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Una parte neppure troppo marginale della critica sostiene che, proprio a partire da Sono affari di famiglia, l’eccessiva caratterizzazione “di genere” dei film interpretati da Dustin Hoffman finisce per limitare il suo talento interpretativo costringendolo al rispetto della parte e privandolo di quelle improvvisazioni che spesso arricchisce i suoi personaggi. L’opinione, rispettabile, appare un po’ superficiale se riferita a questo film proprio alla luce di alcuni squarci interpretativi frutto di un lavoro personale in particolare nel rapporto tra padre e figlio. Impressionante è l’effetto emotivo di momenti come il silenzio impietrito con cui assiste alla cattura di Adam da parte della polizia o l’invidia gelosa nei confronti di Sean Connery che gli “soffia” l’unica visita giornaliera al figlio incarcerato. A dispetto di chi lo vorrebbe prigioniero nelle rigide regole del genere Hoffman “lavora” con il corpo come sempre applicando le lezioni antiche dell’Actor’s Studio e il suo patrimonio tecnico non risparmiandoci neppure gli scatti di violenza imprevisti e feroci, tipici dei suoi personaggi, nei confronti del figlio al ristorante o di un suo dipendente. Il suo è un personaggio non riconciliato con il padre e che si sente “saltato” da un figlio che vede nel nonno il suo punto di riferimento. Questo disagio è sottolineato spesso da una gestualità tipica di Hoffman, fatta di sguardi, di movimenti fuori tempo tesi a sottolineare la sua sostanziale solitudine di fronte all’intesa tra nonno e nipote. È vero che in Vito non è il frutto del meticoloso processo di costruzione tipico dei grandi personaggi di Hoffman, ma l’attore in nessun momento dà l’impressione di rinunciare a mettere il suo talento al servizio del personaggio.
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