro sulla scena hollywoodiana, nasconde però una serie di problemi. Il primo dei quali è che l’accordo di cessione dei diritti cinematografici tra la casa di produzione e l’autore prevede che quest’ultimo si occupi anche della sceneggiatura e possa manifestare opinioni in ogni fase della lavorazione del film. Ugualmente problematica appare la scelta della stessa Twentieth-Century Fox di puntare su un cast stellare con gli inevitabili rischi di frizioni e incomprensioni tra primedonne. Per gli attori la scelta cade su due nomi di sicuro effetto come quelli di Dustin Hoffman e Sean Connery oltre che sulla stella emergente di Matthew Broderick, entrato nelle grazie del grande pubblico qualche anno prima con Wargames - Giochi di guerra di John Badham. La regia viene affidata a una vecchia e talentuosa volpe del cinema come Sidney Lumet il quale sceglie di ambientare le vicende di questa commedia famigliare tinta di giallo nella città nella quale si trova più a suo agio, cioè New York. La scelta degli attori è quella che crea le maggiori perplessità. Non poche sono le critiche alla scelta di affidare a Sean Connery la parte del padre di Dustin Hoffman, visto che tra i due ci sono soltanto sette anni di differenza. Sean Connery è nato nel 1930 e Dustin Hoffman nel 1937. In aggiunta viene fatto notare che il ruolo paterno rischia di “ingessare” troppo il personaggio dell’attore scozzese che nello stesso anno ha già vestito i panni di Harrison Ford nel film Indiana Jones e l'ultima crociata. Lo stesso Dustin Hoffman viene messo in discussione dall’autore del libro oltre che sceneggiatore con qualche diritto a dire la sua su tutto. Nella fase precedente alla composizione del cast Vincent Patrick avrebbe, infatti, manifestato più di un dubbio sulla scelta di Hoffman lasciando intendere che nella costruzione del personaggio di Vito si sarebbe ispirato a Robert De Niro. Per qualche tempo lo scrittore fa le bizze e si lascia andare a dichiarazioni azzardate, colte al volo e rilanciate dai magazine specializzati in gossip. Tra le tante ce n’è una particolarmente sgradevole sulla statura dell’attore: «Dustin Hoffman? Bravo, bravissimo ma è troppo piccolo. Francamente è difficile immaginarlo nei panni del figlio di un attore dalla corporatura da gigante come Sean Connery». L’esperienza di Sidney Lumet si dimostra preziosa nella gestione del gruppo. Il risultato è un film estremamente gradevole, accolto con qualche scetticismo ma rivalutato nel tempo.
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carloalberto
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venerdì 10 luglio 2020
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commedia agrodolce con due mostri del cinema
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Una commedia agrodolce con due grandi del cinema a confronto in una New York in cui predomina il marrone degli edifici tutti uguali del Bronx, vista dall’alto di un terrazzo di uno dei tanti anonimi palazzoni in cui vive la gente che passa oscuramente e di cui nulla resta, con le macchine che scorrono giù nelle strade, gli echi delle sirene della polizia, e dalla prospettiva di un mucchietto di polvere bianca che scivola via portata dal vento e che all’inizio potrebbe sembrare un grumo di neve e nella scena finale si rivela come quello che resta di una storia tra le tante che scorrono via in una grande città senza lasciare traccia e che Lumet ha voluto raccontare perché almeno questa valeva la pena d’essere ricordata.
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Una commedia agrodolce con due grandi del cinema a confronto in una New York in cui predomina il marrone degli edifici tutti uguali del Bronx, vista dall’alto di un terrazzo di uno dei tanti anonimi palazzoni in cui vive la gente che passa oscuramente e di cui nulla resta, con le macchine che scorrono giù nelle strade, gli echi delle sirene della polizia, e dalla prospettiva di un mucchietto di polvere bianca che scivola via portata dal vento e che all’inizio potrebbe sembrare un grumo di neve e nella scena finale si rivela come quello che resta di una storia tra le tante che scorrono via in una grande città senza lasciare traccia e che Lumet ha voluto raccontare perché almeno questa valeva la pena d’essere ricordata. E’ la storia di un uomo fuori dal comune, un ladro di professione vecchia maniera, stile Lupin, spiritoso e garbato e al tempo stesso duro e volgare, gentile con le signore, anche se sono delle prostitute, violento con i razzisti, anche se indossano una divisa, un anarchico che ha scelto il crimine come libertà e ribellione verso una società che detesta ed in cui la gente di solito, con malcelata ipocrisia, ruba senza infrangere la legge. La cosa più odiosa e immorale che ci sia. “Rubare a qualcuno legalmente senza correre rischi, senza mettersi in gioco, è immorale, dove l’hai trovata questa parassita del cazzo” è la frase che Sean Connery, alias Jessie McMullen, rivolge a suo nipote, un giovanissimo Matthew Broderick,che presenta alla famiglia la sua nuova compagna che lucra approfittando delle sofferenze altrui. Tre generazioni unite in un’impresa criminale, il nonno, delinquente convinto che ha sperperato il maltolto godendosi la vita, il figlio ravveduto, che ha fatto i soldi vendendo carne all’ingrosso, ma froda il fisco e ci tiene ad essere considerato una brava persona, il nipote, che potrebbe godere i frutti del lavoro paterno, svolgendo una onesta e ben remunerata professione, ed invece è affascinato dal nonno fino a volerne emulare le gesta, forse perché disgustato dal perbenismo del padre. Sullo sfondo il coro multietnico degli abitanti della metropoli, la famiglia israelita della moglie di Dustin Hoffman, Vito Mc Mullen, il macellaio, che conserva le proprie tradizioni festeggiando la pasqua ebraica, la Pèsach, lo stesso Vito, figlio di uno scozzese e di una siciliana e l’operaio portoricano interpretato da Luis Guzman. Ma è nei funerali che il coro si manifesta, cantando in onore del defunto e dove la gente si mischia e il ladruncolo e il poliziotto bevono birra insieme, come a dire che di fronte alla morte le differenze razziali ed i ruoli che ognuno ha interpretato nella vita non contano, tutti uguali, tutti destinati come polvere alla carezzevole leggerezza del vento. Con leggerezza ed eleganza Lumet ha narrato una storia tra le tante, fermando su celluloide, grazie a personaggi vivificati da formidabili attori, ciò che altrimenti si sarebbe perso per sempre nel rumore del traffico cittadino, la voce fuori dal coro di un uomo che ha vissuto come ha voluto, lasciando come ricordo un sorriso in chi lo ha conosciuto.
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gianni lucini
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domenica 23 ottobre 2011
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il talento al servizio del personaggio
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Una parte neppure troppo marginale della critica sostiene che, proprio a partire da Sono affari di famiglia, l’eccessiva caratterizzazione “di genere” dei film interpretati da Dustin Hoffman finisce per limitare il suo talento interpretativo costringendolo al rispetto della parte e privandolo di quelle improvvisazioni che spesso arricchisce i suoi personaggi. L’opinione, rispettabile, appare un po’ superficiale se riferita a questo film proprio alla luce di alcuni squarci interpretativi frutto di un lavoro personale in particolare nel rapporto tra padre e figlio. Impressionante è l’effetto emotivo di momenti come il silenzio impietrito con cui assiste alla cattura di Adam da parte della polizia o l’invidia gelosa nei confronti di Sean Connery che gli “soffia” l’unica visita giornaliera al figlio incarcerato.
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Una parte neppure troppo marginale della critica sostiene che, proprio a partire da Sono affari di famiglia, l’eccessiva caratterizzazione “di genere” dei film interpretati da Dustin Hoffman finisce per limitare il suo talento interpretativo costringendolo al rispetto della parte e privandolo di quelle improvvisazioni che spesso arricchisce i suoi personaggi. L’opinione, rispettabile, appare un po’ superficiale se riferita a questo film proprio alla luce di alcuni squarci interpretativi frutto di un lavoro personale in particolare nel rapporto tra padre e figlio. Impressionante è l’effetto emotivo di momenti come il silenzio impietrito con cui assiste alla cattura di Adam da parte della polizia o l’invidia gelosa nei confronti di Sean Connery che gli “soffia” l’unica visita giornaliera al figlio incarcerato. A dispetto di chi lo vorrebbe prigioniero nelle rigide regole del genere Hoffman “lavora” con il corpo come sempre applicando le lezioni antiche dell’Actor’s Studio e il suo patrimonio tecnico non risparmiandoci neppure gli scatti di violenza imprevisti e feroci, tipici dei suoi personaggi, nei confronti del figlio al ristorante o di un suo dipendente. Il suo è un personaggio non riconciliato con il padre e che si sente “saltato” da un figlio che vede nel nonno il suo punto di riferimento. Questo disagio è sottolineato spesso da una gestualità tipica di Hoffman, fatta di sguardi, di movimenti fuori tempo tesi a sottolineare la sua sostanziale solitudine di fronte all’intesa tra nonno e nipote. È vero che in Vito non è il frutto del meticoloso processo di costruzione tipico dei grandi personaggi di Hoffman, ma l’attore in nessun momento dà l’impressione di rinunciare a mettere il suo talento al servizio del personaggio.
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