gabriella
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venerdì 4 novembre 2022
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lezione di stile
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Ogni tanto bisognerebbe trovare il tempo per fermarsi, riflettere e ascoltare, osservare le piccole cose della quotidianità e apprezzarle, assaporarle, potrebbero stupirci. E' quello cui ci invita Gianni De Gregorio, che con la sua discrezione, la sua gentilezza e la sua pacatezza, ne ha fatto il segno distintivo dei suoi film, piccoli gioielli che brillano per purezza e semplicità. Il suo Astolfo è un pensionato settantenne costretto a lasciare la sua amata Roma per uno sfratto improvviso e trasferirsi in un paesino del centro Italia non ben identificato , dove possiede una casa che quasi non sapeva di avere.
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Ogni tanto bisognerebbe trovare il tempo per fermarsi, riflettere e ascoltare, osservare le piccole cose della quotidianità e apprezzarle, assaporarle, potrebbero stupirci. E' quello cui ci invita Gianni De Gregorio, che con la sua discrezione, la sua gentilezza e la sua pacatezza, ne ha fatto il segno distintivo dei suoi film, piccoli gioielli che brillano per purezza e semplicità. Il suo Astolfo è un pensionato settantenne costretto a lasciare la sua amata Roma per uno sfratto improvviso e trasferirsi in un paesino del centro Italia non ben identificato , dove possiede una casa che quasi non sapeva di avere. Avrà l'occasione di conoscere persone sole come lui, seppure inquilini abusivi, riallaccciare i rapporti con un parente e infine l’incontro con Stefania, che gli aprirà la possibilità di un futuro con il quale pensava di non avere più niente a che fare. Il film ha il coraggio di guardare avanti senza negarsi le occasioni che la vita offre , di osare in entusiasmo e ottimismo e leggerezza. Certo, Astolfo non ha la vivacità trascinante di “ Pranzo di ferragosto”, né lo slancio poetico di “Lontano lontano”, però possiede una genuina sincerità che commuove
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eugenio
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sabato 4 febbraio 2023
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la garbata malinconia del professore
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Il cinema di Gianni di Gregorio ricorda per leggerezza e al tempo stesso profondità di stile Jacques Tati, con un personaggio, il professore, emblematico per garbo, qualità dimenticata nella società oggigiorno.
Molte delle pellicole, se non la totalità del regista/attore romano classe 1949, hanno il pregio di toccare temi quasi universali che spaziano dalla solitudine umana di città deserte (Pranzo di Ferragosto), alla necessità di riuscire a campare lasciando ardere la fiammella dell’amore, pragmaticamente rivolto a trovar un senso a quello che senso sembra non averne. E la bravura di Di Gregorio è quella di riuscirci attingendo ad esperienze personali e traducendo, con un realismo favolistico, il suo punto di vista sul mondo, invero umano perché il protagonista delle sue pellicole (lui stesso) non è un pessimista leopardiano, ma anzi, un Cechov moderno capace di trasmettere scampoli di empatia rara in una società che esalta il successo e la sconfitta come onta e umiliazione.
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Il cinema di Gianni di Gregorio ricorda per leggerezza e al tempo stesso profondità di stile Jacques Tati, con un personaggio, il professore, emblematico per garbo, qualità dimenticata nella società oggigiorno.
Molte delle pellicole, se non la totalità del regista/attore romano classe 1949, hanno il pregio di toccare temi quasi universali che spaziano dalla solitudine umana di città deserte (Pranzo di Ferragosto), alla necessità di riuscire a campare lasciando ardere la fiammella dell’amore, pragmaticamente rivolto a trovar un senso a quello che senso sembra non averne. E la bravura di Di Gregorio è quella di riuscirci attingendo ad esperienze personali e traducendo, con un realismo favolistico, il suo punto di vista sul mondo, invero umano perché il protagonista delle sue pellicole (lui stesso) non è un pessimista leopardiano, ma anzi, un Cechov moderno capace di trasmettere scampoli di empatia rara in una società che esalta il successo e la sconfitta come onta e umiliazione.
La fragilità emotiva che pare essersi accentuata nel lockdown, quell’unione una volta alla base di ogni comunità civile, sanguina nelle ferite interiori dei protagonisti dei suoi film che cercano di ribellarsi, di fantasticare su una possibile evasione, rimanendo avvinti al piccolo sottotesto della realtà romana (Lontano,Lontano). Ed invero, Astolfo, ultimo lavoro del regista, non si allontana molto da tale contesto, ma compie quasi un’involuzione, perché dalla città, Roma, eterna protagonista, sposta l’attenzione alla provincia, un piccolo comune (Artena) abbarbicato sui colli col pretesto di uno sfratto (gentilmente eseguito). Indorata la pillola dalla padrona di casa che deve ristrutturare l’appartamento per permettere alla figlia di poter vivere tranquillamente la sua vita dopo il matrimonio, il nostro Astolfo appunto, il professore, torna alle sue radici nel comune natio ritrovando una casa malmessa, con tanto di crepe, un occupante abusivo e persino un muro eretto dal prete locale vicino, che senza remore, approfittando dell’assenza del proprietario, gli ha pure rubato il salotto.
Adesso vado in comune e faccio un casino così le parole del nostro professore, dinoccolato, dagli occhi scavati e magro come un chiodo, peccato che pure il sindaco, inesistente e assai interessato a garantire i benefici della sua comfort zone piuttosto che quelli della comunità che rappresenta, tanto corretto non è, essendosi impadronito dei terreni dove crescevano le querce degli antenati del nostro professore.
Insomma, ad Astolfo, non va giù l’angheria del rappresentante istituzionale, l’atteggiamento sornione del parroco, il classico rapporto ambivalente tra istituzione laica, lo Stato, e religiosa, il clero (con tanto di ordini monastici che si sono assicurati le ville e i palazzi più belli della capitale), eppure non perde nemmeno per un momento il senno, anzi.
Mantiene quella lucida serenità, figlia di una mitezza in perfetta armonia con l’universo. E ci riesce empatico, simpatico, insomma un antieroe. Uno di noi, che guida una Panda 750 bianca mezza scassata, che ha una cucina col fornello che per poco non salta in aria, che condivide la magione a pezzi con un simpatico abusivo, che ospita pure un ragazzo e un vecchietto, capace di donare ai piatti quel sapore familiare e genuino. Un uomo generoso che si innamora di Stefania (Stefania Sandrelli), con un sentimento così puro e garbato, lontano dalle tante commedie di amore senile americano, finendo pure osteggiato dai figli di lei che lo credono appunto uno spiantato, basandosi unicamente sulle maldicenze del prete o sul dimesso aspetto fisico. Ma l’amore di Astolfo è puro, semplice come quel bicchiere di vino bevuto in compagnia, in una combriccola di poveri diavoli, reietti forse dalla vita, ma tutto sommato cuor contenti, perché nulla manca a loro, nemmeno quell’inusitata malinconia che fa guardare alla luna con quel sentimento così primigenio, così autentico da sembrare irreale.
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